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Ogni uomo deve avere delle buone ragioni per alzarsi al mattino parte 1°

Ogni uomo deve avere delle buone ragioni
per alzarsi al mattino


Tratto da "Italia 1983 – progionieri politici, processi, progetti"
Edizioni cooperativa Apache – maggio 1983

Fossombrone,
febbraio-marzo 1983. ANGELO MONACO, BRUNO PEIROLO, CESARE MAINO,
CLAUDIO WACCHER, DARIO CORBELLA, ERMANNO COLLEDA, GRAZIANO ESPOSITO,
JUAN SOTO PAILLACAR, LUCA FRASSINETI, MASSIMO DOMENICHINI, RICCARDO
D’ESTE

 

 ("A chi ha cercato la maniera e non l’ha trovata mai")

 

Da
alcuni mesi a questa parte stanno circolando dentro alla carceri, nei
luoghi ad esse contigui e, più in generale, nell’ambito "sociale",
documenti, bozze, prese di posizione varie sul problema della prigionia
politica in Italia, della fine o della ridefinizione della cosiddetta
"lotta armata" e, infine, pur alludendovi, del conflitto sociale
tuttora in corso. Noi intendiamo intervenire in merito con
l’autorevolezza dataci dalla passione e non certo da qualsivoglia
etichetta. Perciò ci preme subito dire come, da chi, da dove e perchè
nascono queste parole che sono solo un passo distanziate dalle idee!

Siamo
un gruppo di soggetti incasellati in varie inchieste giudiziarie
attualmente detenuti nel carcere speciale di Fossombrone, un gruppo
che, a partire da livelli di aggregazione vissuta, si è sedimentato
negli ultimi tempi e va verificandosi sul dibattito riguardante la
proiezione reale e possibile del nostro essere ed esistere interno alle
dinamiche sociali, tendenzialmente controsocietarie. Non intendiamo
certo riproporre caratteri da "vecchia organizzazione", ne riassumerne
le caratteristiche, nè infine, pretendiamo o desideriamo presentarci
come un blocco monolitico che, oltre a non essere reale, non avrebbe
neppure quella "forza espressiva" alla quale ambiziosamente tendiamo.

Siamo
consci delle disomogeneità presenti tra noi, sia di percorsi, sia di
pensiero attuale, ma di questo dato di apparente debolezza vogliamo far
leva di forza caratteriale, ben certi che la nostra ricchezza derivi
anche, seppur non solo, dal confronto-scontro tra soggettività vive.
Ciò che senz’altro rifiutiamo, immediatamente e metodologicamente, è
l’agire da "bravi politici" i quali oggi vestono tutti i possibili
abiti ideologici, nessuno realmente adeguato al loro pratico esistere,
come vecchie puttane che più o meno abilmente si rifanno il trucco. E,
si sa, una laida meretrice davanti allo specchio ha molti, troppi sogni
che la conducono ad indossare i panni più mistificanti, più dentro la
moda del momento, pur di celare la realtà vera che la trova distesa
sulla brandina da campo a praticare tariffe sempre più basse per
sopravvivere.
Non si pensi però che vogliamo liquidare
apoditticamente le posizioni miserabili oggi prodotte dal "ceto
politico" che, comunque, si ripropone. Affronteremo più avanti le
questioni partitamente, dando e dicendo a ciascuno il suo. Ci preme ora
sottolineare che non ci unisce soltanto una critica verso altre
posizioni, nè alcun "rocchetto di filo rosso" ipotetico e pregresso, ma
una concreta determinazione ad agire, un riconoscersi, un amore
sovversivo che é di se per sè eloquente presa di posizione, distinguo
materiale e vissuto. Le molle che ci spingono ad uscire pubblicamente
con questo testo sono esattamente quelle sopraindicate. Non ci importa
certo rispondere ai vari mercanti di storia, ma porre e proporre le
basi per una nostra-di noi tutti-proletari assoluti, ripresa di azione
e di forza, lasciando finalmente da parte caratterizzazioni apofantiche
del tipo: "siamo quelli che non…". L’unica ed indiscutibile
discriminante che poniamo, tanto a noi stessi quanto ad altri, é
l’appartenenza ad un’area libertaria (come forza dell’agire liberazione
umana e non certo come surrogato del "libertarismo" ideologico da più
parti ridicolmente conclamato) contro ogni riferimento teorico-pratico
a posizioni m-l, a qualsiasi ipotesi di partito, a qualsivoglia
ipostatizzazione di masse e avanguardie, comunque rivisitate e
ridefinite.

