untori
Ogni uomo deve avere delle buone ragioni per alzarsi al mattino parte 2°
 
 

 

 

 

Noi non neghiamo affatto là natura sociale della ribellione che ha
portato ad impugnare le armi, affermiamo però che là forma è stata
rappresentativa, perciò inadeguata, in taluni casi riduttiva, in
talaltri mitologica. Non ha quindi per noi alcun senso logico parlare
di guerriglia – che ci pare una sorta di oscuro oggetto del desiderio –
né tantomeno dei motivi del suo scollamento o della sua "perdita
progressiva di internità strategica al proletariato metropolitano". Ci
sembra infatti che debbano essere rifocalizzate, rivisualizzate,
ripercorse le pulsioni che hanno determinato e determinano condotte
dure e violente all’interno del proletariato assoluto, immiserito
qualitativamente dallo strapotere di un’organizzazione statuale sempre
più dispotica, che modella su di sé intere relazioni sociali. Là guerra
non è certo tra due o più classi, ma va determinandosi come nuova forma
di "guerra coloniale" dà parte dello Stato e dei suoi centri di
potere-comando contro tutti gli individui, sempre più
sminuzzati, parcellizzati, resi soli ed impotenti di fronte ad uno
Stato-Padrone, ad una Società-Maestra. L’operazione concettuale che
porta à costituire in classe rivoluzionaria il proletariato
metropolitano è perciò quanto mai erronea, e allude à successive forme
di rappresentazione e quindi di delega della classe artificialmente
ricomposta. Oggi abbiamo sotto il naso l’uso social-amministrativo
della politica, là tendenza alla riduzione dei conflitti a guerre tra
bande-racket, perciò dobbiamo assolutamente evitare simili trabocchetti
della storia e della ragione. Il proletariato urbano é scomposto, né
alcuna operazione ideologica può ricomporlo categorialmente, ma, per
paradosso, questa è proprio là sua forza, là nostra forza.
Infatti nasce proprio dallo scompaginamento dei ruoli e dalla
proletarizzazione dell’uomo in quanto tale là possibilità della
sovversione moderna-contemporanea. Che non si fonda su interesse
particolari quali sono quelli di classe, ma su esigenze assolute, che
alludono prepotentemente ad un nuovo assetto di rapporti tra uomini. È
la specie femino-umana ad essere in gioco e, seppure incoerentemente e
disordinatamente, é appunto di questo che testimoniano le condotte dei
singoli proletari urbani o di gruppi di essi. Non si può teorizzare un
polimorfismo cercando poi di intubarlo nel canovaccio predeterminato.
Il polimorfismo è reale e sta aprendo un ventaglio di lotte tra loro
apparentemente incongrue; il filo che lega non è il filo rosso del
progetto rivoluzionario né quello logico dell’astuzia della ragione;
più semplicemente è espressione di intolleranza verso l’ordine delle
cose costituitosi in comunità materiale. Perciò è assai ideologico
vedere in questo movimento, più che mai magmatico un’affermazione della
forma-guerriglia. Le bande che attraversano le metropoli sono più
frutto della miseria sociale che non prodotto della sua critica. Non di
meno sono importanti perché evidenziano là ripulsa ad essere soggetti
dell’universo macchinico, l’impossibilità per molti di essere
"normali", laddove là norma sta diventando addirittura codice genetico.

Cogliere là polifonia significa assumersi fin d’ora
intelligenza e capacità atte ad amplificarla "eccessivamente",
significa insomma usare come unico parametro là soggettività-altra, che
dà più parti si esprime e che cuoce nel fuoco lento delle storie
individuali e della storia complessiva. I compagni di Palmi
dell’intervista e di "Non è che l’inizio" sembrano precipitare in
queste contraddizioni senza uscirne. I vecchi miti vengono sostituiti
con nuovi feticci: questo è il timore che nutriamo, e motivatamente. Là
critica delle OCC si é avvitata in un’immagine del proletariato
metropolitano ancor tutta ideologizzata; dall’operaio-massa,
all’operaio-sociale, al proletariato-generico metropolitano, pare
esserci continuità e contiguità cosicché le forme di espressione
organizzativa hanno solo bisogno di rimodellazione e non di critiche
essenziali! E falso che l’iniziativa rivoluzionaria sia in qualche
"altrove" rispetto ai rivoluzionari; invece è vero che le strategie
sono insufficienti a spiegare un’iniziativa che solo astrattamente è
rivoluzionaria, mentre concretamente é ribelle non solo nei confronti
dell’esserci societario ma anche delle ipotesi strette di
"organizzazione rivoluzionaria". Là transizione di cui si parla o è
un’invenzione o é già avvenuta: é un’invenzione se ci si riferisce ad
un passaggio guerrigliero da forme di dominazione a quelle di concreta
libertà; è già avvenuta se ci si riferisce al "socialismo" determinato
dal capitale stesso con l’accentramento autocratico di alcuni livelli
decisionali e, nel contempo, con il decentramento di altri che possiamo
definire partecipativi. Se é la fine di forme politiche è anche la fine
della figura del militante. Solo per negativo oggi si può intravedere
la capacità soggettiva di ribaltare le condizioni date; se di classe
universale ormai dobbiamo parlare, i suoi compiti sono immensi, oltre
la politica, l’economia , la cultura, la militanza, la guerriglia
stessa, tutte forme di un passato recente ma pur tuttavia passato.

