untori
Niente in Comune
MANCO A FARLO APPOSTA, stavo come spesso capita naufragando in rete e
mi aggrappavo qua e là ai link che più mi ispiravano, quando ad un
tratto mi è passato davanti il sito di Posse: «Ah! Ma esce ancora? Ora
fanno un sito? Buon per loro». Ciò esclamato, ho continuato la mia
deriva virtuale come se niente fosse (non sono propriamente fedele di
S. Antonio da Padova). Ma poi, ripensandoci, la curiosità mi ha spinto
a tornare indietro. Da quanto avevo intravisto, Posse dedicava ampio
spazio alle «ISTITUZIONI DEL COMUNE». E questo subito dopo la
cancellazione della sinistra parlamentare dal Parlamento! Mica potevo
perdermi l’occasione. Cosa avranno da dire gli eruditi teorici della
Moltitudine insorgente a proposito dell’improvvisa scomparsa dei loro
mezzani di palazzo preferiti?

Così, ho cominciato a tuffarmi in quei testi. Ammetto subito che la mia
non è stata una lettura approfondita; diciamo che ho dato una buona
occhiata. A tutto c’è un limite, anche alla curiosità. Il gergo
post-autonomo scroto-negriano riesce a nausearmi in fretta da tanto mi
ricorda il latino arcaico dell’antica Chiesa. C’è in esso la stessa
volontà sacerdotale di esprimersi in una lingua arcana per meglio
tenere in pugno la vile plebaglia. «L’uomo è pronto a credere a tutto,
purché glielo si dica con mistero», ammoniva un poeta. Deve essere per
questo che preti & politicanti, cioè coloro che aspirano al ruolo
di pastori delle umili greggi, amano tanto il linguaggio esoterico. A
volte però, soprattutto sulla spinta di eventi particolari, le formule
più bizzarre e incantatorie sono costrette a lasciar trapelare una
certa schiettezza.

Dunque, per la prima volta dal 1882 —
periodo fascista a parte — la sinistra non ha più un deputato in
Parlamento. Non un solo raggio di arcobaleno illuminerà l’austera sala,
niente di niente. Da chi pensa che Guy Fawkes, Auguste Vaillant e
Marinus Van der Lubbe siano stati i soli galantuomini che abbiano mai
messo piede in edifici del genere, la notizia in sé va quasi accolta
con un’ovazione.

126 anni di tradimenti, di compromessi, di
ipocrisie; 126 anni trascorsi a contrastare i malfattori, gli agenti
provocatori, gli untorelli che si annidano fra i sovversivi; 126 anni
di realpolitik che ha addomesticato la rabbia rivoluzionaria
trasformandola in civile protesta; tutto questo si è interrotto in un
fine settimana di aprile. Ma per chi era abituato a giocare di sponda
con gli “onorevoli compagni” in una prospettiva “di lotta e di
governo”, si tratta di un colpo terribile. A quelli di Posse, che già
avevano fiutato l’aria, non resta che fare buon viso a cattivo gioco.
Invece di strapparsi i capelli, si affrettano a rilanciare il proprio
progetto. Del resto, il loro smodato entusiasmo per il mondo in cui
viviamo («LA RIVOLUZIONE MONDIALE È IN CORSO», ma vi rendete conto di
che razza di culo abbiamo?) vieta loro ogni malumore. Se oggi il
movimento è costretto a fare una battuta d’arresto è solo per meglio
procedere trasversalmente in avanti.

