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La nascita dell’ Operaismo

liberamente tratto da uno scritto di Claudio Albertani


C’era una volta la classe
operaia
 

La corrente marxista che è
conosciuta in Italia sotto il nome di operaismo è nata negli anni ’60 attorno
alle riviste Quaderni Rossi e Classe operaia. Tra i collaboratori più
importanti vi erano Raniero Panzieri, Romano Alquati, Mario Tronti, Sergio
Bologna, Alberto Asor Rosa, Gianfranco Faina e lo stesso Toni Negri (9).
All’epoca, l’Italia viveva la fine del capitalismo agrario e del miracolo
economico. Erano gli anni oscuri della guerra fredda e il paese subiva la
duplice ingerenza degli Stati Uniti e di Mosca. Dietro una facciata minacciosa,
il PCI accettava di buon grado le regole del gioco che implicavano il suo
allontanamento permanente dal potere centrale in cambio di una quota (ridotta)
di potere locale.

La figura dominante nelle lotte
sociali era quella dell’operaio professionale, vale a dire quella di un
lavoratore che esercita ancora un certo controllo sul processo produttivo, che
possiede un bagaglio importante di conoscenze tecniche e che pensa di poter
amministrare l’impresa meglio del padrone. Si aveva a che fare, nell’occasione,
con lavoratori dotati di una forte memoria storica e di una coscienza
antifascista molto marcata, che dichiaravano orgogliosamente di
"appartenere alla nazione operaia" (10).

Le cose non tardarono a cambiare.
La fuga dalle campagne, il decollo industriale, la crescita del settore
terziario e la diffusione dei consumi di massa, tutto questo modificò
profondamente la struttura sociale del paese
. L’esistenza di settori operai non
qualificati non era certo una cosa nuova, ma in quel momento le industrie del
nord ebbero un bisogno crescente di manodopera a buon mercato al fine di dare
un impulso allo sviluppo del settore automobilistico e petrolchimico. Il ciclo
produttivo fu parcellizzato e, con la diffusione della catena di montaggio,
sorse una nuova generazione di giovani immigrati dal sud, che non avevano né
cultura politica, né i valori della Resistenza
. Essi vivevano una situazione
particolarmente difficile, perché la società locale non li accettava e i
sindacati non si fidavano di loro. Nondimeno, essi stavano per diventare gli
attori di importanti movimenti di protesta sociale.

La riflessione di Quaderni Rossi, il cui primo numero uscì
nel 1961, fu consacrato all’analisi di questa nuova e complessa realtà. La
rivista era editata a Torino, centro nevralgico della FIAT e delle nuove forme
di organizzazione del lavoro. Il suo direttore, Raniero Panzieri, era un
ex-dirigente del Partito socialista, di tendenze luxemburghiane, che manteneva
rapporti con la sinistra internazionale non-stalinista. Qualche anno prima,
nelle polemiche Tesi sul controllo
operaio
, egli aveva difeso l’idea di una democrazia operaia di base e
sostenuto che "il partito, concepito all’inizio come strumento di classe
diventa, alla fine, lui stesso uno strumento per l’elezione dei deputati e un
elemento di conservazione" (11).


Panzieri voleva emancipare il
marxismo dal controllo dei partiti politici e assumere "un punto di vista
operaio"
, realizzando Marx a partire dalla lotta di classe (12). Egli
concentrava la sua attenzione sulla pianificazione, e interpretava il capitale
come potere sociale e non più solamente come proprietà privata dei mezzi di
produzione. Intervenendo direttamente nella produzione, lo Stato non era più
solamente il garante, ma l’organizzatore dello sfruttamento.


Nella quarta sezione del tomo I
del Capitale, egli trovò i concetti
di "comando capitalista", di "operaio sociale"
("trabajador colectivo", nella traduzione spagnola che ho consultato
(13)) e di "antagonismo" che sono rimasti in seguito dei referenti
teorici inevitabili dell’operaismo. Panzieri fu, soprattutto, uno dei primi a
studiare opere di Marx fino ad allora praticamente sconosciute, come i Grundrisse (in particolare il passaggio
sulle macchine) e il VI capitolo (inedito) del Capitale, recuperando il concetto fondamentale di "critica
dell’economia politica" e le categorie di "sussunzione formale"
e "reale" del lavoro al capitale (14). 

Mentre la sinistra ufficiale si
impantanava nell’ideologia dello sviluppo, Panzieri studiava l’intreccio fra la
tecnologia e il potere
e ciò lo conduceva all’idea che l’incorporazione della
scienza nel processo produttivo è un momento chiave del dispotismo capitalista
e dell’organizzazione dello Stato
.