Gli
spazi di dibattito, e anche di azione, che si sono aperti o che si
stanno aprendo nell’ultimo periodo, sono astrattamente larghi, vanno
però concretamente riempiti pena un odioso parlarci addosso. Se non
possiamo che rilevare positivamente il fatto che taluni settori
prigionieri finalmente parlino, e forse pensino, dopo tanti leaderismi
e gregariati ignobili, non possiamo che constatare con disappunto
quanto spazio sia stato inopinatamente e immotivatamente occupato da
coloro che, veicoli di vuoto e confusione, attraverso tali spazi vedono
la possibilità di dialettizzarsi con lo stato presente delle cose
nonché di trattare con lo Stato, vendendo la propria "pubblicità"
precedente, ovvero, per tirar via il culo dalla galera, creandosene di
nuova su pratiche fondanti quelle forme differenziatrici tra soggetti,
prigionieri e non, che l’assetto societario e le sue istituzioni
richiedono. E’ importante sottolineare come tutti gli interventi,
dovunque provengano, cerchino di affrontare e di sciogliere il nodo
della liberazione – per alcuni ridotta a mera scarcerazione, quasi la
libertà socialmente concessa fosse libertà reale – dei cosiddetti
prigionieri politici. Già questo seppur limitativo punto di vista, ci
trova dissenzienti per metodo e per merito: la questione reale é – e
deve essere – l’abolizione del carcere e della società che lo fonda e
costituisce. Altrimenti ogni ipotesi, più o meno sensata e più o meno
praticabile, di "soluzione politica" assume dignità discorsiva mentre,
senza mettere in discussione l’esistente, cerca solo le forme più
adeguate per la sua rappresentazione e conclusione. Né é un caso che
nei discorsi di taluno venga compiuto il surrettizio confronto con
l’estinzione" dei manicomi, quasi si fosse introiettata la logica
"sovietica" che rende equivalenti antagonismo e follia, o il ricorso
alle amnistie "politiche" dello Stato, quale, p. es., quella adottata
nel dopoguerra nei confronti dei fascisti; in realtà, se noi siamo
"matti", vogliono estinguere noi e non dissolverci, portatori di
potenziali virus, nel tessuto della società; in realtà, i fascisti
andavano scarcerati perché il fascismo, forma di ridefinizione del
capitale, veniva sussunto e inverato dalla forma-democrazia, mentre la
sovversione sociale non può essere
scarcerata senza, per l’appunto, una forza sociale che lo imponga!

Precisiamo da subito che noi non siamo indifferenti al problema della
liberazione dei cosiddetti detenuti politici di questo paese, né
vogliamo rimandarla ad un tempo senza fine, quando un improbabile sole
rosso splenderà su un altrettanto incredibile presa di un Palazzo
d’Inverno, oggi socialmente diffuso e quindi non identificabile in sè e
per sè come entità separata, "cuore del potere". Ma d’altronde non
riusciamo a vedere slegato il problema dei detenuti politici da quello
delle forme di controllo e di comando societario cosicché, se soluzione
può esservi, e ha da esservi, fin d’ora diciamo che potrà essere solo
di natura sociale. Questo impone una scelta di campo ed una
presa di coscienza da parte di molti ed in primo luogo dei detenuti
sociali (politici e non) che devono saper impiantare una battaglia di
libertà complessiva, sola possibilità autentica di relazionarsi ad
altri segmenti di proletari spossessati e tendenzialmente in lotta di
liberazione. Quindi nessuna passività e, nel contempo, nessuna delega
alle "istanze politiche" vere o presunte che siano.

Non ha
del tutto torto, almeno su questo punto, un Oreste Scalzone quando
sostiene che la liberazione "manu militari" non può oggettivamente
rappresentare la soluzione immediatamente praticabile per tutti.
Ma non coglie nel segno. Infatti, se ribadiamo il concetto di
"soluzione sociale" su cui ci diffonderemo più avanti, vogliamo anche
sottolineare l’importanza della critica pratica alla pretesa
impermeabilità della struttura carcere che, per essere forata, sembra
necessitare sempre di soluzioni "altrove", cioè laddove i prigionieri
nulla contano di per sé soli. Lo strumento dell’evasione (e i casi di
Frosinone e Rovigo ci sembrano esemplari) ci pare importante non perché
"ideologicamente" prediletto, non in quanto tale, ma perché dimostra
nei fatti il carattere utopistico del progetto totalitario di
controllo. A questo proposito e a scanso di equivoci, ci piace
precisare che anche tutte le scarcerazioni ottenute facendo leva nelle
crepe della cosiddetta "giustizia" vanno favorite ed anzi è compito
dell’intelligenza saper sfruttare, quando possibile, soluzioni
processuali vantaggiose, "difendendosi", senza peraltro alcuna svendita
o cedevolezza. È evidente perciò che per noi non è questione di
privilegiare il "militare" o il "tecnico-giuridico"; ci preme invece
affermare la necessità di utilizzare tutti gli strumenti a disposizione
per sottrarre soggetti e gruppi di soggetti alla carcerazione e, nel
contempo, per riaffermare la possibilità concreta di uscire dalle
carceri, al di là e "contro" le imputazioni formulate da una
magistratura che sempre più si connota come forma particolare,
specifica dell’esercizio del comando codificato.