Ma avanti dove? Questo è il
problema. In un momento in cui si consuma fino in fondo la tanto
denunciata crisi della rappresentanza, in un momento in cui non c’è
rimasto più nessuno che possa tradurre in diritto le proposte avanzate
dalle lotte sociali, quale tratto potrà e dovrà assumere il «RAPPORTO
COSTITUENTE FRA MOVIMENTI E GOVERNO»? Tutta la loro affannosa
riflessione ruota attorno a questo interrogativo (anche per evitare
preventivamente pericolosi deragliamenti). L’unica certezza rimasta
loro è che questo rapporto vada comunque instaurato, per il bene di
tutti. Il trionfo della destra più becera e retriva rischia infatti di
mettere fine a una dialettica che viceversa va coltivata, migliorata,
approfondita. Inutile piangere troppo la dipartita della sinistra
parlamentare, anche perché in fondo questa sinistra se l’è meritato.
Sentiamoli: «UN PO’ DI TEMPO FA INDICAVAMO COME ORAMAI DISPIEGATO IL
FENOMENO DI SCOLLAMENTO FRA RAPPRESENTANZA POLITICA E MOVIMENTI, FRA
AGIRE AMMINISTRATIVO E NUOVI BISOGNI PORTATI DALLA MODIFICAZIONE DELLA
COMPOSIZIONE SOCIALE. SI AVANZAVA ALLORA L’IDEA DI UN ROVESCIAMENTO
RELATIVO ALL’ASSE DI PROGRAMMA POLITICO TRA PARTITI E MOVIMENTI. NON
FUNZIONAVA IL DISPOSITIVO CHE VEDEVA NEI MOVIMENTI UNA SPIA DI
CONTRADDIZIONE SOCIALE, CHE ANDAVA SCIOLTA SUL PIANO NORMATIVO
ATTRAVERSO UN’OPERA DI TRADUZIONE E INSERIMENTO NEL QUADRO
PROGRAMMATICO CUSTODITO DAL PARTITO, O MEGLIO NON SOLO SI CONTESTAVA
L’IDEA CHE LE INSORGENZE SOCIALI DOVESSERO ESSERE SUBALTERNE ALL’AGENDA
RIFORMISTA, MA ANCHE IL FATTO CHE LO SPAZIO POLITICO DI QUEL RIFORMISMO
CARO ALLA SINISTRA RADICALE FOSSE CHIUSO. IL ROVESCIAMENTO CHE
INDICAVAMO SI BASAVA SU UNA CONCEZIONE DELLO SPAZIO POLITICO COME LUOGO
DOVE POTESSE ESERCITARSI UN PRIMATO DELLE LOTTE SOCIALI CHE I MOVIMENTI
PORTAVANO AVANTI SULL’AGENDA E IL QUADRO PROGRAMMATICO DELLA GOVERNANCE
RAPPRESENTATIVA DI SINISTRA, CHE AVREBBE DOVUTO RITAGLIARSI
FONDAMENTALMENTE FUNZIONI DI SERVIZIO».