In tal modo, Panzieri realizzava
un’inversione del marxismo ortodosso – una vera rivoluzione copernicana – e
apriva la strada alla critica delle ideologie sociologiche, principalmente
della teoria dell’organizzazione, che egli interpretava come delle tecniche
destinate a neutralizzare le lotte operaie
(15). Ben più di altri, questo
autore prematuramente scomparso (morì nel 1964) ha tentato di costruire un
pensiero politico distinto dal pensiero comunista, emancipandosi dallo schema
di "intellettuale organico", dove l’intellettuale è molto meno
l’espressione organica della classe operaia che del solo partito.


Un altro dei personaggi più
importanti di questa prima fase fu Romano Alquati, che iniziò a condurre delle
inchieste empiriche nelle officine, ricorrendo al metodo della "inchiesta
partecipativa" (conricerca), la quale implicava un rapporto tra uguali tra
il soggetto e l’oggetto della ricerca – tra intellettuale e operaio – in vista
di una liberazione comune.


Alquati battezzò col nome
"operaio massa" il nuovo soggetto politico: i lavoratori immigrati
non qualificati e totalmente separati dai mezzi di produzione, i quali sono
sulla via di soppiantare l’operaio professionale. L’operaio massa era la
concretizzazione di tre fenomeni paralleli: 1) il fordismo, vale a dire la
produzione di massa e la rivoluzione del mercato; 2) il taylorismo, ovvero
l’organizzazione scientifica del lavoro e la catena di montaggio; 3) il
keynesismo, cioè le politiche capitaliste di ampia portata del Welfare state.
L’insieme di queste misure esprimeva la risposta del capitale agli operai
pronti a "l’assalto al cielo" nel corso degli anni ’10-’20 del XX°
secolo.


Gli operaisti pensavano che, in
Italia come altrove, le grandi trasformazioni fordiste fossero già arrivate a
completamento e si era in vista del "rifiuto del lavoro", ovvero
dell’alienazione totale dell’operaio nei riguardi dei mezzi di produzione che
sfociava nell’assenteismo e in una rimessa in questione più radicale del
meccanismo dello sfruttamento.


Da questo punto di vista, la storia
della classe operaia appariva come un formidabile romanzo epico, dove le grandi
trasformazioni produttive, dalla rivoluzione industriale fino all’automazione,
sembravano promettere la realizzazione progressiva del più vecchio sogno
dell’umanità: liberarsi della fatica del lavoro
.


Un tale approccio si scostava
radicalmente dall’etica del lavoro che era il cavallo di battaglia del PCI.
Così Sergio Bologna: "Quaderni Rossi
ha macinato l’egemonia sulle presse
di Mirafiori" che era un modo elegante di dire che la rivista si
allontanava dal pensiero del fondatore del partito, Antonio Gramsci (16).


Secondo me, il rapporto degli
operaisti con Gramsci
è più complesso di quanto non appaia: se essi non
approvano lo storicismo di quest’ultimo (Tronti e Asor Rosa, per esempio, erano
stati allievi di Galvano Della Volpe, un anti-gramsciano convinto) apprezzavano
tuttavia le note su Americanismo e
fordismo
, dove Gramsci presentava la transizione verso nuove forme di
dominio capitalista. Come Gramsci, essi seguivano attentamente le
trasformazioni del capitalismo americano: "in America, scriveva Gramsci,
la razionalizzazione ha determinato la necessità di elaborare un nuovo tipo
umano conforme al nuovo tipo di lavoro e di processo produttivo" (17).


Ben presto, gli operaisti ebbero
la certezza che il fenomeno dell’emigrazione interna tendeva a rendere effimeri
gli antichi disequilibri tra nord e sud, centro delle preoccupazioni di
Gramsci. E questo non perché il capitalismo italiano li avrebbe soppressi ma,
al contrario, perché la "questione meridionale" era in via di
estendersi all’intero paese, in particolare nelle fabbriche del nord, dove si
accumulava la rabbia di questo nuovo proletariato.


Uno dei successi di questi
autori fu l’elaborazione del concetto di "composizione di classe".
Allo stesso modo che, per Marx, la composizione organica del capitale esprime
una sintesi tra composizione tecnica e valore, per gli operaisti la
composizione di classe mette l’accento sul legame fra tratti tecnici oggettivi
e tratti politici soggettivi. La sintesi tra i due aspetti determina il
potenziale sovversivo delle lotte
, e questo permette di dividere la storia in
periodi, ciascuno dei quali è caratterizzato dalla presenza di una figura
"dinamica"
. 