Non vogliamo certo sostenere il tramonto della violenza soggettiva come
"levatrice della storia" come arma essenziale dell’antagonismo
controsocietario, al contrario. La società, come imposizione di regole,
richiede forza in chi le applica e forza di segno contrario in coloro
che le vogliono negare, abolire. Non esistono passaggi storici in cui
sia assente la forzatura, sotto forma di violenza. Tanto più ciò é vero
oggi, mentre si determina una violenza sociale di proporzioni
sconosciute nel passato. Ogni attimo di vita vissuta dagli uomini o é
giocoforza violento o viceversa soggiace alla violenza altrui. Il
dominio reale del capitale si afferma come violenza "ragionevole"
sull’esistenza di tutti; la
sua fine non può apparire se non come
contro-violenza, esercizio di una soggettività in rivolta che dovrà
assumere forme e caratteri idonei alle necessità stesse.

Ma la violenza é un’arma a doppio taglio, come tutto nell’insieme
sistemico capitalista. Vi é una violenza che è diretta germinazione dei
rapporti sociali e che, pur con tutte le sue convulsioni, non sa
scrollarseli di dosso; e vi è una violenza tendenzialmente liberatrice,
come affermazione di una comunità in divenire. Tutte le chiacchiere
attuali intorno alla lottarmata eludono il problema. Nessuno sembra
voler riconsiderare criticamente la freddezza politica della
violenza esercitata; nessuno, del pari, si fa carico del bagaglio di
passionalità soggettiva in essa incorporata. La lottarmata ha avuto,
per l’appunto, questo carattere duplice: essere stata violenza fredda e
politica, e perciò quasi istituzionalizzabile e dunque "naturale" per
la società-Stato, ancorché per esorcizzare la reale violenza
sotterranea; si è snodata anche come storia di soggetti tutt’altro che
freddi, ma caldi invece di un’umanità a stento compressa. Così non si é
mai addivenuti ad una fase di guerriglia effettiva e la politica,
comunque amministrata, ha potuto incapsulare e negare le tensioni più
radicalmente stravolgenti. Nel contempo si é creata una ben singolare
"avanguardia", la quale non ha più riferimenti storici o sociologici
nei ceti esistenti. Parla per se stessa, solo per se stessa, ma,
contemporaneamente, avendo nella testa e nel cuore l’umanità
generalmente intesa. Questi sono gli embrioni aggregativi del
proletariato moderno ed assoluto, altro che ricostituzione "in classe",
altro che forma-partito o forma-guerriglia! La guerriglia va
completamente re-identificata; il primato delle armi è illusorio,
mentre si afferma il primato della alterità, dell’insofferenza, della
trasgressività. Le sue armi sono molteplici, non escluse quelle
tradizionalmente intese. Ma è ben strano davvero che, mentre la "gente"
ha stravolto la musica, ha imparato l’arte di cavar profitto dalle
contraddizioni, si’è addestrata in truffe colossali o in saccheggi a
forza di lance termiche, le forme politiche pseudo-rivoluzionarie siano
rimaste immutate ed
anzi abbiano trasferito su di sé le
modificazioni avvenute nel ceto politico statuale! Se vogliamo
correttamente parlare di nuove forme espressive di un proletariato
urbano, metropolitano ed assoluto, dobbiamo giocoforza fare i conti con
queste modificazioni intervenute.

Che
diremo noi, infatti, delle torme di tossicomani o tossicofili, delle
bande di skinners, di punks e affini? È sin troppo facile liquidare
come miserabili e indotte tutte queste tendenze e esigenze. D’altronde,
nel black-out metropolitano, la gente si arricchiva quasi soltanto di
merci povere: televisori, macchinette ed altri oggetti umanamente
disutili se non dannosi. Era niente più e niente meno che la
manifestazione selvaggia di bisogni indotti. Ma in questa sfera
dell`eccesso" noi non leggiamo soltanto miseria, ma anche voglia
scomposta di passarvi oltre; noi non riconosciamo una nuova classe, un
nuovo soggetto storicamente e sociologicamente inteso, ma una tensione
verso la ricomposizione dei soggetti frantumati in comunità
indipendenti e tendenzialmente libere; noi non avvertiamo ancora il
segno del positivo (come può essere ipotizzato nella forma-guerriglia)
ma soprattutto l’emersione brutale del negativo: stiamo alfine
giungendo a chi per affermarsi deve totalmente negarsi; il potere
dispotico dello Stato crea dunque quegli "eccessi" che ne vietano la
lunga riproduzione e quindi la vitalità.

I compagni di Palmi
hanno senza dubbio compiuto degli sforzi, ma ancora molti sono
necessari per sapersi davvero orientare nel disorientamento quotidiano,
per buttare a mare le formulette antiche e riscoprire nella vita carne
del vissuto le potenzialità inventive di cui oggi abbiamo bisogno. I
"percorsi originali" devono essere originali davvero e non possono
venir costretti in una "guerriglia sociale per la transizione al
consumismo", mentre si sta totalmente riformulando il concetto di
guerriglia e ridiscutendo visceralmente l’ipotesi concreta di
comunismo. La fine delle OCC è anche la fine di taluni "scenari".

L’impetuosa
irruzione del desiderio assoluto, nelle esistenze assolutamente
soggiogate al capitale, richiede un grosso salto di qualità. Non è più
soltanto questione di lasciar "liberi" i singoli militanti
nell’esprimere le loro dissonanze; è questione invece di cogliere il
ritmo sotteso a tali dissonanze, allargandone la portata e le scansioni.