Insomma, c’è aria di
tempesta in casa della “sinistra radicale”. Dopo la batosta elettorale
è giunto il momento della resa dei conti. Chi stava al governo non dava
credito a chi andava in piazza, il quale l’aveva avvisato dei rischi
cui sarebbe andato incontro se si fosse intestardito a snobbare le
aspirazioni che partivano dal basso, ed ora quest’ultimo si prende la
sua rivincita: «pezzo di cretino, non mi hai dato ascolto ed ora hai
visto cosa è successo? non sono io che ti devo fare da cameriere, sei
tu che lo devi fare a me!». Ecco qui tutta la sostanza del contendere:
chi spinge chi? È il partito che deve indicare i punti di attacco delle
lotte, o sono le lotte a determinare la linea del partito? È facile
prevedere che il dibattito in materia sarà lungo ed aspro, ma è
altrettanto facile scorgere quale sia la vera posta in palio. La
proficua sintonia fra istituzioni e movimento, il loro felice
matrimonio. L’ipotesi di sancirne il divorzio definitivo non viene mai
presa in considerazione da costoro, perché non è politicamente
produttiva. Per Posse la presenza di un referente istituzionale è
ovvia, scontata, indispensabile.
Il perché è presto detto. Per loro
il governo ha la forza normativa, ma non ha creatività: è potere
costituito, con tanti muscoli ma niente cervello. Il movimento invece è
sprovvisto di autorità, ma è ricco di intelligenza: è potere
costituente, gracile ma pieno di talento e d’imprevedibile genio. Ogni
progresso, ogni evoluzione, ogni passo avanti della storia deriva
dall’incontro fra questi due handicappati, che si mettono l’uno al
servizio dell’altro. Un rapporto conflittuale, il loro, ma pur sempre
fecondo. A differenza di chi vede nello Stato una forza oppressiva e
parassitaria, perciò un nemico da distruggere, i Negri boys lo vedono
come una forza necessaria ma imperfetta, quindi un interlocutore da
influenzare. Con un nemico non si discute e non si tratta, lo si
combatte. Con un interlocutore, viceversa, per quanto possano essere
diverse le vedute e gli interessi, per forza di cose si dialoga, si
contratta, e quando si alza la voce è solo per attirare l’attenzione
dell’altro e invitarlo ad un tavolo comune. Per i nemici dello Stato le
lotte devono ostacolare e fermare la folle corsa istituzionale, per i
suoi interlocutori esse devono orientarla e stimolarla. Quando, sulla
spinta delle agitazioni sociali, chi detiene il potere è costretto a
riprendere e a far proprie alcune tematiche di chi lo critica, i suoi
nemici insorgeranno contro il recupero delle loro idee (fatto negativo
che neutralizza le lotte, indebolendo il movimento), mentre i suoi
interlocutori esulteranno per il successo delle loro idee (fatto
positivo che premia le lotte, rafforzando il movimento). Per questi
ultimi ogni lotta, ogni rivolta, è solo uno strumento con cui fare
pressione sul governo, una rottura che precede l’integrazione da un
punto di forza più vantaggioso.
Ma, ora che non c’è rimasto nessun
punto d’appoggio all’interno del potere centrale, cioè nel Parlamento,
chi ascolterà le rivendicazioni espresse dal movimento? Che fare?
Innanzitutto evitare di farsi prendere dalle «NARRAZIONI TRISTI» che
producono angoscia, sfiducia e scoraggiamento. Ecco quindi Posse
blandire i militanti di sinistra delusi («DONNE E UOMINI PER BENE», «IN
BUONA FEDE», «DONNE E UOMINI DI BUONA VOLONTÀ») ed invitarli a
rimettersi in marcia perché, nonostante le apparenze, la partita non è
finita: «E PER LORO, PER QUELLA SOGGETTIVITÀ CHE RESIDUA TUTT’ALTRO CHE
IRRILEVANTE, LA QUESTIONE SE VI SIA UNO SPAZIO POLITICO, ANCHE
ELETTORALMENTE SIGNIFICATIVO, DENTRO LE TRASFORMAZIONI CHE STANNO
LAVORANDO IL SISTEMA ISTITUZIONALE DELLA RAPPRESENTANZA, È TUTT’ALTRO
CHE RISOLTA… I TREMENDI RISCHI MA ANCHE LE NUOVE OCCASIONI DI LOTTA,
CHE TALE SCENARIO PRESENTA, DISEGNANO PURE… LO SPAZIO DI UNA RICERCA
AUTENTICA, IN GRADO DI AZZARDARE SPERIMENTAZIONI CHE, ANCHE SUL TERRENO
ISTITUZIONALE, CERCHINO DI METTERSI IN EFFETTIVA COMUNICAZIONE CON
QUANTO SI DETERMINA SUL TERRENO DEL CONFLITTO, DEI MOVIMENTI SOCIALI E
DELLA LORO AUTONOMA CAPACITÀ DI COSTRUZIONE DELLE “ISTITUZIONI DEL
COMUNE”».