Ogni volta, il capitale risponde
ad una certa composizione di classe con una ristrutturazione alla quale succede
una ricomposizione politica della classe, ovvero con il sorgere di una nuova
figura "dinamica"
(18). Allo stesso modo, le differenti espressioni
di questa ricomposizione favoriscono una "circolazione delle lotte"


Nell’estate del 1960, si era
potuta osservare una prima manifestazione di questa nuova composizione quando,
in occasione di un Congresso dell’M.S.I. (che appoggiava allora un governo di
centro-destra) che avrebbe dovuto tenersi a Genova, una serie di violente
manifestazioni aveva scosso la città e anche altre località d’Italia. Ci furono
diversi morti, quasi tutti giovani, e la stampa aveva parlato, con tono di
disprezzo, di "una ribellione di teddy-boys" (secondo l’espressione
allora di moda). Di converso, in una cronaca scritta da un autore vicino
all’operaismo, noi leggiamo che "i fatti di luglio sono la manifestazione
di classe di questa nuova generazione cresciuta nel clima del dopoguerra. […]
Una generazione che si pone fuori dai partiti" (19).


Nel 1962, esplode la questione
FIAT. Scaduto il contratto di lavoro del settore, l’azienda si trova al centro
di un grave conflitto sindacale che sfocia negli scontri di Piazza Statuto (7,
8 e 9 luglio). Accusati di aver firmato contratti-spazzatura i sindacati
ufficiali furono scavalcati da decine di migliaia di operai in sciopero che
scatenarono una vera e propria rivolta urbana. La polizia non poté riprendere
Piazza Statuto che dopo tre giorni di scontri e dopo aver ricevuto rinforzi da
altre città. I protagonisti dei fatti furono, ancora una volta, giovani e
meridionali.


Il PCI prese immediatamente
posizione, denunciando gli insorti come "provocatori fascisti". Era
l’inizio di una nuova fase nella storia italiana: a mano a mano che apparivano
nuove pratiche di scontro di classe, aumentava la distanza fra la sinistra
storica e i movimenti contestatari. 


La discussione fu molto vivace
all’interno di Quaderni Rossi e
sfociò, nel 1963, in
una prima rottura. Se tutti erano d’accordo sulla potenzialità rivoluzionaria
della nuova situazione, esistevano serie differenze sull’atteggiamento da
adottare. Se Panzieri optava per la prudenza, Tronti, Alquati, Negri, Bologna,
Asor Rosa e Faina volevano passare all’azione. Nel 1964, questi ultimi
fondarono Classe Operaia,
"periodico politico degli operai in lotta". Il gruppo si proponeva
non solo di contribuire alla ricerca teorica, ma anche di consolidare le rete
di relazioni e di contatti stabiliti gli anni precedenti (20). 


I paradossi di Mario Tronti 


Firmato dal suo direttore, Mario
Tronti, l’editoriale del primo numero di Classe
Operaia
, "Lenin in Inghilterra", indicava la strada da seguire:
"Un’epoca nuova della lotta di classe sta per aprirsi. Gli operai l’hanno
imposta ai capitalisti con la violenza oggettiva della loro forza di fabbrica
organizzata. […] l’attuale particolare situazione politica della classe
operaia guida e impone un certo tipo di sviluppo del capitale
. […] Un nuovo
inizio è necessario" (21).


Pensatore discusso e
paradossale, Tronti era convinto che la recente intensificazione delle lotte
operaie aprisse la via a una trasformazione rivoluzionaria. Ma, invece di
affidarsi alla spontaneità delle masse, come Panzieri, egli credeva piuttosto
all’intervento del partito
. Le sue idee troveranno una sistemazione definitiva
nel 1966, con la pubblicazione di Operai
e Capitale
, un libro pieno di intuizioni brillanti e di immagini
suggestive, che condensa gli splendori e le miserie della seconda stagione
dell’operaismo.


Mentre, i neo-marxisti si
perdevano in interminabili discussioni sulle teorie della crisi e del crollo del
capitalismo a causa delle sue proprie contraddizioni, Tronti poneva la
centralità politica della classe operaia, metteva l’accento sul fattore
soggettivo e proponeva un’analisi dinamica delle relazioni di classe. La
fabbrica non era più il luogo del dominio capitalista ma il cuore stesso
dell’antagonismo
.


