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Lettera aperta agli studenti in lotta

NOI LA CRISI NON LA PAGHIAMO?

Lo slogan del movimento – “Noi la crisi non la
paghiamo!” – è diretto ed efficace. Certo, si potrebbe criticare il
concetto stesso di “crisi” – legato ad una visione liberale o marxista
della storia influenzata dall’ideologia del progresso –, però esso ha
almeno l’indubbio merito di collocare la questione della scuola e
dell’università in un contesto più ampio: i rapporti tra le classi
sociali.

Ciò che è davvero urgente e necessario, ora, è
rendere esplicito ciò che quello slogan dice implicitamente. Insomma:
noi chi? Noi studenti? Noi sfruttati? Noi “cittadini”?

I tagli all’istruzione fanno parte di un attacco
ben più generale alle condizioni di vita e di lavoro di milioni di
persone (dai salari alle pensioni alla sanità). Tanto per fare alcuni
esempi: mentre il governo taglia 7,8 miliardi di euro per scuole e
università, ne vuole stanziare 10 per i cacciabombardieri F- 35, 16 per
le Grandi Opere (TAV, ponte sullo Stretto, basi militari) e addirittura
30 per sostenere le banche. Non solo: predispone un pacchetto di aiuti
da 650 milioni di euro per le imprese e un altro di 600 milioni per la
cassa integrazione (vale a dire per permettere ai padroni licenziamenti
a costi ridotti). Tutto questo, ovviamente, con il granitico accordo
dell’opposizione.

Ora, se non si dice apertamente chi deve pagare
la “crisi”, i fondi per l’istruzione potrebbero benissimo essere
trovati pesando ancora di più sulle spalle degli sfruttati
(defiscalizzazione degli straordinari, lavoro ancora più precario,
ecc.). Non ci si può limitare a dire che tutti mandano i figli a scuola
e che quindi, indirettamente, l’intera società deve essere con gli
studenti. I figli dei ricchi a scuola ci andranno comunque. Va da sé
che una convergenza pratica con le classi povere non si realizza con la
semplice magia del discorso, ma è fondamentale affermare a chiare
lettere una comunanza di interessi con chi la “crisi” la paga da
sempre. Diciamolo apertamente, sia al governo che ai lavoratori: la
crisi la paghino i banchieri, gli industriali e i loro protettori
politici!

Ma perché questo discorso risulti credibile, è
necessario togliere ogni ambiguità corporativa nei rapporti con
presidi, rettori e baroni vari. Gli attori del dramma non sono le
scuole da una parte e il governo dall’altra. Lo scontro reale è tra chi
difende questa società e i suoi privilegi e chi la subisce e la vuole
trasformare.

VIVA LA SCUOLA PUBBLICA?

In perfetta continuità tra governi di
centro-sinistra e governi di centro-destra, almeno dalla legge
Berlinguer alla legge Gelmini, si registra un chiaro processo di
aziendalizzazione dell’università e di peggioramento della qualità
della scuola pubblica. L’esplicita sottomissione alla logica della
competizione e del mercato si è tradotta persino nel lessico (“debiti”
e “crediti”, tanto per fare un esempio). Senza contare il pesante
finanziamento alle scuole private.

Ma, detto questo, che senso ha la “difesa
dell’istruzione pubblica” senza una critica più generale della natura e
del ruolo del sapere in questa società?

La cosiddetta istruzione di massa avrebbe dovuto
essere uno strumento di autoeducazione e di emancipazione. È stato
così? Facciamo qualche esempio terra-terra. Da quando migliaia di
ragazzi leggono a scuola Se questo è un uomo di Primo Levi, possiamo
dire che la consapevolezza rispetto ai campi di concentramento e al
mondo che li ha prodotti sia aumentata? Come mai il razzismo
istituzionale e sociale si diffonde assieme alla vuota retorica
democratica (il dialogo, il rispetto delle opinioni altrui, ecc.)? Come
mai, adesso che l’uso della lingua italiana è arrivato anche nel
paesino più sperduto, si crede che possa esistere – nel mondo come
nella grammatica – una “guerra umanitaria”?