A questo proposito, ben più interessante ci pare la posizione espressa
dall’intervento "Ad occhi aperti". Benché si ipotizzi una dominazione
troppo assoluta del capitale, mentre si vagheggia un sociale
originariamente "buono" e quasi "naif", tuttavia si giunge ad una
positiva liquidazione della sfera politica in quanto sistema di
appiattimento delle tensioni controsocietarie agite da disparati
settori sociali. Finalmente l"`avanguardia" non è più ritenuta
traguardo superiore che, una volta "conquistato", permane come dato
caratteriale dell’individuo. Si riconosce invece che essa si può
definire solo di volta in volta, di situazione in situazione, di luogo
in luogo. Si tratta di una riflessione profonda che tende a rompere con
il percorso precedente, soprattutto laddove questo allisciava tutto in
schemi, in codici predeterminati, la cui obsolescenza è sotto gli occhi
di tutti. Noi abbiamo difficoltà a recepire immediatamente la mancanza
di salto al quotidiano sovversivo; non di meno il ribaltamento del
problema – da una presunta "costituzione in classe del soggetto della
transizione" al suo opposto – è forse un segno tangibile di
rifondazione di tematiche incentrate sul senso della specie, su una
rivoluzione "umana, troppo umana" (parafrasando), sulla distruzione di
tutte le classi e di tutti i ceti. Può essere nuova attenzione rivolta
ai movimenti, ancora deboli, che si indirizzano verso una comunicazione
non alienata, verso rapporti intersoggettivi nuovi, verso una
"personalità" che non sia mera maschera dell’uomo ma concreta
specificità femino-umana. A ciò noi siamo interessati e non ci importa
molto dei ritardi teorici altrui, come non ci interessano troppo le
ancor pesanti nostre manchevolezze soggettive. È una grande scommessa
quella intrapresa ed é anche un rimettere sui piedi valori umani ora
capovolti sulla testa. Ci importa invece il vettore propulsivo che
talvolta emerge e che, si può condensare in una banale formula: energia
trasgressiva rivolta ad un "work in progress", metamorfosi in divenire,
comunità in tensione ad essere. Questo, ripetiamo, importa e non solo
perché il nostro cuore è balzato oltre le false opinioni del presente
ma, soprattutto, perché é un processo dentro cui ci si sta oppure no,
che si afferma e realizza agendo la "catastrofe" del capitale oppure si
determinerà come squallida e quotidiana catastrofe delle donne-uomini.
Quindi ciò che apprezziamo in alcuni sforzi è questo "salto" che può
permettere l’interazione tra reali comunità di senso, tra prigionieri
sociali incarcerati e figure sociali in ribellione.

Perciò
ci lasciano freddi e ironici i tentativi di ridefinizione di obsoleti
concetti da parte dei membri della cosiddetta colonna Walter Alasia
(nonostante il riutilizzo, da altri mutuato, del sarcasmo riguardo ai
testi Mogol-Battisti), nonché i generosi ma inutili sforzi della
"coppia" (Forastieri-Segio) che, nonostante tutto, non soltanto non si
liberano dalle panie del combattentismo e dell’avanguardismo ma che,
viceversa, si riducono ad un ammodernamento di concetti inadeguati e
perdenti – non a causa soltanto dei "pentiti" ma proprio della loro
stessa inattitudine ed impraticabilità presso settori tendenzialmente
sovversivi e già comunque refrattari all’esistente.

Nel
testo "Culo di sacco" gli autori liquidano soltanto la concezione
leninista del partito che, diciamo la verità, è stata già liquidata
dalla storia, mentre mantengono un atteggiamento stranamento asettico
ed esterno all’insieme delle questioni quasi che il groviglio di idee,
di reazioni, di necessità che si é prodotto nel recente periodo li
riguardasse da lontano, insomma quasi che gli "insuccessi" fossero
colpa della pochezza dei singoli militanti o addirittura di una
testardaggine dispettosa della storia stessa. Naturalmente non é così;
non é possibile modernizzare la funzione-avanguardia o la
forma-partito; esse sono state nei fatti incapaci di determinare
un’aggregazione sovversiva che sapesse essere radicale e dunque oggi,
se vogliamo essere onesti e soprattutto radicali, se vogliamo essere
onesti e soprattutto contemporanei a noi stessi, si deve discutere di
questioni ben più profonde, di sperimentazione di nuove forze
aggregative che volta a volta dovranno determinare le loro proprie
forme. Noi, al pari di tutti, non abbiamo ricette da proporre proprio
perché, nella complessità sociale presente, solo un’audace
sperimentazione può "pagare"; ci facciamo pero’ carico della critica
negativa, di liquidare tutte le concezioni ritardatarie, discroniche o
comunque inidonee; non sembri piccolo questo compito poiché le miserie
del movimento rivoluzionario non sono state prodotte solo dalla forza
autoriproduttiva del capitale, ma anche dai vuoti di teoria e di prassi
coerente che illusoriamente si é cercato di riempire con un attivismo
più o meno "professionalizzato" e "militante", con un attaccamento
patetico a presunte verità antiche del movimento operaio, probabilmente
false già allora, sicuramente inutili e dannose oggi.