Il suo approccio andava in
direzione opposta rispetto alla tradizione riformista: la lotta per il salario
era considerata una lotta
immediatamente
rivoluzionaria nel momento in cui perveniva a piegare il potere del capitale.
La crisi non era più tanto il prodotto di astratte contraddizioni intrinseche quanto la conseguenza della
capacità operaia di strappare profitto al capitale
.


Il discorso di Tronti si
concentra sulle tendenze, cosa che
diventerà una costante nel pensiero operaista: si trattava di costruire un
modello teorico che permettesse di anticipare il corso delle cose. Perciò era
necessario mettere "Marx a Detroit", ovvero studiare il comportamento
del proletariato nei paesi più avanzati, dove il conflitto appariva nella sua
forma più pura
.


Un tale approccio poteva
apparire seducente, ma le conseguenze pratiche che se ne traevano erano
francamente fallaci: "la tradizione di organizzazione degli operai
americani è la più politica del mondo, perché la carica delle loro lotte
è la più vicina alla sconfitta economica dell’avversario, la più
prossima non alla conquista del potere per costruire nel vuoto un’altra
società, ma all’esplosione del salario per rendere subalterno il capitale con i
capitalisti in questa stessa società" (22).
 


Sconfiggere l’avversario? Negli
Stati Uniti? No, precisava Tronti: ad ogni modo, "la lotta sindacale non
può da sola uscire dal sistema. […]
Nessuno più di noi è disposto ad accettare oggi integralmente la tesi
leninista: «La classe operaia nella sua lotta per il potere ha una sola arma:
l’organizzazione»" (23).


Più interessante era l’analisi
del rapporto tra fabbrica e società, secondo la quale al livello più alto di
sviluppo capitalista, l’intera società diventava un’articolazione della
produzione
. In altri termini tutta la società vive in funzione della fabbrica e
la fabbrica estende il suo dominio a tutta la società (24). 


Contro l’interpretazione secondo
la quale l’estensione del settore terziario significava un indebolimento della
classe operaia, Tronti sosteneva che, con la generalizzazione del lavoro
salariato, un numero sempre crescente di persone erano in via di
proletarizzazione, e questo non faceva che amplificare l’antagonismo in luogo
di ridurlo
.


Benché Operai e Capitale sia diventato un riferimento obbligatorio per i
militanti del ’68, si può curiosamente notare come l’autore di quest’opera non
abbia mai lasciato il PCI
e che oggi egli resti membro del post-comunista PDS.
Meglio ancora: da poco, Tronti ha spiegato che l’interpretazione gauchiste del
suo libro è stata frutto di un errore. "Io non sono mai stato spontaneista. Ho sempre pensato che la
coscienza politica doveva venire dall’esterno
" (25).


Indipendentemente da queste
opinioni, è chiaro che, negli anni ’60, Tronti e gli operaisti aprirono un
fronte contro la tradizione nazional-popolare della sinistra italiana, che
abbracciava non solamente la politica ma anche la cultura (filosofia,
letteratura, cinema e scienze umane) e diedero una prima risposta alle teorie
del "dominio totale" accettate da tutti, compresa la sinistra
critica.


Quello che mi sembra più attuale
in questo libro, è la critica del logos
tecnico-produttivista, tanto marxista che liberale, e l’idea – già presente
in Panzieri – secondo la quale la conoscenza è in relazione con la lotta, e
pertanto non è neutra ma partigiana
(26). 


Operai e Capitale è
rimasto come un serio tentativo di rinnovamento del marxismo, benché non abbia
portato a nulla (27). Il suo "soggettivismo" esprime una ribellione
contro l’oggettivismo del marxismo volgare e della stessa Scuola di
Francoforte
, Marcuse escluso. Tronti percepiva il "progetto" del
capitale di controllare la società nella sua totalità, ma, al contrario di
Adorno, lo interpretava come una strategia per contenere la protesta operaia
(28). 


Il soggettivismo fu, nello
stesso tempo, la fonte di numerosi errori. Il più grave è che Tronti pensava
che la logica dello sviluppo capitalista non fosse l’estrazione del profitto,
ma la combattività operaia
. Un tale approccio lo allontanava da Panzieri e dal
primo operaismo che concepiva il capitale e la classe operaia come due realtà
antagoniste ugualmente "oggettive"
. Panzieri, inoltre, non commetteva
l’errore di pensare che l’aumento dei salari potesse provocare la rottura del
sistema (29).