Nessuna
illusione, perciò, ma l’obbligo concreto di battere ogni forma di
rassegnazione, verso la costituzione materiale di quella "soluzione
speciale" a cui tendiamo e che, pur con allusioni e contraddizioni, é
stata un idea-forza della sovversione sociale in questo paese lungo
l’arco di un quindicennio. Nessuna etica del sacrificio quindi, ma la
capacità forzante di unire il bisogno del "qui ed ora" alla prospettiva
più ampia del "per tutti e comunque". Perché, lo si dica chiaramente,
il nostro percorso di "comunismo" è si affermazione di materialità
immediate e concrete, ma nel contempo contiene un progetto
ambiziosissimo e ne siamo orgogliosi che appare per la prima volta
nella storia dell’umanità: l’abolizione di ogni forma di società,
comunque autoriproduttiva di alienazione, per la liberazione delle
energie complessamente umane e di nuova comunità. Tutti coloro che si
illudono riguardo a "nuove società" venture, parlano il linguaggio
dell’unica società possibile, l’attuale, e dunque sono costretti a
riempirsi la testa di "soluzioni politiche" o di fantasie guerriere,
senza mai centrare il nocciolo del problema: l’abolizione della società e, durante questo percorso, l’applicazione di nessi controsocietari.

Noi
partiamo da una critica puntuale e rigorosa della società dominatrice
così come si sta informaticamente delineando lungo tracce di controllo
e differenziazione, mutuate proprio, per paradosso, dal regime
penitenziario. Galera sociale dunque, come più volte venne detto e
colto; peccato che ora, nell’ansia di togliersi di dosso il carcere
materiale, molti, troppi se ne dimentichino! Sembra che si confondano,
più o meno volutamente, le cause con gli effetti, sembra insomma che la
catastrofe immanente di cui la società é portatrice sia stata
determinata, almeno in Italia, dalla cosiddetta lotta armata. È vero
esattamente il contrario. La lotta armata nel nostro paese non ha certo
determinato per sé solo le condizioni repressive che oggi viviamo; esse
infatti erano, e sono, già contenute nel progetto totalitario del
capitale. Naturalmente vi è stato uso di parte capitalista di tutti i
possibili errori della lotta armata, ma questo non ci può impedire di
scorgere la forma e la sostanza del disegno autoritativo e
autoriproduttivo "sociale" così come si manifesta planetariamente. Né é
un caso che in altre nazioni dove la lotta armata si è sviluppata poco
e niente, il progetto totalitario-carcerario della società sia
proceduto a grandi passi; ci basti citare l’esempio degli USA dove,
nonostante i tagli della spesa pubblica e del Welfare voluti dalla
politica reaganiana, gli incrementi di spese per nuove carceri, e
dunque per nuovi prigionieri; sono altamente previsti e messi in
bilancio come dimostrano recenti rapporti ufficiali. Perciò a chi giova
una critica riduttiva della lotta armata o, al contrario, una sua
riproposizione acritica seppur rinnovata di panni? Non certo ai
rivoluzionari che da tempo hanno criticato -o lo stanno facendo ora, se
in ritardo- le strettoie formalistiche del politico e quindi anche
della lotta armata come entità autoriproducentesi, autonoma e separata
dai percorsi liberatori e controsocietari in atto. Su ciò torneremo con
visione d’assieme, ma già fin d’ora va detto che la critica dei
rivoluzionari ai fenomeni pregressi, e ai gravi errori colà contenuti,
non parte certo da una riautentificazione dei rapporti sociali dati, né
tanto meno là vuole giungere. Al contrario, essa si applica alle forme
inadeguate, alle loro riproposizioni, ai ritardi del movimento di
emancipazione dalla società, alle secche in cui si è trovata e si trova
la forza che, mentre vuole praticare la dissoluzione dei vincoli
societari attuali, deve saper far emergere i nuovi liberi legami di
comunità umana.