Da
più parti si sostiene, in termini diversi, che non si deve buttare via
insieme alla classifica acqua sporca il tradizionale bambino. Noi
dubitiamo fortemente che tale "bambino" sia mai esistito, almeno nei
termini a cui ci riferiamo; questo "bambino", se va inteso come
pratica-esperienza di liberazione, é ancora tutto da generare, senza
tuttavia perdite di quella memoria di cui i fatti ci hanno
disordinatamente fornito. Noi non siamo certo per l’elogio dell’assenza
di memoria, che in realtà é solo sua esorcistica rimozione, ma
pretendiamo esercitare il dovere di critica anche sulla memoria stessa
e sui fatti che essa evoca. Così, se passionalmente siamo sempre dalla
parte di Spartaco, degli indiani d’America, dei comunardi, della banda
Bonnot, dei rivoluzionari tedeschi insorti intorno al ’20, degli IWW
americani, insomma di tutti coloro che nel loro tempo si sono battuti
coraggiosamente per la liberazione propria e generale, nondimeno non
possiamo esimerci dalla critica radicale di tutto il passato rispetto
ai compiti che oggi noi stessi – e non certo una malintesa Storia – ci
imponiamo. La memoria é forza, se si accoppia alla capacità reale di
essere autenticamente contemporanei al proprio tempo, addirittura alla
volontà di praticare embrionalmente il futuro. Quindi, per concludere,
nessun "liquidazionismo" da parte nostra, ma la serena consapevolezza
che la più parte dei moduli pregressi, organizzativi o anche analitici,
oggi ci serve a ben poco e che soprattutto la sua riproduzione é di
danno allo sviluppo delle nuove potenzialità rivoluzionarie; liquidare
la forma-partito, comunque intesa, non significa certo rinunciare a
forme aggregative oggi concretamente possibili, così come rifiutare il
concetto di "presa del potere" non significa certo l’accettazione
dell’insieme dei poteri attuali ma, al contrario, vuol essere sforzo
verso la loro individuazione concreta e capacità effettiva di
abbatterli. Che il capitale si sia inserito dentro ciascuno di noi é
dato d’analisi imprescindibile, perciò il bisogno di liberazione deve
sapersi confrontare con questi materiali ostacoli, riuscendo infine a
rendere possibile una liquidazione del "gregariato", dei ruoli, di
tutte quelle forme insomma con cui il singolo soggetto riproduce valori
di capitale e nessi di società.

Ci siamo obbligati, seppur un po’ controvoglia, a questa lunga
carrellata critica sulle posizioni espresse recentemente da diverse
parti (e tutto quello che non abbiamo trattato, fatta salva una
possibile non conoscenza, é perché non era neppure interessante per
l’analisi o perché comunque poteva rientrare nella critica di altre
posizioni manifestate) per un dovere di correttezza di raffronto, ed
anche perché, secondo metodo saggio, pensiamo che attraverso la
disamina critica dell’affermato da altri sia emersa la filigrana di
quanto noi stessi pensiamo ed affermiamo.

Ma almeno su un
punto ci é d’obbligo diffonderici ancora, per evitare malintesi o
confusioni: ed é quello che definiamo come la "soluzione sociale" del
problema dei prigionieri politici e, più in generale, della prigionia
sociale.

Sgombriamo subito il campo da un possibile
equivoco; la soluzione che cerchiamo e vogliamo non é, sotto mentite
spoglie, lo stesso della futura possibile o meno Grande Rivoluzione. È
evidente da quanto detto che noi tendiamo effettivamente ad una
rivoluzione che rovesci la storia e le relazioni umane presenti come un
guanto; va da sé, pero’, che sarebbe quanto meno sciocco ed illusorio
aspettare quel lontano momento per affrontare concretamente problemi
già oggi in campo, primo tra tutti questo della prigionia.

Abbiamo già detto che la liberazione é per noi un percorso, un processo
che va tentato e praticato da subito. Aggiungiamo che non può trattarsi
di un percorso lineare, ma di una serie di salti, di rotture, anche di
forzature: di più che la possibile realizzazione futura di legami
liberi di comunità passa necessariamente attraverso la forza di
sperimentazione attuale, l’intelligenza di sapersi situare "fuori e
contro" i valori dominanti, addirittura oltre ad essi; nessun utopismo
però, nessuna idea di falansterio (tanto meno nelle miserabili versioni
moderne di volontari ghetti che mai depassano la ragione codificata e
l’accettazione supina dell’esistente) e quindi nessuna "isola felice":
se di isola si tratta, cerchiamo l’isola non trovata, anzi pretendiamo
di inventarla! Quello che si intende per sperimentazione concreta di
libertà e di comunità é tutto dentro la dinamica dell’opposizione
ostinata all’esistente societario. La libertà, infatti, può essere
sperimentata solo attraverso le forme di negazione materiale
dell’illibertà sociale o comunque introiettata individualmente; la
comunità reale può essere pre-vissuta come comunità di intenti, di
tensioni, di agire. Ciò non é permesso. Per questo la trasgressione
assume valenza positiva, seppur degna di smitizzazione e soprattutto di
non fissazione. La trasgressione in sé non porta valori comunque umani,
ma ne nega altri codificati; se essa, però, si trasforma in
riaffermazione differente di ciò che prima ha rifiutato non é altro che
forma recuperata, produttiva di comportamento sociale controllabile. La
trasgressione cui noi ci riferiamo é quella che contiene tanto la
negazione del presente quanto l’allusione al futuro. Non ci interessano
certo i ladri che si fanno banchieri né i banchieri che diventano
ladri! La trasgressività é quanto, pur prodotto dalla
società, tende ad affermare caratteri diversi, antagonici, di comunità.
Quando si contrappone il concetto di "comunità reale" a quello di
società – come che si sia storicamente manifestata – non é certo per
riprodurre una sorta di guerra di tutti contro tutti, l’"homo homini
lupus" di lontana memoria, né tanto meno per ricordare nostalgicamente
le società-comunità primitive (poiché allora effettivamente i due
termini si confondevano tra di loro). L’appartenenza reciproca, il
riconoscimento delle differenze e la loro corretta valutazione, il
superamento di appiattimenti "egualitarizzanti", la riscoperta
dell’originalità singola e collettiva contro il processo di
identificazione: ecco i caratteri dell’essere-vivere comunità, ecco
quanto é stato sottomesso e soggiogato dalla forma-società. Perché,
siamo chiari, la "società umana", se può apparire concetto fascinoso, é
d’altronde storicamente e concettualmente falso. Società é patto,
regolamentazione, insieme di diritti-doveri, accettazione sì delle
possibili diversità ma, nel contempo, loro codificazione, sicché solo
alienando parte di sé e del proprio interesse l’uomo può addivenire
alla convenzione societaria.

