untori
Per regolare i conti
Inviolabilità
Se si pensa che nella tradizione cristiana già il primo uomo apparso
sulla terra disobbedisce al precetto divino ed incorre per questo nella
punizione, e che a commettere il primo omicidio è un suo diretto
discendente, è evidente come l’origine della giustizia si perda nella
notte dei tempi, nascendo in risposta al problema posto da chi disturba
l’ordinamento sociale ed economico. Motivo per cui dichiararsi contro la giustizia
risuona all’orecchio dei più come uno scherzo di cattivo gusto, una
provocazione, una follia, specialmente in un’epoca giustizialista come
quella che stiamo attraversando. Un luogo comune di secolare solidità
vuole infatti che non si possa avversare la giustizia, perché ciò
significherebbe essere a favore dell’ingiustizia, del sopruso, della
tirannia. E questa convinzione è penetrata talmente a fondo nell’animo
umano, che tutti coloro che nel corso della storia hanno criticato la
giustizia, si sono sempre premurati di specificare di essere contrari
solo ad un suo particolare operato, a una sua cattiva gestione, a una
sua applicazione considerata errata. Ma la giustizia in sé, la
giustizia in quanto tale, è sempre stata considerata un concetto
inviolabile.

Dati per scontati sia il disordine della condotta umana che la
necessità di porvi un freno attraverso la giustizia, il solo dubbio
capace di macchiare la nobiltà di questa misura riguarda al più la
rettitudine di chi è incaricato ad amministrarla. La dea munita di
spada e bilancia per manifestarsi ha bisogno di sacerdoti, i quali a
volte possono non dimostrarsi all’altezza del compito affidatogli.
Tutte le discussioni sulla giustizia si esauriscono qui, con la
richiesta di un giudice umano capace di rompere con le tradizioni di
una magistratura mummificata e fossilizzata negli articoli di un codice
feroce. Per esprimersi "realmente", la giustizia non ha bisogno di un
giudice funzionario, nemico naturale di chi ha violato il codice e che
distribuisce sentenze in maniera automatica, ma di un giudice che
faccia sentire il soffio dell’eguaglianza e della fratellanza nelle
assoluzioni come nelle condanne. Perché – ci viene detto – è la legge
che deve essere fatta per l’uomo, e non l’uomo per la legge. Chissà!
Soggezione
"Giustizia (s.f.): un articolo
che lo Stato vende, in condizioni più o meno adulterate, al cittadino,
a ricompensa della sua fedeltà, delle tasse e dei servizi resi."
(Ambrose Bierce)
In effetti esiste più di un buon motivo per cui le critiche alla
giustizia hanno avuto come oggetto principale la sua pretesa
neutralità. Se è vero che Giustizia è sinonimo di Virtù – di una virtù
oserei dire trascendentale che, se magari non è più espressione della
volontà divina, rimane comunque lontana dalle meschinità umane –
dall’altro lato non si può nascondere che essa si manifesta
concretamente grazie a leggi fatte dall’uomo. E l’uomo, si sa, non è
perfetto.
Qualcuno ci ha tramandato che l’origine della parola legge derivi dalla
forma indeuropea légere, cioè leggere. La Legge che tutti noi dobbiamo
osservare è stata scritta, poco importa se sulle tavole di Mosé o in un
codice. La questione cruciale appare subito chiara: chi ha scritto la
legge? Evidentemente chi ha avuto il potere di farlo. E perché lo ha
fatto? Altrettanto chiaramente, per difendere i propri privilegi.
Motivo per cui la legge, in quanto tale, è necessariamente arbitraria poiché obbedisce agli interessi di chi può imporla, vale a dire di chi detiene l’autorità. Dietro la retorica che la vuole un nobile ideale perseguito dall’essere umano, la giustizia non è altro che un modo di avallare un determinato sistema di valori.
Non a caso le interdizioni che sono state imposte nel corso della
storia sono così diverse tra loro, che non si potrebbe trovare una sola
pratica universalmente considerata come "criminale", neanche l’incesto
o il parricidio. Se la Giustizia fosse davvero uno strumento superiore,
i cui principi normativi toccano l’essenza dell’essere umano, le sue
leggi sarebbero eterne ed universali e l’uomo troverebbe la propria
realizzazione attraverso il loro adempimento. Invece queste leggi
cambiano continuamente – a seconda dell’ordinamento sociale, politico
ed economico che devono regolamentare – e questo può significare una
cosa sola: attraverso le leggi si manifesta un volere umano, non certo
divino.