Altri invece, pur partendo da una critica o
autocritica inevitabile, giungono, chi per un verso chi per un altro,
alla riproposizione, seppur sotto nuove forme rappresentative, dei
rapporti esistenti nel mondo e delle loro forme istituzionali. Noi che
non abbiamo nessuna spiaggia da difendere, se non quella che c’é sotto
il pavé (come si diceva un tempo), riscontriamo la miseria di tutti
questi signori che, incapaci di critica radicale all’esistente, ora
"accollano" alle effettive responsabilità del lottarmatismo anche tutte
quelle che competono ad un ceto politico gaglioffo e vile, capace solo
di autoriprodursi e di candidarsi eternamente a ruoli
dirigenti-amministrativi. Questi poveri ricchi politici cercano di
liquidare addirittura il "sogno di una cosa" e, come i "pentiti" non
sono veritieri riguardo a nessun movimento che hanno guardato soltanto
da voyeurs, cioè dal buco della serratura della loro squallida
esistenza, così, altrimenti ma similmente, questo ceto politico non è
credibile quando sviluppa una critica che tale in realtà non è, mentre
risulta solo un coacervo di banalità indotte e di "excusationes non
petitae". Il caso del professor A. Negri e dei suoi "allievi", in
queste gelide nozze di sangue freddo con le istituzioni e la
società-Stato che le coagula, è senz’altro esemplare. Sicuramente
vittime dell`"ingiustizia che incarcera" (parafrasando le. parole del
defunto ma non compianto generalissimo Dalla Chiesa, alla fine
anch’egli massacrato dai giochi di potere che aveva contribuito
notevolmente ad alimentare) come risulta dall’affaire giudiziario che
va sotto l’etichetta di "7 Aprile", impotenti ad essere veramente
autonomi – e non Autonomi! – e quindi di realizzare autentica battaglia
di libertà, sottoposti alla proterva autorità dello Stato, costoro si
lagnano pecorescamente o si fanno addirittura complici e veicoli di un
arrogante progetto di smemorizzazione e annichilamento di ampli settori
antagonisti e trasgressivi, divenendo dunque voce dei loro stessi
aguzzini e scaricando su un "colpevole" immaginario (gli
"irriducibili", cioè coloro che conservano dentro di sé delle buone
ragioni per alzarsi dal letto ogni mattino) i "peccati" di cui sono
vittime partecipi, proponendo infine la propria candidatura come futuri
dirigenti di un possibile movimento, purché esso si delinei dentro le
gabbie istituzionali! Né a molto servono i recenti tentativi di
rileggere la storia, recuperandosi "a sinistra", che vengono compiuti
(testo:"Do you remember Revolution?") poiché non solo si vuole spiegare
"politicamente" una vicenda che è stata essenzialmente sociale, ma
soprattutto perché, quando sono costretti ad immergersi nel sociale,
usano categorie economiche interpretative tramandate dal capitale
stesso. Forse sarà utile in altra occasione sforzarci verso una nuova
scrittura della storia, ma senza ambiguità o riduttivismi concettuali.

Tornando a questi signori, sinceramente non c’è bisogno di molti
discorsi per liquidarli, poiché sono essi stessi, con le loro parole, a
liquidarsi da sé soli: propongono infatti "patti di percorso" che
praticamente significano una modernizzazione delle stesse istituzioni
che li incarcerano! Avendo compreso che la società del capitale esiste
solo per differenziazioni, si fanno agenti promotori delle stesse,
nell’illusione che questa soluzione sia accettabile "colà ove si puote
ciò che si vuole".

Una grande battaglia di libertà, così
come poteva essere costruita su questo caso e altri consimili, è stata
preventivamente svenduta dai protagonisti stessi che preferiscono le
briciole pubblicitarie televisive alla forma di affrontamento sociale
che il contenzioso stesso richiederebbe. Costoro reclamano per se quei
diritti che negano ad altri, al punto di formulare richieste di
cogestione penitenziaria che in prospettiva premino i soggetti ("patto
di percorso") in qualche modo compatibili col sistema carcerario e
istituzionale, nonché dunque ad esso dialettizzantisi, mentre
giocoforza presuppongono, senza peraltro il coraggio di affermarlo con
voce chiara, che per gli irrecuperabili, i disutili, i non dialogici,
infine gli "irriducibili", sia necessario si spalanchino le infernali
porte di quel pozzo nero che sono le carceri speciali ove ciascuno che
vi entra dovrebbe lasciar fuori ogni speranza!