Sebbene io non tenga
particolarmente a rivendicare un "vero" marxismo, l’approccio di Tronti
implica, evidentemente, una lettura parziale di Marx e, ancor peggio, una
grossolana semplificazione della realtà.


Se è vero che Marx ha scritto
che la lotta di classe è il motore della Storia, la sua analisi è centrata
sulla relazione sociale tra due poli contraddittori: da un lato, il capitale
come potenza sociale, lavoro "morto", oggettività pura, spirito del mondo, e, dall’altro, il
lavoro "vivo", la classe operaia che, essendo parte fondamentale
della relazione, è, nello stesso tempo, la sua negazione. 


L’origine della contraddizione è
nella duplice natura del lavoro operaio
che è sia lavoro astratto, produttore
di plusvalore, sia lavoro concreto produttore di valori d’uso. Il problema –
aggiungeva Marx – è che "il valore non porta scritto in fronte quello che
è" (30).


Secondo Marx, le antinomie tra
"soggettivismo" e "oggettivismo" non potevano essere
risolte nella teoria, ma solo nella prassi
(31). Solo la produzione di un nuovo
modo di produzione – la famosa negazione della negazione o espropriazione degli
espropriatori – poteva pervenire a ciò.


In Tronti, all’opposto, c’è
un’ipostatizzazione del polo soggettivo: "il capitale come funzione della
classe operaia"
(32). Questo lo conduceva a trasformare la classe operaia
in qualcosa come il fondamento ontologico della realtà. La soggettività non era
più la forza concreta di individui coscienti che si organizzavano per cambiare
il mondo: Tronti la riconduceva ad una semplice categoria ermeneutica per la
comprensione del capitalismo
. Quanto alla negatività, era sparita nel nulla.


Conviene segnalare che, circa
quarant’anni dopo, lo stesso schema è costantemente in opera in Impero. Qui, il soggettivismo estremo,
la lettura della Storia a partire dalla "potenza" operaia, diventa
puro delirio: "dalla manifattura alla grande industria, dal capitale
finanziario alla ristrutturazione transnazionale del mercato sino alla
globalizzazione, è sempre l’iniziativa organizzata della forza-
lavoro che determina la figure
dello sviluppo capitalista". O ancora: "Siamo dunque giunti al
momento, estremamente delicato, in cui la soggettività della lotta di classe
trasforma l’imperialismo in Impero", è per questo che è necessario
cogliere "la natura globale della lotta di classe proletaria e la sua
capacità di anticipare e prefigurare la direzione dello sviluppo capitalistico
verso la realizzazione del mercato mondiale" (33).


In questo passaggio, e in tanti
altri simili, la dialettica operai-capitale – questa "grammatica della
rivoluzione", secondo la magnifica espressione di Alexandre Herzen –
svanisce nell’apologia di un presente senza contraddizioni. Se gli operai sono
già oggi così forti e potenti, perché dovrebbero fare la rivoluzione? 


Rotture


La principale funzione di Classe Operaia fu di dare impulso
all’articolazione di diversi gruppi locali che lavoravano sulla questione
operaia, in diversi luoghi del paese. Il gruppo nazionale, tuttavia, ebbe una
vita breve perché si sciolse nel 1966 (34). Perché? Nel corso di una riunione
tenuta a Firenze verso la fine del ’66, Tronti, Asor Rosa e Negri stesso si
posero la questione dell’urgenza di una virata politica. Il tema centrale era la relazione classe-partito: la
classe incarnava la strategia e il partito la tattica
. C’era, nondimeno, un
problema. Se la prima era molto cosciente del lavoro di demolizione che
l’attendeva, il secondo era sul punto di perdere la bussola.


In queste condizioni, piuttosto
che gettare olio sul fuoco delle proteste operaie, era necessario fare
dell’entrismo nei sindacati e, soprattutto, nel PCI. L’idea era quella di
formare una sorta di direzione operaia al fine di farle giocare il ruolo di un
"cuneo" (questa era l’espressione usata) nel Partito e moficare di
colpo il suo equilibrio interno (35).


E’ bene notare che fino ad
allora, l’operaismo era stato un laboratorio collettivo, una sorta di rete
informale costituita da intellettuali, sindacalisti, studenti e rivoluzionari
di varie tendenze che avevano in comune una sensibilità anti-burocratica, e la
scoperta di un nuovo mondo operaio in lotta.