L’anticipazione dei caratteri
di comunità non è utopistica seppur, letteralmente, appare utopica, nel
senso che oggi non esiste in alcun luogo. Ma anche questo é solo
parzialmente vero; non esiste in nessun luogo in modo codificato o
istituzionalizzato, proprio perché la sua natura é ribelle al codice e
alle istituzioni; é esistita invece sul filo del tempo, nei tentativi
rivoluzionari della storia, ed esiste, ancorché sommersa, nelle
esperienze di ri-aggregazione liberatoria che contengono grossi
elementi di disgregazione del già-costituito, del già formalizzato.

L’anticipazione
di cui parliamo è di natura duplice: da un lato si evidenzia come
"eccesso", come negazione di ciò che esiste e disaffezione originale ad
esso; dall’altro si esprime come innovazione della qualità dei rapporti
tra i soggetti implicati in questa forma di ostilità all’esistente. Le
relazioni umane che si determinano nella terra di nessuno sottratta al
controllo possono divenire effettiva anticipazione dei caratteri sopra
detti. Attenzione però, questo é possibile solo quando la
trasgressione, l’affermazione di sé nuova e la capacità di comunicare
il vissuto si intrecciano strettamente tra loro. Noi conosciamo e
viviamo molti episodi, molte relazioni autenticamente complesse ed
originali, vive, ma d’altronde abbiamo sotto gli occhi il tracollo che
si é determinato quando questa innovazione veniva postulata ma non
vissuta, quando le formalità – e quelle politiche in primo luogo – si
sostituivano alle ricchezze di sostanza (il fenomeno` `pentiti" va
letto soprattutto in questa chiave e, per dirla tutta, non possiamo
solo limitarci nei loro confronti all’odio e al disprezzo, peraltro
tanto umanamente inevitabili quanto logicamente necessari, ma dobbiamo
sottoporre a critica radicale le strettoie formali in cui ci si è
impegolati, e che (…)
estranei quando il vento delle cose li ha
spinti su spiagge solitarie, dove ciascuno é quel che è, e lo
spettacolo è monopolizzato dall’insieme dei poteri-istituzioni).

L’anticipazione di cui parliamo é presto definita: è la pratica di
agire libertà dentro le chiusure imposte. Ciò avviene in modi volta a
volta singolari dentro i territori del capitale – e tutti lo sono – e
soprattutto quel potente veicolo di controllo sociale, ma nel contempo
di sua possibile negazione, che è la metropoli, la città che invade con
i suoi nessi ed i suoi rapporti tutti gli spazi circostanti.
Ben
poco infatti rimane fuori dalla metropolitanizzazione ed anche quel
poco si confronta sempre con gli Stati-metropoli, con le
città-metropoli, con le condizioni-metropoli: é un universo
tendenzialmente metropolitano, intersecato da segmenti diversi ma
segnati tutti dalla corsa all’urbanesimo, quello con cui dobbiamo fare
i conti: é questa l’intima essenza del rapporto-società, questo il
pianeta del capitale, creato – come il mondo da dio – a sua immagine e
somiglianza.