Ma riconoscere il carattere arbitrario della giustizia non comporta di
per sé una sua messa in discussione. Per quanto di parte, la giustizia
appare comunque indispensabile. Nel mito che Platone fa esporre a
Protagora nel dialogo omonimo, si dice che finché gli uomini non
impararono l’arte della politica, che consiste nel rispetto reciproco e
nella Giustizia, non poterono riunirsi in città e furono attaccati
dalle fiere. Il rispetto della giustizia permetterebbe quindi agli
esseri umani di convivere. Ancora oggi, è opinione diffusa che il venir meno delle regole su cui si fonda la nostra civiltà scatenerebbe gli istinti più feroci.
Senza un’autorità, rappresentata dallo Stato, che ne moderi gli
appetiti, i singoli individui non sono in grado di vivere assieme.
Lasciati a se stessi, gli individui sostituirebbero la forza della
legge con la legge della forza (la polizia come unico baluardo contro
il dilagare di omicidi, stupri e stragi di innocenti).La giustizia
nasce quindi dalla constatazione che nell’individuo non c’è legge, non
c’è ordine. Lo Stato nasce a posteriori così come le regole, le leggi,
le convenzioni morali, e poggia sul ribollente magma dell’anomia
morale. L’individuo si sottomette allo Stato soltanto perché ritiene di
aver bisogno di salvaguardare e stabilizzare i suoi rapporti.
Costruisce un ordine esterno per placare il disordine che cova dentro
di sé, ma una tale organizzazione non avrà mai nulla a che fare con la
sfera interiore, con l’animo umano e le sue più segrete (e paurose)
pulsioni. L’individuo, essere mostruoso, deve lasciar il posto al
cittadino, al soggetto dello Stato, il solo in grado di vivere senza
causare danni poiché scrupoloso osservatore dei precetti della
giustizia. La legge è quindi ciò che ci lega, nel suo duplice
significato: ciò che ci unisce, il nodo del vincolo sociale, è anche
ciò che impedisce i nostri liberi movimenti.
Una simile concezione la dice lunga sul conto del mondo che la
adotta, i cui abitanti necessitano di proibizioni esterne in mancanza
di una propria consapevolezza interiore, si sentono uniti da una comune
competitività e non dalla solidarietà, si percepiscono come se ognuno
fosse il secondino dell’altro e pensano che la libertà rappresenti una
catastrofe per la loro esistenza, anziché considerarla come ciò che
potrebbe darle un senso.
Purtroppo, tutto ciò non è straordinario.
Siamo talmente addomesticati da un’educazione che fin dall’infanzia
cerca di sedare in noi lo spirito di indipendenza e di promuovere
quello di soggezione, siamo talmente abituati a una vita controllata da
uno Stato che ne legifera ogni aspetto – nascita, sviluppo, amori,
amicizie, alimentazione, morte – che alla fine perdiamo ogni iniziativa, ogni autonomia, ogni capacità di affrontare e risolvere direttamente i problemi che la vita ci pone.
Ecco perché, all’interno di ogni Stato, una nuova legge è considerata
come il rimedio per tutti i mali. Invece di cercare di risolvere il
problema comprendendone le cause, si comincia col chiedere una legge
che vi metta riparo. La strada fra due città è impraticabile? Occorre
una legge che regoli il traffico. Un esecutore della legge ha abusato
del suo potere? Occorre una legge che ordini ai gendarmi di essere più
rispettosi. Gli industriali intendono ridurre i salari? Occorre una
legge che difenda gli interessi dei lavoratori. Insomma, per affrontare
i conflitti che sorgono dall’attività dell’uomo servirebbe soltanto una
legge appropriata. Attraverso l’applicazione della giustizia, lo Stato
pretende di moderare e gestire questi conflitti. Si può quindi
constatare che la giustizia non elimina i conflitti, e non li previene affatto. Niente e nessuno può farlo. La giustizia si limita a normalizzarli, a codificarli. Così facendo, li aggrava e ne provoca degli altri fino ad arrivare all’assurdità del rimedio "criminogeno", rimedio peggiore del male.