Ma se il percorso da seguire è chiaro — quello di un
conflitto sociale in grado di «FARE VIVERE UN’ISTANZA DI NUOVO
PROGRAMMA» — lo è assai meno la sua destinazione finale. «L’ISTITUZIONE
DEL COMUNE» è un’immagine rustica, familiare, che cerca di conciliare
la partecipazione dei molti con il potere dei pochi, di colmare la
distanza che si è venuta a creare fra conflitto e politica. Ma è vaga.
Anche se il marketing politico di Posse le attribuisce «UNA LINEA
GENEALOGICA CHE VA DALLE FRATELLANZE OPERAIE ALLE SOCIETÀ DI MUTUO
SOCCORSO, DALLA COMUNE AL SOVIET, DAI CONSIGLI OPERAI ALLE ASSEMBLEE E
I COMITATI DELL’AUTONOMIA OPERAIA», resta il fatto che per ora si
tratta solo di una parola d’ordine mobilitante, e nulla più. Un po’
poco per chi era abituato a contribuire a consulenze e progetti-legge,
ricevendo protezioni e finanziamenti. Si tratta di una limitazione che
non viene taciuta: «NON CI NASCONDIAMO, TUTTAVIA, LE DIFFICOLTÀ DI
INTERVENTO POLITICO CHE QUESTA SITUAZIONE COMPORTA: DIFFICOLTÀ CHE
ATTENGONO SIA ALLA “STABILIZZAZIONE” DELLE LOTTE, AL LORO PRODURRE
FORME DI CONTROPOTERE CHE GARANTISCANO LA RIAPPROPRIAZIONE DI “QUOTE DI
VALORE” (DECISIONALE, SIMBOLICO, MATERIALE), SIA ALL’INDIVIDUAZIONE DI
FUNZIONI DI MEDIAZIONE E “TRADUZIONE”».

Per dare un po’ di
entusiasmo ad un popolo della sinistra piuttosto depresso, Posse porta
alcuni esempi concreti dei buoni esiti registrati da un incontro fra
movimento ed istituzioni. In attesa che dalla nebbia emergano i futuri
interlocutori del «POTERE COSTITUITO», è bene sgombrare il già
accidentato campo da eventuali perplessità sul conto dell’effettivo
«POTERE COSTITUENTE» del movimento. C’è forse qualcuno che tentenni ad
«ASSUMERE IL POTERE COSTITUENTE NON SOLO COME FATTO ORIGINARIO, MA COME
FORZA CONTINUA CHE SI INSEDIA NEI PROCESSI COSTITUZIONALI, COME FONTE
DI UN’APERTURA INDEFINITA E CAPACITÀ DI LIBERARE IL DIRITTO, LA
COSTITUZIONE SOCIALE, DAI LIMITI DELL’EGOISMO PROPRIETARIO E
DELL’INVADENZA TOTALITARIA DEL CAPITALISMO?». C’è qualcuno che osi
domandarsi: «È POSSIBILE INSERIRE IL POTERE COSTITUENTE COME FONTE —
CONTINUA, INSTANCABILE, ASSOLUTA — DI DIRITTO NELLA COSTITUZIONE, NEL
POTERE COSTITUITO?». Per sciogliere simili fastidiosi dubbi è
sufficiente volgere lo sguardo all’America Latina, dove «IL POTERE
COSTITUENTE È INFATTI ASSUNTO COME UNA FORZA GIURIDICA CHE VIVE E
PRODUCE CONTINUAMENTE EFFETTI ALL’INTERNO DEL POTERE COSTITUITO,
NELL’INTIMO DELLA COSTITUZIONE. IL POTERE COSTITUENTE È MOVIMENTO
ISTITUZIONALE E ISTITUZIONALIZZANTE. PONE LA CONTINUITÀ DELLA
TRASFORMAZIONE STRUTTURALE ALL’INTERNO DELLA CONTINUITÀ ISTITUZIONALE.
IL POTERE COSTITUENTE PUÒ DUNQUE ESSERE VERIFICATO COME FONTE INTERNA
DELL’ORDINAMENTO GIURIDICO. (…) VALE A DIRE CHE IL RAPPORTO TRA
MOVIMENTI E GOVERNO POTRÀ FINALMENTE ESSERE RICONOSCIUTO COME UN
PROCESSO IMMANENTE, COME UNA CAPACITÀ CONTINUA DI PRODUZIONE».