Persino altri, pur intrigati in ipotesi di "soluzione politica", sono costretti a dichiarare che "tutto ciò è indecente".
Non varrebbe, come si é detto, la pena di occuparsi troppo di simili
posizioni se esse non fossero in qualche misura, più o meno
inconsapevolmente, introiettate come chance da altri settori di
prigionieri e di compagni e, soprattutto, se queste ipotesi non
rientrassero nel quadro che le ali più "avanzate" degli amministratori
sociali si propongono per risolvere il complicatissimo caso-Italia. Per
esempio, è facile vedere come l’autodeterminazione carceraria -in sé e
per sé concetto di qualche interesse- che viene, proposta, in realtà
altro non sia se non una forma di cogestione, di pratica
collaborazionista; la pretesa autonomia dei soggetti risulta solo
"possibilità di scelta" dentro un sistema binario, all’interno delle
forme dell’asservimento.

Al proposito sarebbe assai interessante, per meglio comprendere i
modelli di organizzazione concentrazionaria e delle forme
collaborazionistee che si manifestano al loro interno e che vanno
addirittura oltre la famosa Sindrome di Stoccolma, ristudiare la storia
e nella fattispecie le forme in cui si é espresso e materializzato il
comando più "audacemente" totalitario che, a sua volta, ha indotto
specifiche forme di collaborazione-partecipazione: i lager nazisti. Vi
sono vari documenti e libri, tra i quali è d’obbligo segnalare quelli
di Rousset e di Rassinier, pur tra loro differenti, in cui viene
delineata e spiegata la figura del Kapò. Sia chiaro da subito: il Kapò
non era un SS o comunque un nazista; poteva essere o un ebreo
privilegiato o un "comunista" che intendeva privilegiarsi; insomma, per
lo più il ruolo veniva assolto da gruppi di prigionieri che, per
ottenere speciali vantaggi, svolgevano tali maensioni di controllo, di
contenimento e dunque di amministrazione. II Rassinier, tra l’altro,
parla esplicitamente, e con dovizia di particolari, del posto di
rilievo occupato da taluni "comunisti" (in specie i francesi del PCF)
che, in nome di una pretesa funzione di avanguardia, cioè di ceto
politico, si accaparravano il controllo di tutte le forniture, cibarie
comprese, sacrificando così di fatto altri prigionieri ritenuti meno
"utili". La politica si sposava al comando con mutuo vantaggio!

Non
sembri casuale questo riferimento storico: infatti riteniamo che il
modello di politica reclusionaria, concentrazionaria e infine
annientatrice, abbia evidenziato il passaggio dal dominio formale al
dominio reale del capitale il quale, spurgandosi degli aspetti più
deleteri delle forme politiche precedenti, le assume valorizzandole
nell’amministrazione totalitaria del pianeta. Oggi le condizioni di
prigionia subite, seppur tragiche, non sono realisticamente
paragonabili a quel livello, soprattutto come forma; ma la
logica è la stessa. Quale può essere, quindi una possibile
"autodeterminazione" dentro il ghetto imposto, la miseria obbligata, lo
spossessamento diffuso? In una società-carcere si può sfuggire al ruolo
scomodo di prigionieri (o di ribelli che arrischiano quotidianamente di
divenirlo in virtù della propria ribellione) soprattutto diventando
Kapò, anche senza indossare la divisa e lordarsi le mani di sangue,
poiché un esercito di Killers statali è pur sempre pronto in pianta
stabile, e disponibile. Negri ed amici, dopo il brivido del
passamontagna, vogliono vivere il più squallido brivido della
repressione cogestita: comunque sempre in replay, mai del tutto in
diretta, illudendosi di cantare mentre scorre il nastro del play-back.

Si ricostruisce la storia a proprio uso e consumo, riducendola a
cronaca, si stravolge la realtà dei fatti e i ricordi del passato –
nonché le coscienze del presente – confondendo il tutto in un groviglio
inestricabile da cui sembra
emergere un’unica "ragione": la storia del capitale e della società.