Da parte loro, i nemici dello Stato hanno pensato di risolvere il
problema in altro modo, attribuendo ogni contrasto umano al
funzionamento dello Stato stesso. Una volta che la "criminalità" viene
definita come la reazione a un’organizzazione difettosa della società,
appare più concreta la possibilità di sopprimerne le cause trasformando
i rapporti umani. L’abolizione del crimine e della carcerazione è stata
infatti una delle preoccupazioni primarie del comunismo utopico,
che sostituì alla rassegnazione gaudente dei cristiani di fronte al
peccato, una ricerca razionale dei rimedi all’esistenza del male. I
suoi grandi principi erano semplici: il furto e l’omicidio non hanno
più ragione d’essere nel momento in cui la proprietà privata e la
famiglia lasciano il posto all’esistenza comunitaria. Se la felicità è
garantita per tutti, gelosia e risentimento svaniscono portandosi con
sé gli atti di violenza generati da questi sentimenti. Una simile
armonia sembra essere però ben lontana dalla realtà delle passioni
umane e non può essere immaginata senza un poderoso riduzionismo. I
vari tentativi effettuati in passato di sperimentare praticamente
l’utopia hanno sempre generato conflitti, che non ne volevano sapere di
scomparire d’un tratto, rivelando l’astrazione della felicità proposta.
Contro lo Stato e la sua giustizia, l’armonia sociale non saprebbe realizzarsi che a prezzo di costumi austeri e frugali. "Ho
letto gli scritti di qualche celebre socialista – faceva notare Victor
Hugo nel maggio 1848 – e sono rimasto sorpreso nel vedere che abbiamo,
nel diciannovesimo secolo qui in Francia, tanti fondatori di conventi"
. In effetti, l’arcadia socialista non prometteva la felicità che a placidi cenobiti. I suoi fautori arrivarono spesso alla perfezione totalitaria
poiché – per estirpare l’energia pericolosa presente nell’essere umano
ed evitargli ogni occasione di scontro con altri – teorizzarono una
minuziosa organizzazione di ogni istante di vita.
Astrazione
Dunque lo Stato pretende che l’essere umano sia naturalmente cattivo,
per legittimare la propria esistenza. Nelle sue mani, la giustizia è
un’arma contro la minaccia della barbarie. I nemici dello Stato,
invece, pretendono che l’essere umano sia essenzialmente buono, per
sostenere l’inutilità dello Stato. Nelle loro mani, la giustizia è una
siringa da usare per scopi terapeutici. E
se invece l’essere umano non fosse né buono né cattivo, ma
semplicemente in preda ai suoi tormenti, cosa resterebbe della
giustizia? Se la vita non avesse una meta universale, non dovesse
scoprire alcuna verità, se la natura umana non avesse alcuna essenza,
se non esistesse nulla di giusto da contrapporre a ciò che è sbagliato,
giacché esiste solo ciò che è mio e ciò che non lo è, non è forse vero
che ogni norma che regoli il comportamento umano diventerebbe un
insopportabile sopruso?
Di fatto, se la giustizia ricorre alla polizia per imporsi, è proprio
perché il carattere della giustizia è poliziesco. La tutela delle
condizioni essenziali della convivenza civile – di cui la giustizia si
fa garante – si traduce praticamente nel controllo della pace sociale
all’interno dello Stato (o della Comunità); l’obbligo per ciascuno di
uniformare il proprio comportamento a quanto dettato dalla legge, pena
la privazione della libertà, non garantisce affatto l’equità della
giustizia ma ne indica soltanto la ferocia. Una norma valida per tutti non è affatto equa, essendo astratta e, quel che è peggio, essa trasforma anche noi in astrazioni.
La giustizia che punisce l’omicidio con la reclusione a vita o con la
morte non sa chi sia la vittima, chi l’assassino e quali le ragioni del
suo gesto, né conosce fino in fondo tutte le conseguenze. Con la farsa
delle circostanze "aggravanti" e di quelle "attenuanti", la giustizia
tenta di immettere un tocco di vita nelle sue sentenze, senza per altro
riuscirvi, in quanto è consapevole della propria freddezza. Ma la
condotta umana non può essere codificata, ha molteplici cause ed è
frutto dell’incontro casuale di circostanze e di caratteri diversi.
Una norma non può racchiudere questa totalità, non la può cogliere nella sua unicità,
è costretta a fare astrazione dalla realtà concreta dei singoli se
vuole imporsi a tutti. Ma i conflitti che sorgono fra esseri umani non
sono astratti, sono reali. Sono il risultato di rapporti sociali
concreti, della diversità degli interessi, dei sogni, del carattere
degli individui. Nella sua astrazione, la giustizia isola
l’individuo separandolo dal rapporto e dall’ambiente sociale in cui il
suo atto ha avuto luogo, negandone così il significato.