La ragione di tutto ciò non è misteriosa, se
solo si parte da qualche banalità di base. Può esistere uno Stato
(parlando di “istruzione pubblica” qualche domanda sullo Stato
bisognerà pur porsela) che favorisca, presso i propri cittadini, la
cultura critica e lo spirito di autonomia? Una persona con un pensiero
proprio e un’indole non conformista sarà disposta a rispettare di più o
di meno l’autorità costituita? La risposta è scontata. Bene, si è mai
visto uno Stato finanziare la formazione di individui non-sottomessi,
suoi potenziali nemici?

Il punto di partenza di qualsiasi riflessione
sul sapere è allora che gli strumenti di conoscenza critica e di
autoeducazione etica e sentimentale vanno strappati alla scuola
malgrado e non grazie alla sua funzione sociale, che è la riproduzione
dell’esistente. In Italia, le richieste di una scuola non classista, di
una “scuola per il popolo” (dalla “Lettera a una professoressa” in
avanti) si inseriscono, tra gli anni ’60 e ’70, in un contesto di lotte
più generali. Esauritesi quelle lotte, l’istruzione di massa è
diventata, di pari passo con la pacificazione sociale e il cretinismo
televisivo e consumistico, una fabbrica di idioti alfabetizzati. Nel
momento in cui il capitale ha avuto bisogno di un impoverimento
cultuale e di una riduzione del linguaggio ben adatti alla
dequalificazione, alla flessibilità e alla precarietà del lavoro, ha
trasformato l’“uguaglianza” (pensiamo alle battaglie per il 6 politico)
in appiattimento. L’aziendalizzazione degli ultimi anni si innesta,
insomma, su di un tronco ampiamente preparato (e marcescente).

In tutte le lotte studentesche degli anni
Ottanta e Novanta c’era un insieme di critiche più o meno ricorrenti
(contro la mercificazione del sapere, contro l’autoritarismo, contro il
nozionismo, contro la meritocrazia, ecc.). Attualmente non solo non si
criticano i contenuti e i rapporti su cui si fonda la scuola,
limitandosi a rifiutare tagli di personale e di fondi, ma si usano
addirittura in senso positivo concetti da sempre aborriti
(“meritocrazia”, ad esempio). Siamo bravi, fateci studiare, fateci
sviluppare l’azienda-Italia con le nostre ricerche…

Ben pochi sono sfiorati, a quanto pare,
dall’idea che la formazione e la trasmissione del sapere siano, in
questo mondo, parte integrante della produzione capitalistica e della
divisione sociale del lavoro. Eppure, nella gioia dei cortei spontanei
e nell’entusiasmo di una normalità scolastica e accademica sospesa, si
sente aleggiare ancora questa evidenza: la scuola, pubblica o privata
che sia, è un luogo insensato e noioso che ci prepara alla noia e
all’insensatezza della non-vita, alla gerarchia, al lavoro salariato,
alla merce. In una prospettiva di autogestione generalizzata, inoltre,
l’idea stessa di un luogo deputato all’apprendimento del sapere (ci si
siede sui banchi per alcuni anni, a orari fissi, passando da una
materia a un’altra secondo scadenze prefissate – e poi, socialmente, si
sa) verrebbe relegata tra gli orrori dell’industrialismo, distruttore
di ambienti e di anime.

Si può frequentare una scuola o una facoltà per
imparare (sempre peggio, d’altronde) latino, filosofia o matematica, ma
è decisivo non scordare mai che si è in terreno nemico.

MEGLIO RICERCATI CHE RICERCATORI

Con la difesa della “ricerca pubblica” si tocca, in tutti i sensi, il fondo del problema.