Gli eccessi rivoluzionari che, dopo severa autocritica, andrebbero
ripresi per il loro contenuto "utopico" ma reale, vengono così del
tutto stravolti in una squallida cronaca di terrorismo in cui non solo
nessuno può riconoscersi veramente, ma che soprattutto non rende
giustizia di ciò che é stato vissuto da donne e uomini in questa
convulsa congiuntura storica. Perciò si arriva a figurare il movimento
del `68 come spinto da una forte concettualità di tipo leninista – che
era perlomeno intrecciata a tutte le consistenti tensioni
antiautoritarie le quali, oltre che in Italia, si esprimevano nel
"mouvement" internazionale e soprattutto in Francia, nella RFT e negli
USA- ed a negare una precisa volontà antistatale della cosiddetta
"illegalità diffusa" che, invece, manifestava proprio un altro grado di
insofferenza verso le forme di controllo e di dominio esercitate dallo
Stato: Sui perché della "sconfitta" e dei ritardi sarebbero necessari
ben altri lavori di ricostruzione storica. Ci preme qui, per
concludere, sottolineare l’aspetto riformistico e neo-istituzionale con
cui i signori del 7 Aprile e di "Do you remember Revolution?" rileggono
i fatti, ben attenti alla soluzione politico-giudiziaria, ma incapaci
di capire una nuova ondata possibile controsocietaria che, in effetti,
spazzerebbe via anche le loro vagheggiate "mediazioni".

Siamo chiari: la proposta del professor Negri e dei suoi amici non é
poi così irrealistica come altri più "ingenui" hanno detto. E’ dentro
lo sviluppo delle cose. Vende qualcosa per ottenere dell’altro. Vende,
in particolare, gruppi di individui e una memoria complessiva in cambio
di una maggiore elasticità istituzionale che sappia diluire nel sociale
quello che il carcere oggi manifesta come concentrato.Né a caso si
parla di "generazione politica"; si taglia così di fatto ogni legame
con le generazioni in senso proprio, in senso storico, in senso
sociale. Rimane una questione tra "politici" la cui soluzione deve
passare sulla testa dei moderni proletari assoluti. Anche sotto il
fascismo-regime un uomo come Pertini era prigioniero; ora è presidente
di una repubblica sicuramente "antifascista" ma che, altrettanto
sicuramente, farebbe impallidire con le sue costumanze e regole i truci
fascisti stessi! Sono sempre ceti politici che si affrontano, volta a
volta vincenti o perdenti, mentre lo sviluppo sociale rimane solo
quello del capitale.
Noi non crediamo che in linea di massima siano
impossibili "soluzioni politiche", invece che, se esse non saranno
frutto maturo di un’ampia volontà sociale, comunque ci passeranno sopra
la testa.

L’art.
90 è un caso emblematico. Si tratta in effetti di una forzatura voluta
dallo Stato italiano per contenere e comprimere la trasgressione
sociale e soggettiva, per separare radicalmente i detenuti dalle loro
esperienze e dal loro "habitat". Ben pochi, oltre ai prigionieri ed ai
loro famigliari ed amici, hanno affrontato questo problema; sopra vi è
stata distesa una coltre di silenzio ovvero su di esso si è innervata
una serie di proposte "democratiche", che mai hanno messo in
discussione i termini concreti della carcerazione in Italia negli anni
’80. Quest’errore non viene compiuto solo dai Rodotà e da altri
illusionisti stipendiati, ma pure da taluni compagni. Sembra che non ci
si renda conto della natura sostanziale e formale dello Stato Moderno,
vera espressione della società presente.

Compagni come le
donne e gli uomini di Rebibbia, che recentemente si sono espressi con
più testi, compiono anch’essi un errore fondamentale; si rendono conto
della necessità di superare esperienze passate ed oggi non interessanti
(come la fissazione del lottarmatismo); si rendono conto
dell’importanza di ricostruire un movimento che, nelle sue
caratteristiche, contenga forza sociale liberatoria; ma, nel contempo,
sfuggono l’analisi di ciò che é la società attuale e quindi chiudono
gli occhi di fronte alla forza totalitaria che essa esprime; ancora una
volta scambiando cause per effetti si illudono di poter trattare tra
"rappresentazioni": essi stessi come rappresentazione del movimento già
dato ed il governo ed i suoi uomini come rappresentazione del movimento
sociale capitalistico. Questi sforzi, seppur talvolta onesti, sono
destinati al fallimento perché prescindono dalla qualità della "libertà
civile" oggi possibile in Italia, non solo per i prigionieri in senso
stretto ma per tutti i cittadini-prigionieri sociali. Il governo non é
un guscio vuoto che basta aprire per vederne le manchevolezze, né
soltanto una cosca politica con cui in qualche modo si può cercare di
trattare: la strettoia della politica non é casuale, é la forma
fenomenica del dominio sociale così come va determinandosi. È dunque
illusorio ritenere che lo "sforzo di volontà" di certi soggetti per
oltrepassare la forma lottarmata e i suoi avvitamenti terroristici
possa essere un buono da poter riscuotere presso il Banco della
Società-Stato, poiché é essa stessa ad essere realmente terroristica e
ad aver dichiarato guerra, senza dichiarazioni formali, contro tutti
gli individui, come le misure restrittive della "libertà",
spossessative dei salari-redditi e come l’esautoramento decisionale
dalle questioni sociali generali hanno dimostrato. Si vuol dire
semplicemente questo: una società che si modernizza in senso
autoritativo e totalitario, cercando di introdurre il sistema dei
codici addirittura sotto la pelle degli individui, affronta il problema
del carcere esattamente come affronta tutti gli altri problemi. Laddove
la carcerazione diffusa é bastevole, la socializza il carcere; dove ciò
non é immediatamente realizzabile si fa carico della più dura
repressione poiché il soggetto cittadino o é compatibile con l’assetto
societario o non é, nel senso che ne viene annichilita l’originalità
propositiva e, se del caso, la fisicità stessa. (vedi nota)