Se
qualcuno pensasse che l’America Latina è troppo lontana per essere
presa come modello, allora è bene che dia un’occhiata a quanto è
accaduto in Val Susa. È vero che il suo contesto bucolico smentisce
apertamente i precetti altrove enunciati su quale debba essere lo
scenario del conflitto sociale («LA METROPOLI È INCONTRO E ANTAGONISMO,
PRODURRE ED ESSERE PRODOTTI, ED ATTUALMENTE ROVESCIARE IL PRODURRE
CONTRO L’ESSERE PRODOTTI — IN UNO SPAZIO DETERMINATO CHE RAPPRESENTA
PER LA MOLTITUDINE QUEL CHE LA FABBRICA ERA PER LA CLASSE OPERAIA. È
EVIDENTE CHE SU QUESTO TERRENO BISOGNERÀ A LUNGO INSISTERE ED
APPROFONDIRE LA RICERCA. L’ORGANIZZAZIONE METROPOLITANA È ANCORA
LONTANA DAL POTERSI AFFERMARE, EPPURE È SU DI ESSA CHE SI SPAZIALIZZA E
SI DETERMINA IN MANIERA CONCRETA IL TEMPO DELLA MOLTITUDINE»), ma si
tratta di quisquilie. La lotta valsusina è meritevole di essere elevata
ad esempio da seguire per un preciso motivo, prettamente politico: «È
NOTO COME LA COMPRESENZA COESA DELLA DIMENSIONE ISTITUZIONALE E DI
QUELLA MOVIMENTISTA SIA STATA UNA DELLE RAGIONI PRINCIPALI
DELL’EFFICACIA DELL’OPPOSIZIONE VALSUSINA: NEI MOMENTI PIÙ CALDI DEL
CONFLITTO, I SINDACI ERANO IN PRIMA FILA A FRONTEGGIARE POLIZIA E
CARABINIERI. QUESTA INTENSA CONDIVISIONE DI OBIETTIVI E STRATEGIE HA
CONTRIBUITO ALLA CREAZIONE DI UN CIRCOLO VIRTUOSO TRA AGIRE
AMMINISTRATIVO E PARTECIPAZIONE DAL BASSO CHE HA SEGNATO IL PUNTO PIÙ
ALTO DELL’ESPERIENZA DI RIAPPROPRIAZIONE DEL POTERE DECISIONALE CHE HA
AVUTO LUOGO IN VALLE DI SUSA: CONSIGLI COMUNALI, CONFERENZE DEI SINDACI
E ASSEMBLEE POPOLARI NON RAPPRESENTAVANO CHE ASPETTI DISTINTI DI UN
MEDESIMO PROCESSO DECISIONALE COMPLESSO E TUTTAVIA CAPACE DI
PRESCINDERE QUASI INTERAMENTE DAL MECCANISMO DELLA DELEGA».