E’ chiaro che, ad eccezione di
Tronti, non si era affrontata direttamente la questione del leninismo. Si
accettava il Lenin che aveva compreso la convergenza tra crisi economica, crisi
politica e tendenza operaia all’autonomia, ma non si affrontava la questione
del partito.


Una minoranza libertaria e altri
militanti di Genova e Torino fra cui Gianfranco Faina e Riccardo d’Este non
accettava la scelta in favore dell’entrismo
. L’operaismo, come essi lo
intendevano, era fondato sull’idea che le forze sovversive si raggruppassero
fuori della logica dei partiti e dei sindacati ufficiali. Essi trovavano una
fonte d’ispirazione nel comunismo dei consigli (36), negli anarchici spagnoli e
in Amadeo Bordiga (37). Negli anni successivi, essi condivisero le posizioni
libertarie del gruppo Socialisme ou
Barbarie
e dell’Internazionale situazionista, e ruppero definitivamente con
la pretesa di "dirigere" il movimento
(38).


Un’altra tendenza, il cui leader
era Sergio Bologna, tentava di attenersi all’operaismo originale, ritornando al
suo lavoro di formica all’interno della FIAT e di qualche fabbrica lombarda
(39).


Dato che la virata annunciata
non ebbe luogo, Tronti dovette riconoscere che non si era pervenuti a
"realizzare il circolo virtuoso della lotta, dell’organizzazione (e non
dell’autorganizzazione) e della presa di possesso del terreno politico"
(40).


In quel momento, tutta una serie
di avvenimenti di grande importanza veniva a complicare il progetto di
convertire il PCI all’operaismo (41). Nel 1968 la temperatura sociale in Italia
iniziò a crescere fino a livelli preoccupanti. Fermenti culturali nuovi e
sempre più intensi cominciarono a propagarsi. I problemi nazionali si
intersecano con la situazione internazionale della fine anni ’60 (manifestazioni
contro la guerra in Vietnam, il movimento hippie, le Black Panthers, ecc.),
inaugurando un periodo di grandi cambiamenti.


I primi ad entrare in movimento
furono gli studenti che occuparono le principali università: Trento, Milano,
Torino e Roma. Essi cominciarono col mettere in causa l’autoritarismo
universitario, ma passarono presto alla critica del capitalismo, dello Stato,
della patria, della religione, della famiglia, ecc. Essi manifestarono un
disprezzo tutto particolare per i partiti di sinistra che accusavano di essere
diventati degli ingranaggi fondamentali del regime.


Alla fine del ’68, e soprattutto
nel ’69, quando le proteste operaie si intensificarono, il sistema entrò in
crisi. La grande rottura sociale che altrove si era consumata in qualche mese,
si prolungò in Italia per circa dieci anni, e qui risiede la sua singolarità. 


Bisogna dire che questa
esplosione di radicalità corroborava le ipotesi operaiste più audaci. La
"strategia del rifiuto" era sul punto di realizzarsi. Tuttavia, Tronti
affermò che non si era in presenza di una nuova epoca, ma piuttosto dell’ultimo
slancio, e del più disperato, di un ciclo di lotte che toccava la sua fine.


E’ facile oggi vedere innegabili
elementi di verità in questo pessimismo, ma allora tutto era ancora in gioco.
All’improvviso, Tronti accordava allo Stato degli attributi che erano la
negazione di tutto quello che aveva scritto fino ad allora
. Non c’è più,
precisava egli "autonomia, autosufficienza, autoriproduzione della crisi
fuori dal sistema delle mediazioni politiche delle contraddizioni
sociali". Traducendo in un linguaggio più chiaro, questo voleva dire che
la lotta economica non può più essere politica e che la classe operaia,
considerata fino ad allora come una forza antagonista, diventava la "sola
razionalità dello Stato moderno"!
(42).


La verità è che, agli occhi di
Tronti, l’utopia aveva toccato la sua fine. E’ quello che egli sceglieva di
chiamare "autonomia della politica", un’ideologia che ebbe una vita
breve, benché accompagnasse l’evoluzione di una parte degli operaisti, il
critico letterario Alberto Asor Rosa o il giovane germanista Massimo Cacciari,
verso la carriera accademica e il PCI, dove furono accolti come dei pentiti. La
credenza nell’esistenza di una sfera politica "pura" all’interno
dello Stato servì ad altri per intraprendere una lunga marcia dentro le
istituzioni.


Nel PCI si sviluppo un (breve)
dibattito sull’opportunità di cavalcare la tigre del movimento, ma, alla fine,
prevalsero le posizioni più conservatrici al punto che si andò all’esclusione
del gruppo del Manifesto (Rossanda,
Pintor, Magri).