Non siamo sciocchi però,
e quindi sappiamo che le bande-racket del capitale non sono sempre in
sintonia, omogenee. E sensato dunque giocare arditamente su queste
contraddizioni e su questi ritardi, ma, come nel gioco del calcio,
bisogna farlo di rimessa, in contropiede, utilizzando gli spazi che
volta a volta si aprono, senza soprattutto fornire il nostro materiale
umano come materia di sperimentazione, senza fornire noi stessi come
nuovi filosofi-propositori di progetti ristrutturativi, senza, infine,
sposare l’una o l’altra delle bande politiche che si contendono la
questione del comando.

La critica principale che vogliamo
muovere alle campagne e ai compagni di Rebibbia dei documenti di
"oltrepassamento" é proprio questa: di non essersi oltrepassati
abbastanza, di aver ipotizzato ancora una volta soluzioni politiche
difficilmente proponibili mantenendo fermi i propri caratteri di
originalità, dunque di essersi posti, con rottura parziale del passato,
ancora come ceto politico che, per sua necessità di sopravvivenza e
autoriproduzione, si ripropone nell’ambito politico.

L’autocritica dei percorsi sinora compiuti non viene però solo da
coloro che, rendendosi conto dell’impossibilità dell’andare oltre con
simili criteri, stanno tentando una ridefinizione del loro
passato-presente-futuro, ma anche da chi, comunque, ripropone una
pregnanza centrale della lottarmata o della "guerriglia".

Vi
é infatti una tendenza che possiamo definire "continuista", cioè la
posizione di coloro che, a fronte delle profonde e radicali
trasformazioni societarie, dell’assetto di comando e quindi anche del
pensiero analitico-sintetico, non sanno dis°ilrsi di categorie quali
quella di classe, organizzazione, avanguardia, partito. Di coloro,
insomma, che, incapaci di vivere concretamente gli spunti positivi
della dialettica, la fissano come canone assoluto, nuovo codice,
linea-discrimine per potenziali rivoluzionari. In realtà oggi abbiamo
di fronte un complesso sistema di codici in cui ciascuno di essi,
purché mantenga la natura protocollare, può essere accettabile; in
parole povere tutte le opinioni sono concesse, anzi stimolate, purché
si riducano ad essere opinioni, nuovi comportamenti, ulteriori codici
interpretativi del reale.