Finché
c’è Stato, c’è speranza. Se dopo il 13 aprile non si può più fare
affidamento su deputati e senatori, rimangono pur sempre sindaci,
consiglieri e assessori in mezzo ai quali procurarsi utili alleati. Fra
gli amministratori locali, qualcuno con cui ritrovarsi in piazza o con
cui discutere di autonomia (che è un po’ come discutere di pace con un
sergente dell’esercito) lo si rimedia. Basta non perdere mai la bussola
e imparare a memoria il ritornello che Posse non si stanca di ripetere.
Il movimento deve essere extra-istituzionale, ma non deve MAI diventare
anti-istituzionale. Bisogna quindi essere cauti, realisti, e sapere
cosa scegliere: «PRATICA DISUTOPICA PIUTTOSTO CHE ESALTAZIONE
UTOPISTA». Non bisogna dare ascolto ai cattivi maestri capaci di
sostenere che istituzionalizzare non è altro che trovare una
sistemazione su questa terra, cioè venire a patti con l’attuale
situazione. Non bisogna ostinarsi a respingere ogni istituzione, anche
quella del «COMUNE», solo perché il suo compito è quello di
regolamentare, controllare, governare. Con impareggiabile stile, ci
viene spiegato senza ritegno che la genealogia del comune è un lungo
processo che «SI REALIZZA DUNQUE IN UNA POTENZA NORMATIVA DEL TUTTO
COERENTE CON I MOVIMENTI SOCIALI. NON SI TRATTA DUNQUE DI
UN’ISTITUZIONE QUALSIASI, SI TRATTA BENSÌ DI UN’ISTITUZIONE AUTONOMA —
ESSA RIESCE A CREARE L’ORGANIZZAZIONE DEI MOVIMENTI, COSÌ COME RIESCE
AD ESERCITARE UNA CONTINUA PROPOSTA ED INDIRIZZO NORMATIVI. COME
ABBIAMO VISTO PER IL PASSAGGIO DAL PUBBLICO AL COMUNE, L’ISTITUZIONE
CHE PRODUCE NORME, CHE COMANDA, DEVE ESSERE NON SOLO LEGITTIMATA
DALL’APERTURA CONTINUA DEL POTERE COSTITUENTE, MA CONTINUAMENTE
RINNOVATA DALLA PARTECIPAZIONE EFFETTIVA ED EFFICACE DEI SOGGETTI». Di
fronte a questa esaltante ed esaltata apologia di una potenza normativa
che comanda coerentemente i movimenti sociali che la producono, la
legittimano, la compongono e la rinnovano, vale la pena ricordare che
nell’elencare le «FORME DI VITA» valorizzate dal comune viene inclusa
anche «LA PACE SOCIALE»?