La soluzione sociale che vogliamo proporre è tutta dentro questa
pratica dell’anticipazione, questo prodursi di tensioni tra vari
segmenti sociali e, soprattutto, riguardo la vettorialità
rivoluzionaria che in molte lotte, ancorché limitate o scomposte, é
visibile da lettori attenti. Non ce n’é, la "seconda società", la
"società-altra", che molti hanno delineato in questi anni – vuoi per
esorcizzarla, vuoi per recuperarla, vuoi per esaltarla – é un
indiscutibile dato di fatto . Vi é un nuovo modo di vivere velocificato
e radicalizzato dalla formazione stessa riproduttiva di capitale, che
rimane un dato emergente e forte. E questa "seconda società" che ha
prodotto i soggetti attualmente incarcerati (e non solo i politici) ed
è per l’appunto questa che va attivata per la liberazione degli stessi,
cioé, per parlar chiaro, di noi. I passaggi sono difficili da
ipotizzare e sarebbe comunque sciocco non calcolare la possibile
formalizzazione statuale di eventuali e nuovi rapporti sociali.Non é
per spocchia che siamo contrari a soluzioni del tipo amnistia o
sanatoria. Ci dispiace molto di dover togliere le paranoie, anch’esse
consolatorie e autovalorizzatrici, ad Oreste Scalzone e al suo "Cahier
de doléances" poiché le sue doglianze sono non vere e quanto meno non
appropriate. Nessuno di noi respinge per principio l’ipotesi di
amnistia o di sanatoria né, crediamo, qualcuno si rifiuterebbe di uscir
fuori dal carcere in seguito ad una scarcerazione. Ancora una volta
Scalzone prende lucciole per lanterne, tipico fenomeno degli esiliati
volontari o involontari, giacché crede che vi sia una forma di
"irriducibilismo" sciocco che ben pochi hanno, poiché ritiene che
qualcuno si rifiuterebbe di tollerare mediazioni realistiche o
addirittura fuoriuscite dal carcere. Così, fingendosi uno scenario del
tutto fantasioso, lo Scalzone onestamente può proporre la cosiddetta
"soluzione politica" persino come forzante, come "sogno". In realtà le
soluzioni politiche appartengono a chi nella politica può. Non a noi.
Crediamo infatti che le soluzioni politiche contengano dentro di loro
un segno triplice, e triplicemente interpretabile: possono avvenire
dopo una palese vittoria di una delle due-o più parti interessate al
contenzioso, cioè come magnanimità dei vincitori del conflitto;
("Parcere victis, debellare superbos", cioè risparmiare i vinti, gli
assoggettati e infatti talora si trova "subiectis" al posto di "victis"
e colpire gli ostinati é vecchia massima latina, é oggi il principio
stesso del trattamento differenziato, della legge pro "pentiti", della
benevolenza statuale verso chi ad essa non si dimostra incompatibile);
oppure come trattativa specifica tra parti separate, nella fattispecie
tra due ceti politici che si riconoscono e si definiscono
reciprocamente, riversando il loro comune livore su di un
terzo-assente-presente, cioè verso coloro che non aderiscono a questi
schemi o da essi fuoriescono; infine come mutato rapporto complessivo
dentro la società tutta, come espressione di debolezza delle forze di
governo ed amministrazione, come loro tentativo di placare una
possibile ed eventuale tempesta.
Se guardiamo con lucidità e
disincanto le amnistie promosse dallo stato repubblicano d’Italia,
possiamo facilmente scorgere questa trivalenza. L’amnistia verso i
fascisti, come già detto, fu forma di "clemenza" e, soprattutto, di
recupero nei confronti del pregresso, del vinto, forma di
autentificazione dello Stato stesso; molte amnistie "comuni" sono state
il frutto di una impossibilità statuale di gestire le sue stesse
contraddizioni, un tacito patto, sempre sul bilico della rottura, con i
ceti delinquenziali a cui, di fatto, veniva riconosciuta validità
riproduttiva; l’amnistia per i cosiddetti reati politici e sociali
avvenuta nel `69 fu la palese dimostrazione della volontà dello
Stato-regime di tollerare, se non di cooptare, i comportamenti
trasgressivi, volontà non certo "naturale" quanto obbligata dalla
pressione sociale allora difficilmente governabile. In questo quadro
storico-metodologico noi dobbiamo situarci ora. Ma non solo con gli
occhi rivolti ad una possibile vertenza complessiva con lo Stato. Mille
vertenze, se così vogliamo definirle, si possono aprire in ogni sede
processuale, in ogni condizione carceraria. La questione è
relativamente semplice, se non si vuole vendere o svendere checchessia.
E’ un problema di ripresa di forza sociale, é divaricamento delle
contraddizioni esistenti, é infine forma di anticipazione dei modi e
dei tempi della "società-altra", cioè di quella parte di individui che,
seppur "sociali", rivendicano una propria tensione radicalmente
controsocietaria. Significa, per noi, radicare le battaglie di libertà
su un terreno concreto, significa quindi legare la critica del carcere
alla critica dello Stato, ed entrambe alla lotta contro la società che
li genera. Si manifesteranno, se sapremo procedere con il giusto passo,
dei legami di senso tra coloro che sono
inchiodati ad un carcere territoriale diffuso e coloro (noi) che sono materialmente imprigionati.

Chi oggi, ed é la stragrande maggioranza dei proletarizzati –
funzionariato parassitario escluso -, viene spossessato con tasse ed
altre vessazioni di una parte sempre più consistente del proprio
reddito non si trova, nei fatti, in condizioni assai diverse, verso
l’autorità dello Stato, da chi ne è completamente vittima, cioè i
prigionieri. Ciò che lega noi agli altri proletarizzati è proprio la
forma oppressiva dello Stato. A ciò, con segno opposto, dobbiamo
riferirci e su ciò dobbiamo fare leva. La liberazione dei prigionieri
non può essere vissuta solo come problema degli stessi, ma é una linea
di discrimine e dunque di lotta e di libertà per tutti coloro che oggi
non solo si sentono estranei alle forme delle istituzioni, ma che
addirittura rivendicano la propria inimicizia rispetto ai poteri di
esse.

Nel concreto noi proponiamo che ogni "processo
politico" sia un terreno di confronto tra soggetti viventi nella
metropoli e, nel contempo, di leva sulle contraddizioni del ceto
amministrativo-politico.