Ancor di più, la giustizia separa l’individuo-accusato dal dibattito
che lo riguarda delegando la sua autonomia, come avviene nel resto
della vita sociale, ai suoi rappresentanti: gli avvocati. Così come i
cittadini delegano allo Stato il compito di decidere come vivere la
loro vita, così delegano alla giustizia il compito di come risolvere i
loro conflitti. In quanto meccanismo separato di risoluzione dei conflitti,
la giustizia non viene meno se si conferiscono le sue funzioni ad
un’altra entità, posta al di sopra degli individui, ma più fluida,
rinnovabile, sottoposta ad elezioni o controllata da assemblee
popolari. Una giustizia "più umana" non cesserebbe di essere una
macchina per separare il Bene dal Male, di esprimersi indipendentemente
dai rapporti sociali e quindi inevitabilmente contro di essi.
Vendetta
Il sogno di ogni totalitarismo è quello di bandire la violenza (fatta
eccezione per quella dello Stato, naturalmente). Se tutti obbedissero
ai dettami della Giustizia, non ci sarebbero conflitti, non ci sarebbe
violenza. Ma un mondo senza trasgressione, senza conflitti, senza
disordine, è un enorme campo di concentramento. Un
mondo pacificato è un mondo che ha rinunciato ai rumori della sua
maggiore ricchezza, la diversità, a favore della quiete
dell’omologazione.
Per quanto deprecabile, la violenza è una
caratteristica umana. Il punto non è di assegnare allo Stato il
monopolio della violenza, né di trasformare ogni individuo in un
perfetto non violento. Non si tratta di cancellare i conflitti
dalla nostra vita, ma di affrontarli nella loro singolarità. E la loro
risoluzione va ricercata da coloro che ne sono direttamente coinvolti
,
senza delegarla a istituzioni esterne (lo Stato), senza delimitarla in
spazi circoscritti (tribunali), senza accontentarsi di risposte
automatiche scritte da altri (codice penale).
Ora la Giustizia, risposta pubblica al "problema" dei conflitti,
definisce con un termine spregiativo la risposta individuale a questo
stesso problema: “vendetta”.
Tanto la giustizia è nobile, tanto la vendetta è abietta. Ad essa si
accompagna l’eccesso, il sopruso, l’approssimazione. Come se la
giustizia non fosse in sé eccesso, sopruso, approssimazione.
Paradossalmente, per definire questa esecrata determinazione
dell’individuo di non delegare a nessuno la risoluzione dei propri
contrasti con altri, si è scelto un vocabolo dalla ben strana origine.
La vindicta, infatti, era la verga con cui si toccava lo schiavo che
doveva essere posto in libertà. Spada della giustizia e verga della
vendetta sono entrambe in mano a chi detiene il potere, è vero, ma se
la prima è promessa di punizione e castigo la seconda reca con sé il
sapore della libertà. In realtà, nulla dimostra che la vendetta sia la
strada obbligata per chi rifiuta la giustizia. Solo all’interno di una
logica economica di compensazione, tanto cara al capitalismo, ad una
offesa deve corrispondere un’altra offesa di pari entità. La giustizia
regola i conti e questi, alla fine, devono sempre tornare. E’ questo un
lascito dell’eredità delle rivoluzioni liberali borghesi che, dovendo
assicurare a ciascun cittadino un trattamento identico di fronte alla
legge, dovevano garantire al meccanismo delle decisioni amministrative
un funzionamento identico per ognuno.
Ma un conflitto non ha soluzioni a senso unico, perché contempla
infinite possibilità (anche l’indifferenza o la lontananza). In ogni
modo, solo chi lo vive sulla propria carne può conoscere la risposta,
che non può essere codificata. Motivo per cui con l’autonomia
dell’individuo la giustizia scompare, e con essa anche l’ingiustizia.
Non si deve credere infatti che negare la giustizia significhi
affermare l’ingiustizia. Non più di quanto negare l’esistenza di Dio
implichi l’adorazione di Satana. In fondo, non aveva tutti i torti
Hobbes, pensatore non sospetto di simpatie sovversive, quando affermava
che la Giustizia consiste semplicemente nel mantenimento dei patti e
che pertanto dove non c’è Stato – cioè un potere coercitivo che
assicuri il mantenimento dei patti – non c’è né giustizia né
ingiustizia.

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