Questo "continuismo", tanto
generoso quanto miserabile, non ha colto né sa cogliere il grandioso
progetto totalitario della società né, di converso, l’altrettanto
ambizioso "sogno" di decodificazione e di liberazione assoluta. La
politica, intesa come tecnica di maneggio e di governo, uscita dalla
porta rientra dalla finestra, e i comunisti, nuovi e impropabili
catari, dovrebbero essere di per sé portatori di nuova società.
L’abbiamo detto e lo ripetiamo: il fine nostro e reale é l’abolizione
della società stessa, la distruzione della politica come arte del
management, per un’imposizione forte di un tempo e di uno spazio
"astorici" e "disorientati". Non c’é una rimembranza da esaltare, é la
memoria del futuro che va concretamente affermata giorno dopo giorno.
Altri compagni, reduci da pesanti e penose condizioni
organizzativistiche, in cui tutti i miti staliniani e
terzinternazionalisti venivano riprodotti, stanno cercando di adeguarsi
al passo delle cose, alla discronia tra il progettato e il vissuto,
alla sincronia, invece, tra le tensioni liberatorie. Onestamente
dobbiamo dare atto a questi compagni di un grosso sforzo per adeguarsi
ad un movimento effettivamente reale. I testi che escono da Palmi, ad
esempio, non possono che suscitare attenzione e curiosità intellettuale
in coloro che non sono del tutto pregni del pregiudizio imposto, dello
spettacolo della società che riafferma se stessa. Non di meno, possiamo
dire che non tutti i testi sono analoghi e che, nel contempo, non tutte
le proposizioni ci piacciono, curiosità ed interesse a parte. Laddove
ci sembra di cogliere un rimpannucciarsi delle ideologie sotto nuove
vesti, lì esprimiamo il dissenso; laddove invece troviamo spunti di
critica alla realtà concretamente vissuta, lì troviamo punti di
possibile interazione e di futura dialogicità. Prima di una sintetica
rassegna dei testi, vogliamo apporre una doverosa premessa. La maggior
dimostrazione della inutilità ed impraticabilità, rispetto ad un
percorso realmente rivoluzionario, della forma-partito viene proprio
dal tipo di autocritica compiuta dai suoi stessi militanti, purtroppo solo
in seguito alla sconfitta subita dalla loro forza organizzata. Sembra
che, di fronte all’attacco statuale che ha determinato l’arresto di
centinaia e migliaia di compagni, si sia prodotto un fenomeno bizzarro:
finalmente "liberi", proprio perché imprigionati, i militanti si
svelano nelle loro ricchezze e nelle loro miserie, nelle contraddizioni
fino ad ora assorbite ed azzerate dalla ragion politica e dalla matrice
organizzativa, dando vita ad un dibattito assai variegato e spesso
addirittura ricco. È questo paradosso che ci colpisce, e cioè che, per
rompere l’ideologia e lo schema della "avanguardia armata" più o meno
monolitica e compatta, si sia dovuta attendere là sconfitta o là
disfatta politico-militare!

Se è vero, come scrisse Marx,
che le forze controrivoluzionarie accelerano il rinsaldamento
dell’energia rivoluzionaria, è comunque ben singolare che molti abbiano
dovuto attendere l’imprigionamento per sprigionare quell’intelligenza
che precedentemente rinserravano nella solita routine. Purtroppo però è
ben vero, per dirla con Hegel, che le abitudini si conformano come
seconda natura dell’uomo; così talora le abitudini sembrano essersi
plasmate direttamente sul cervello dei soggetti onde impedirne
un’autentica liberazione.

Ci si riferisce qui soprattutto à
quei tentativi che, pur proponendo "polifonie" e "complessificazioni",
in realtà ci sembrano poco procedere sul terreno della critica
radicale. più che altro ci pare – e i fatti hanno là testa dura, come
dovette riconoscere pubblicamente lo stesso Lenin – che alcuni ai fatti
si siano adeguati senza tuttavia superarne il senso e il segno.
Esemplare in questa direzione è l’autointervista compiuta dal
collettivo che ha prodotto il testo "non é che l’inizio". Questo gioco
di domande e risposte secondo noi svela puntualmente il vero pensiero
degli estensori, al di là degli equilibrismi innovativi. Ci sembra,
insomma, che essi sviluppino un’autocritica solo perché i fatti là
impongono, onde impedire di esser travolti dà una reale critica
radicale. Infatti, cosa significa agitare là "rottura" operata al loro
interno e che ha dato vita al partito-guerriglia come il tentativo più
amplio di complessificazione di schemi guerriglieri? Ci sono alcuni
punti, impliciti ed espliciti, di simile ragionamento che ci trovano
assolutamente discordi. Non vogliamo entrare nel merito delle miserie
espresse dal sedicente P-g poiché sono sotto gli occhi di tutti. Ci
interessa invece scalzare dà subito un mito che pare scontato:
l’esistenza di una guerriglia italiana. Diciamo le cose come stanno: là
lotta armata è stata il prodotto contemporaneo sia di fredda volontà
politica che di passionale risposta alle condizioni del presente. La
prima è stata causa dei ritardi teorici-pratici dell’intero movimento
rivoluzionario; là seconda, invece, ha creato "stranamente" dei
soggetti migliori delle loro opinioni, delle donne e degli uomini
vitalmente insofferenti al sistema capitalistico di relazioni. In
effetti quasi tutti sono costretti à riconoscere che non si è andati
oltre là forma della "propaganda armata", senza che avvenisse un reale
salto o innovamento alla e della guerriglia sociale e metropolitana. Ma
nessuno sembra veramente chiedersi su cosa vertesse tale "propaganda".
Era là propaganda di tesi politiche precostituite, reduci dagli schemi
ideologici del movimento operaio passato, incapaci di entrare nel vivo
del magma sociale e delle tensioni controsocietarie che, al contrario,
si volevano ridurre dentro sistemi politici e dunque amministrativi.

 

PARTE 2 

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