Noi chiediamo ampie battaglie
oltre-politiche, e cioè sul terreno effettivo della lotta allo Stato, a
tutti i compagni che in qualche misura si rapportano al carcere e ai
prigionieri. Più specificatamente chiediamo che vengano condensati i
problemi che, a loro volta, possono irradiarsi sul tessuto sociale. Non
è una battaglia di principio che desideriamo, né tanto meno
un’agitazione per la semplice scarcerazione delle "avanguardie"
comuniste. È ben di più. E’ coinvolgersi e coinvolgere ampi settori di
antagonisti sul terreno dell’impossibilità di tollerare la
forma-carcere come forma inevitabile e necessaria. E’ la richiesta di
coerenza sufficiente per esplicitare temi che ciascuno dentro di sé
sente come vivi e che di fatto collegano realmente i
prigionieri ai "liberi", e viceversa. Sono, in sintesi, la questione
della sessualità dispiegabile che, negata materialmente ai prigionieri,
é in realtà compressa in tutti, ridotta a mere funzioni riproduttive, a
ruoli sociali e spettacolari; é la questione della salute degli uomini
che viene attaccata pesantemente, non solo dal carcere materiale, ma da
un’intera società volontariamente nociva e demenzialmente cancerogena;
é la questione della pace che, sicuramente, agitata in astratto non può
esistere, ma che oggi si sviluppa solo come accettazione della guerra interna
imposta e come equilibrio tra forze imperiali nemiche; la pace che
vuole il prigioniero, e più in generale l’uomo, non é assimilabile al
concetto di accettazione della guerra ma,
al contrario, vuole essere suo ribaltamento: la distruzione del ceto
autoriproduttivo e guerrafondaio è l’impostazione di una pace non
ideologica, ma realmente e concretamente vissuta da tutti, insieme; la
questione della libertà come possibilità di movimento dentro gli spazi
e, sconvolgendone i ritmi, sopra il tempo: il prigioniero è
massimamente espropriato di tempo e completamente ridotto in spazi
angusti che negano sin dall’inizio la possibilità di percorrere
sentieri che non siano predeterminati, ma questa è davvero la
condizione dell’uomo contemporaneo, l’abbrutimento della specie
femino-umana di cui i prigionieri sono solo l’esemplificazione
macroscopica; infatti che tempo ha l’uomo "comune" costretto a ritmi di
"lavoro inutile" e di "tempo libero" altrettanto dissennato, meramente
riproduttivi di una glaciazione storica, che spazio ha la "gente"
costretta a percorsi sempre uguali, a territori compressi, ed
espropriati di ogni valenza innovativa, che spazio tempo è concesso a
chiunque dentro la sfera fissa della temporalità orològiaia e della
spazialità urbanistica?

Su tutti questi temi vogliamo
lucidamente produrre un collegamento tra noi medesimi e tutti coloro
che oggi apparentemente ci sono separati, da mura e da cancelli. La
soluzione sociale é si rifiuto della politica, ma non é assurdo rifiuto
delle formalizzazioni politiche che altri – lo Stato – può dare. È
soltanto inversione di tendenza, ribaltamento del piano relazionale,
imposizione di trasgressività concretamente prescelta.

Allora nei singoli processi è possibile dimostrare la miseria
dell’accusa, forzare il quadro concettuale e interpretativo che ha
fondato gli stessi capi di imputazione, ottenere concrete, seppur
parziali, "vittorie" su casi singoli e particolari senza però scollarli
e differenziarli dal resto. Allora é possibile che la "vertenza" sulla
liberazione non sia più tra differenti ceti politici, ma divenga asse
portante di una battaglia ben più ampia, in cui l’assunzione di ogni
caso specifico sia forma dell’insofferenza all’assetto
socio-istituzionale. Allora possiamo seriamente pensare a "debolezze"
statuali che consentano margini di liberazione, essendo ben chiaro
comunque che sul terreno della libertà solo altri potranno
mercanteggiare, in tentativo di recupero, e non certo chi questa
libertà vorrà imporla e praticarla.

Abbiamo delineato delle
grandi questioni (sessualità, salute, libertà stessa, etc.) ed é su
questo piano che la soluzione sociale può attuarsi, pur nella sua
momentanea parzialità.

Non chiediamo forme di
autodeterminazione, non perché essa sia esclusa dai nostri desideri, ma
soltanto perché, slegata da una corsa alla libertà reale, diventa
miserabile cogestione.

Pretendiamo di conseguenza interventi
significativi in merito da parte di tutti coloro che ritengono – a
ragion veduta – di avere qualcosa da dire. Sui processi, certo, ma
soprattutto sull’imprigionamento di cui tutti siamo vittime, talora
purtroppo consenzienti.

Questa é la nostra prima presa di parola; faremo seguire "lavori" che
pensiamo immensi e magnifici. Vedremo. E certo comunque che nessuno ci
toglierà il gusto per una vita "esagerata"!


NOTA.

Una
nota va infine aggiunta, non per pignoleria ma per sottolineare e
rendere esplicito a tutti i possibili lettori quanto é stato già
immediatamente vissuto dagli estensori del presente scritto.
Una nota unica e doppia.
L’unicità è data dal senso complessivo, la duplicità delle due
questioni che vanno chiarite: scelta dell’occasione per presentare
pubblicamente queste riflessioni a voce alta, e scelta della firma,
cioè delle firme, insomma del modo di presentarci. L’occasione è, se ci
si concede il pleonasma, occasionale – ma nel contempo liberamente
prescelta: il processo milanese a "Rosso" e a tutta la cosiddetta "area
dell’Autonomia". Da tempo, invero, i discorsi tra di noi si espandevano
e si raggrumavano in concetti, in piccole convinzioni vissute e
viventi, in rapporti amicali e, forse, già di comunità, in parole
scritte seppur scompostamente e disordinatamente. Il processo milanese
all’area dell’Autonomia ed a vari spezzoni organizzati ci ha
semplicemente fatto accelerare i tempi. Perché? Perché si inserisce in
una prossima e lunga stagione di processi penali non riguardanti solo
organizzazioni particolari e determinate, ma aventi anzitutto la
pretesa di ricostruire fasi complesse di storia sotto la fattispecie
giudiziaria.
Allora ci è parso assai stimolante, ed anzi necessario, intervenirvi
con tutta la nostra alterità, il nostro disincanto, la convinzione di
essere, noi, sempre da un’altra parte rispetto a quella in cui ci
cercano, ci descrivono, ci vogliono catalogare.
E, lo si riconosca, è davvero singolare ma significativa la pretesa di
partecipare, a nostro modo, ad un processo che vede imputato
direttamente solo qualcuno di noi! Insomma, é la riaffermazione del
nostro diritto – vero perché assunto unilateralmente e del tutto
soggettivamente – di parlare dovunque ci piaccia, non accettando più,
se mai le abbiamo accettate, le regole comportamentali dell’agire
politico" che, in fondo, è pur sempre agire amministrativo. Ci
interessa, al contrario, dislocarci solo sui terreni da noi stessi
volta a volta prescelti. Parlare "a sproposito", dunque, e sempre a
proposito perché infine è comunque di noi stessi e su noi stessi che
ragioniamo. Solo così ci possiamo correttamente rapportare ad altri,
senza più sovradeterminazioni ma, sia chiaro, anche senza "umiltà"
sottodeterminate.