Fu così che, in modo poco
glorioso, si concluse il percorso di un settore dei "marxisti
autonomi". E gli altri? La maggioranza di loro, tra cui Antonio Negri,
videro nella nuova situazione la possibilità di intraprendere una politica
rivoluzionaria fuori dei partiti di sinistra e anche contro di essi.


Nel 1969, si assistette alla
moltiplicazione dei gruppi e dei gruppuscoli di estrema sinistra che si
proponevano di riprodurre in Italia la strategia bolscevica (nelle sue
differenti versioni: leninista, trotzkista, staliniana e maoista), ovvero
creare un partito duro e puro mirante alla presa del potere. Gli operaisti
fondarono Potere Operaio e Lotta Continua, formazioni che ugualmente
gravitavano nell’orbita del marxismo-leninismo, benché non manifestassero una
particolare simpatia per il modello sovietico, né, bisogna riconoscerlo per
quello cinese.


Il progetto era irreale, ma le
lotte erano vere, e a misura che i gruppi sovversivi guadagnavano terreno, lo
Stato diventava sempre più aggressivo. La conclusione fu la "strategia
della tensione"
, ovvero una serie di attentati e di assassinii compiuti
dai servizi segreti tra il 1969 e il 1980, con la complicità dei governi che si
succedettero. Non c’è il minimo dubbio – ed esistono decine di documenti per
provarlo – che il primo a ricorrere al terrorismo fu lo Stato stesso e non i
movimenti di estrema sinistra (43).

9) Questa breve
ricostruzione si basa sul libro di Nanni Balestrini e Primo Moroni, L’Orda d’Oro. 1968-1977. La grande ondata
rivoluzionaria e creativa, politica ed esistenziale
, Feltrinelli, Milan,
1997, e su quello di Oreste Scalzone e Paolo Persichetti, La révolution et l’État, Insurrections et “contre-insurrection” dans
l’Italie de l’après ‘68
, Dagorno, 2000. Da segnalare anche Futuro Anteriore. Dai Quaderni Rossi ai
movimenti globali: ricchezze e limiti dell’operaismo italiano
,
Derive/Approdi, Roma, 2002. Ho anche consultato il sito
http://www.intermarx.com (in particolare gli eccellenti scritti di Maria
Turchetto e Damiano Palano), le riviste Vis-à-Vis
e Primo Maggio, e un vecchio saggio
che avevo pubblicato anonimo sotto il titolo Al tramonto. Operaismo italiano e dintorni in Proletari se voi sapeste, supplemento della rivista Insurrezione
(Renato Varani editore, Milan, 1982).


10) Franco Alasia,
Danilo Montaldi, Milano, Corea,
Feltrinelli, 1978, p.184.


11) R. Panzieri, La crisi del movimento operaio, Scritti,
interventi, lettere, 1956-1960
, Lampugnani, 1973. Panzieri fu il direttore
della rivista teorica del PSI MondOperaio.  


12) Cfr. R. Panzieri, Spontaneità e organizzazione. Gli anni dei
Quaderni Rossi. Scritti scelti
, BFS, Pisa, 1994.  


13) K. Marx, El capital, Editorial Librerias Allende,
1977, pp.328-330.  


14) Cfr. K. Marx, Le Capital. Livre
I. Chapitre VI (inédit)
, Unione générale d’éditions, 1971.  


15) R. Panzieri, Sull’uso capitalistico delle macchine nel
neocapitalismo
e “Plusvalore e pianificazione. Appunti di lettura del Capitale” in Spontaneità….  


16) Sergio Bologna,
"Il rapporto fabbrica-società come categoria storica", Primo Maggio, n.2, 1974.


17) Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di
Valentino Gerratana, Einaudi, Torino, 1977, quaderno 22, "Americanismo e
fordismo", p.2146.  


18) R. Alquati,
"Composizione organica del capitale e forza-lavoro alla Olivetti", in
Quaderni Rossi, n.2, 1962, pp.63-98.
Nel 1975 A.
raccolse i suoi scritti in Sulla FIAT e
altri scritti
, Milano, Feltrinelli.  


19) Danilo Montaldi,
"Il significato dei fatti di luglio", in Quaderni di Unità Proletaria, n.1, 1960.  