Nella storia del capitalismo è capitato spesso
che alcuni elementi, prima parti di un tutto, si siano poi resi
autonomi, soppiantando via via gli altri. Il pensiero calcolante e il
mercato – in sintesi: il motivo economico – esistevano da secoli, ma
solo con l’ascesa della borghesia sono diventati gli elementi decisivi
di un sistema sociale. Con la tecnoscienza è accaduto qualcosa di
analogo. Da elemento tra gli altri, lo sviluppo scientifico e
tecnologico si è trasformato – in modo netto a partire dagli anni ’40 –
in un apparato incontrollabile, fonte e prodotto insieme del dominio
statale e capitalista. Già negli anni ’60 qualcuno aveva definito
“Megamacchina” l’intreccio di burocrazia, complesso
industriale-militare, mass media e tecnoscienza.

Nell’anno di grazia 2008, cosa vorrà mai dire
allora difendere la “ricerca pubblica”? Quale? Se sarebbe sbalorditivo,
visto il dogma progressista imperante, che gli studenti rifiutassero in
blocco la pretesa neutralità della scienza, è viceversa davvero
sbalorditivo che si parli di “ricerca pubblica” senza il benché minimo
accenno critico.

Nelle università italiane – e trentine – si
finanziano ricerche direttamente collegate all’industria bellica, al
controllo sociale, alla sorveglianza tecnologica, ecc. Difendiamo anche
queste? Di fronte ai processi in atto di artificializzazione del
vivente (pensiamo alle bio- e alle nanotecnologie), trincerarsi dietro
la scienza pura e non applicata (buoni i ricercatori, cattive le
multinazionali) non assomiglia forse a una vera e propria superstizione?

“Ogni tempo perso per la scienza è tempo
guadagnato per la coscienza” scrivevano, qualche anno fa in Francia,
gli anonimi autori di un sabotaggio ad un laboratorio statale sulle
sementi transgeniche…

NO FUTURE

Questo slogan, un tempo urlato da un famoso
gruppo punk, è oggi un’evidenza per milioni di giovani (e non solo):
moltissimi studenti, con o senza laurea, finiranno per fare lavori
interinali (un mese pony express, il mese dopo magazziniere, quello
dopo ancora telefonista). Qualcuno, spera, finirà al Grande Fratello…

Al di là dei discorsi, dunque, la percezione che
il mondo del lavoro sia una giungla artificiale è viva come
un’emicrania o un tic nervoso. Al di là dei discorsi, “diritto allo
studio” sembra un passe-partout taroccato con cui aprire una portone la
cui insegna avverte: “Non c’è posto per tutti”. Al di là dei discorsi,
lottare assieme fa sentire meno soli.

Le dichiarazioni rispettabili rese davanti alle
telecamere assomigliano alle promesse che i bambini fanno a Natale. La
presenza dei media impone che il rappresentante di turno ripeta ai loro
operatori ciò che l’opinione pubblica da questi creata vuole sentire.
Di più: le azioni stesse si rivelano non di rado come diffusione e
consumo di immagini mediatiche. “Scusate il disagio, stiamo pedalando
verso il futuro”: questo slogan di una recente critical mass non
assomiglia forse ad un cartellone pubblicitario? “L’avvenire, nella sua
totalità, è menzogna”, scriveva Iosif Brodskj.

Nello sfacelo di tutti i programmi, alcuni
cominciano a condividere una pura esigenza: vorremmo evadere da questo
presente, ma non sappiamo dove cazzo andare…

SCHEGGIA

Un piccolo contributo è giunto dagli studenti
medi di Rovereto che il 4 novembre sono scesi in piazza contro la
“riforma” Gelmini, contro le spese di guerra e contro la
militarizzazione della società. Durante il corteo, organizzato assieme
all’assemblea antimilitarista contro la base di Mattarello, hanno
parlato anche due disertori dell’esercito americano. Nonostante la
pioggia battente, i circa 200 ragazzi presenti ne hanno ascoltato i
racconti: la povertà che li ha spinti ad arruolarsi, il trauma
dell’occupazione di Baghdad e infine il rifiuto di diventare macchine
assassine. Sentire due disertori parlare contro i carabinieri è stata
senz’altro una forma di “didattica alternativa”…

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