Come si può vedere, l’immaginario
statale impregna e domina ogni riflessione di Posse, ne costituisce
l’orizzonte obbligato. Ma cosa potrebbe mai accadere se il movimento,
dopo averne infine constatato l’assoluta inettitudine, snobbasse ogni
sbocco istituzionale? Che tutte le lotte sociali tenderebbero ad
assumere i tratti di rivolte senza mediazioni, irriducibili,
incontrollabili, proprio come avveniva in passato prima
dell’istituzione della rappresentanza. Un abominio da scongiurare, un
vero incubo non solo per i più intelligenti funzionari di Stato (che
non a caso fingono di prestare ancora ascolto ai portavoce della
“sinistra radicale”), ma anche per chi approva la rivolta solo se
questa è «UNA VIA D’ACCESSO AL POLITICO». Nel testo sui disordini e
sulle lotte sociali scoppiate in Francia negli ultimi anni, l’autore —
dopo aver annotato le iniziative degli squat e dei sans-papier in
quanto gli «ANIMATORI NAZIONALI DI QUESTE LOTTE SONO DIVENTATI DEGLI
INTERLOCUTORI DELLO STATO» — arriva dritto dritto al punto cruciale:
«VI È UN’ALTERNATIVA POLITICA ALLA RIVOLTA? QUESTO È IL PROBLEMA
ADESSO. QUESTA ALTERNATIVA NON SI TROVA SICURAMENTE SULLA SCENA DELLA
RAPPRESENTANZA TRADIZIONALE (…) SI PONGONO DUE PROBLEMI. IL PRIMO È
QUELLO DELL’AGGREGAZIONE DELLE LOTTE, DELLA MESSA IN COMUNE DEI COMUNI
DISPERSI. IL SECONDO È QUELLO DELLA “STRATEGIA” CIOÈ DEL RAPPORTO CON
LO STATO (…). QUESTE LOTTE NON POSSONO O NON VOGLIONO ESSERE
L’OGGETTO DI UNA “RAPPRESENTAZIONE POLITICA” ALL’INTERNO DELLO STATO.
LO SPAZIO DELLA LOTTA PER UN ALTRO MODO DI VITA COMUNE E QUELLO DEL
POTERE SONO OGGI SEPARATI. IL PENSIERO STRATEGICO DI TIPO LENINISTA HA
PERSO LA SUA PERTINENZA. BISOGNA DUNQUE DISTACCARSI DALLA QUESTIONE
CLASSICA DELLE ELEZIONI? È DIFFICILE DA PENSARE. MA ALLORA COME
AGGANCIARLE? UNA DELLE PISTE ALL’OPERA SE SI ABBANDONA LA FIGURA DELLA
RAPPRESENTAZIONE ELETTORALE È QUELLA DELLA SCELTA DEI FUTURI
INTERLOCUTORI DEI MOVIMENTI (…). PER QUESTO, L’ALTERNATIVA ALLA
RIVOLTA VA SENZA DUBBIO RICERCATA NELLA TENSIONE COSTANTE DELLA
TRATTATIVA CON LO STATO (NAZIONALE, LOCALE O EUROPEO). DA QUESTO PUNTO
DI VISTA LA QUESTIONE ELETTORALE SI PROSPETTA COSÌ: DOVE SI SITUANO
COLORO CHE GESTISCONO QUESTI TERRITORI E GLI INTERLOCUTORI DEL
MOVIMENTO NELLA SCELTA STRATEGICA CHE GLI SI PONE OGGI? (…) ADESSO
BISOGNA COSTRUIRE LA METROPOLI QUALE ATTORE COLLETTIVO E COOPERANTE CON
CAPACITÀ PERMANENTE DI TRATTARE CON I LUOGHI DELLA DECISIONE POLITICA E
FINANZIARIA NEL QUADRO DI UNA GOVERNANCE CONFLITTUALE». Parole una
volta tanto chiare e illuminanti: ora che i tradizionali padrini
parlamentari sono scomparsi o comunque delegittimati, bisogna trovare
nuovi interlocutori statali con cui trattare al fine di trovare
un’alternativa politica alla rivolta.

È una caratteristica di
tutti gli intellettuali dediti alla critica politica, a cui i redattori
di Posse non sfuggono, di essere affetti dalla «sindrome di Siracusa».
Come Platone, anch’essi pensano che «i mali, dunque, non avrebbero mai
lasciato l’umanità finché una generazione di filosofi veri e sinceri
non fosse assurta alle somme cariche dello stato». Essendo preclusa la
via della conquista diretta del potere politico, rimane loro soltanto
la possibilità di sedurne i detentori con la grazia del proprio
«GENERAL INTELLECT». È da qui, da questa allucinazione cerebrale, che
viene la passione per Machiavelli, insuperabile modello per tutti gli
aspiranti consiglieri dei principi (soprattutto per chi è cresciuto
all’ombra di Lenin, con la sua coscienza da apportare dall’esterno, e
di Gramsci, con la sua egemonia culturale che precede quella politica).
Se poi non ci sono più in circolazione personaggi della statura di
Dionigi o di Lorenzo il Magnifico, pazienza: vorrà dire che i redattori
di Posse si accontenteranno dell’esotico Hugo Chavez o della casereccia
Livia Turco. Fortunatamente anche loro, come tutti i loro predecessori,
sono destinati o a rimanere inascoltati o a porsi al seguito del potere
che si erano illusi di guidare.

Quanto alla cosiddetta
«moltitudine», non si compiacerà mai abbastanza della perdita di una
rappresentanza. I suoi disordini, non servendo più solo per attirare
l’attenzione del sovrano da pedagogizzare ed indurlo ad accogliere a
corte qualche sobillatore che gli porterà in dote le proprie
competenze, potranno tornare ad essere quello che sono sempre stati: le
esplosioni di rabbia di una volontà di vivere troppo a lungo repressa. 

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