La firma poi, anzi le firme.
Questo è un periodo in cui tutti stanno firmando nominativamente,
sancendo così anche formalmente la fine delle certezze organizzative. È
un nuovo costume a dire il vero non meno fastidioso di quello
precedente, secondo il quale invece si procedeva per sigle ed
etichette. Perciò, per sfuggire questo attuale gioco delle parti che
sembra trovare consenzienti svariati attori, avevamo pensato di andare
ancora una volta controcorrente, e dunque di trovarci una firma
collettiva.
Tra un bicchiere e l’altro, ne avevamo trovate anche di buone. Da un
irridente e sorridente "club degli incorreggibili" – incorreggibili nel
tentare innovazioni e sperimentare intelligenza, a dispetto di tutto,
art. 90 compreso – ad un più enigmatico ma, svelato il mistero,
simpaticissimo "gli amici del ‘solitone" (chiamasi "solitone" un’onda
che, a differenza delle consorelle, non si infrange né si spezza o
interrompe, continuando a riprodursi a lungo, quasi inesauribilmente,
pur modificandosi. Il fenomeno fu rilevato per la prima volta da un
gentiluomo inglese dell’800 che, cavalcando lungo un canale, si accorse
di questa onda curiosa, desueta ed ostinata; oggi, per la miseria
utilitaristica della scienza, le leggi del "solitone" sono studiate da
molti matematici e fisici e trovano implicazioni nelle onde
elettromagnetiche nonché applicazioni nel campo delle fibre ottiche e
del laser).
Diciamo la verità: queste ed altre possibili "sigle" ci divertivano parecchio, e divertirci per noi è molto!

Tuttavia
dopo chiacchiere, ragionamenti ed analisi, e nonostante la voga
presente, ci siamo resi conto che nel nostro caso era ancor più
bizzarro ma esplicativo firmarci con nome e cognome, individualmente.
Per l’estrema varietà dei soggetti. Infatti si va da chi da molto tempo
ha espresso forti critiche (da "sinistra") alle mitologie
lottarmatiste, a chi ha vissuto soprattutto le cosiddette "pratiche di
movimento", da chi è stato vitalmente e passionalmente nella lotta
armata di questi anni, a chi è più un "comune" che un "politico". Da
chi si è "rivendicato", a chi si è motivamente "difeso", senza però
alcuna cedevolezza o compromissione. Da chi ha posizione giuridica
pesantissima, a chi potrebbe, dovrebbe uscire di galera tra poco. Da
chi, infine, è direttamente coinvolto nel "processo-Rosso", a chi
invece non c’entra per nulla! Questa bizzarria è per noi esemplare.
Perché è la dimostrazione concreta che il nostro pensare ed agire non è
la somma dei percorsi già compiuti da ciascuno, non è solo memoria del
passato, ma è invece rottura e superamento di quella continuità che
sfocia nel continuismo. E dunque coscienza del presente, ragnatela di
vite e di ragioni, segno dell’impossibile da rendere possibile nel più
prossimo futuro. Mica poco!

Noi ci "dichiariamo": alcuni di
noi hanno pensato e scritto; altri però co-firmano e condividono; le
diversità non vengono azzerate e, invece, le originalità sviluppate; né
i disagi reciproci tra certi soggetti possono essere cancellati con un
colpo di spugna: è un percorso difficile ma bello quello su cui ci
azzardiamo. Su questo terreno vogliamo "parlarci", con tutti coloro che
hanno qualcosa da significare: altri processati, altri prigionieri
sparsi, molti "liberi" vicini e lontani.
Come diveva Bruce
Springsteen in un’intervista: "Sai, promettere a qualcuno che tutto
andrà bene, non ti è mai possibile. Dovresti essere un politicante.
Tutto quello che puoi fare è dire che esistono delle possibilità, che
alcune di esse si concretizzeranno ed altre no, che cercate e lottare
sono cose che confermano il valore della vita. Le illusioni ti
indeboliscono, i sogni e le possibilità invece ti rendono forte".
E così sia.


Fossombrone, febbraio-marzo 1983

ANGELO
MONACO, BRUNO PEIROLO, CESARE MAINO, CLAUDIO WACCHER, DARIO CORBELLA,
ERMANNO COLLEDA, GRAZIANO ESPOSITO, JUAN SOTO PAILLACAR, LUCA
FRASSINETI, MASSIMO DOMENICHINI, RICCARDO D’ESTE.


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