20) Oltre ai citati
collaborarono a Classe Operaia:
Giairo Daghini, Luciano Ferrari-Bravo, Guido Bianchini, Enzo Grillo (traduttore
in italiano dei Grundrisse), Oreste
Scalzone, Franco Piperno, Franco Berardi, Gianfranco Della Casa, Gaspare de
Caro, Gianni Armaroli, Riccardo d’Este.  


21) Classe Operaia, n.1, gennaio 1964.
Ripreso in: Mario Tronti, Operai e
Capitale
, Einaudi, Torino, 1966 (nuova edizione 1971), p.89-95.  


22) Tronti, op. cit.,
pp.298-299. 


23) Tronti, op. cit., pp.81
e 84.  


24) Tronti, op. cit.,
p.53.  


25) Tronti, intervista
comparsa in: L’Unità, Roma,
8/12/2001. In un’altra intervista, datata 8/8/2000, Tronti precisava:
"fummo vittime di un’illusione ottica".  


26) Tronti, op. cit.,
p.14.  


27) Nelle sue Considerations on Western Marxism (New
Left Book, London, 1976), Perry Anderson non dedica una riga all’operaismo
italiano.


28) Nella Dialettica negativa, Adorno afferma la
superiorità dell’"oggetto". Einaudi, Torino, 1975, pp.156-157.  


29) Vedere, ad
esempio: R. Panzieri, Plusvalore e
capitale
, op. cit., dove l’autore segnala l’unità del capitalismo in quanto
funzione sociale.  


30) Marx, El Capital, tomo I, p.88.  

31) Pages de Karl Marx. Choises,
traduites et présentées par Maximilien Rubel.
1. Sociologie critique, Payot, 1970, p.103.  

32) Tronti, op. cit.,
p.261 e 291.  


33) Impero, pp.200 e 223.  

34) L’ultimo numero
della rivista apparve nel marzo 1967.  


35) Gianni Armaroli
(collaboratore genovese di Classe Operaia),
lettera all’autore, 30/11/2002.  


36) I principali
teorici dei consigli operai furono i tribunisti olandesi (così chiamati perché
editavano il periodico de Tribune)
Anton Pannekoek e Herman Gorter; al loro fianco i tedeschi Karl Korsch, Otto
Ruhle e Paul Mattick.  


37) Contrariamente a
quello che spesso si è detto (vedere, per esempio, Octavio Rodriguez Araujo, Izquerdas e izquierdismos. Dalla I
Internazionale a Porto Alegre
, Siglo XXI editores, 2002, p.115), Bordiga
non è mai stato un consiliarista, ma un partigiano convinto dell’idea
bolscevica di partito. Vedere a proposito la polemica che egli sostiene con
Gramsci in: Antonio Gramsci – Amadeo Bordiga. Debate sobre los consejos de fabrica, editorial Anagrama, 1973.
Tuttavia fu Bordiga – fondatore e primo segretario del PCI -, e non Gramsci, ad
opporsi alla bolscevizzazione dei partiti occidentali, imposta
dall’Internazionale comunista a partire dal 1923.  


38) A partire dal 1967
nacquero, a Genova, il "Circolo Rosa Luxemburg", la "Lega
Operai-Studenti" e "Ludd – Consigli Proletari" (presente anche a
Roma e Milano). A Torino, la "Organizzazione Consiliare" nacque nel
1970 e "Comontismo" nel 1971.  


39) Nel 1969, Sergio
Bologna, insieme ad altri, creò La Classe, una rivista
che servì da portavoce alle lotte operaie della FIAT. Bologna partecipò alla
fondazione di Potere Operaio, prima di animare, negli anni ’70 e ’80, la
rivista Primo Maggio, un baluardo
dell’operaismo originale.  


40) Tronti, intervista
citata, 8/8/2000.  


41) Tra il 1968 e il
1971, il tentativo sfociò nella creazione della rivista Contropiano, diretta da Asor Rosa e Cacciari, alla quale
collaborarono sia Tronti che Negri.  


42) M. Tronti, Sull’autonomia del politico,
Feltrinelli, 1977, pp.7,19 e 20.  


43) Eduardo di
Giovanni, Marco Ligini, La strage di
Stato
, Samonà e Savelli, 1970 (riedizione Avvenimenti, Roma, 1993).  
 

1 Comment to “La nascita dell’ Operaismo”

  1. billie ha detto:

    bellissimo..pero’ hai dimenticato una persona a cui voglio tanto bene e che anche ha fatto tante inchieste, che è ancora un gran compagno e tanto altro: vittorio rieser.. e poi altri ancora, ovviamente 🙂