untori
Anton Pannekoek: Critica del partito rivoluzionario
[Anton Pannekoek (1873-1960) é stato uno dei
più lucidi teorici della sinistra comunista tedesco-olandese, meglio nota come
comunismo
dei consigli. Il testo che qui presentiamo apparve per la prima volta sulla
rivista
Rätekorrespondenz nel 1936.]
 
Noi
ci troviamo attualmente solo agli inizi di un nuovo movimento operaio. Il
vecchio movimento si incarna nei partiti, e la credenza nel partito costituisce
oggi il freno più potente per la capacità d’azione della classe operaia. Per
questo noi oggi non cerchiamo di crearne uno nuovo; e non perché siamo troppo
pochi – qualunque partito è piccolo all’origine – ma perché oggigiorno un partito non può essere altro che
un’organizzazione che mira a dirigere e a dominare il proletariato.
A
questo tipo di organizzazione, noi contrapponiamo il seguente principio: la classe operaia potrà affermarsi e
vincere soltanto a condizione di prendere essa stessa in mano il proprio
destino.
Gli operai non devono adottare religiosamente le parole d’ordine
di un gruppo qualsiasi – e neppure del nostro – ma devono pensare da soli,
decidere e agire loro stessi. Ed ecco perché, in questo periodo di transizione,
noi pensiamo che essi possono trovare degli organi di chiarificazione naturali appunto nei gruppi di lavoro,
nei circoli di studio e di discussione, che si sono formati spontaneamente e
che cercano da soli la propria strada.

Questo
modo di vedere si trova in flagrante contraddizione con le idee tradizionali riguardanti
il ruolo del partito come organo di chiarificazione essenziale del
proletariato. Ne consegue che esso incontra una resistenza ed anche una ferma
opposizione in numerosi ambienti, che pure non vogliono più avere nulla a che
fare né con il partito socialista né con il partito comunista. Da un lato,
certo, ciò è dovuto alla forza della tradizione: quando si è sempre vista la
lotta di classe come una lotta di partito e come una lotta fra partiti, è assai
difficile riuscire a vedere il mondo esclusivamente sotto l’angolo visuale
della classe e della lotta di classe. Ma, in parte, ci troviamo anche di fronte
all’idea chiara secondo cui, nonostante tutto, al partito deve spettare un
ruolo di primo piano nella lotta del proletariato per la propria emancipazione.
Vediamo ora di esaminare più da vicino questa idea.
Essa
trae origine dalla seguente distinzione: mentre un partito è un raggruppamento
sulla base di certe idee, una classe è un raggruppamento sulla base di
interessi comuni. L’appartenenza a una classe è determinata dalla funzione
svolta nel processo di produzione, funzione che ha come conseguenza degli
interessi definiti. Appartenere a un partito significa invece legarsi ad un
insieme di persone che hanno dei punti di vista identici per quanto riguarda le
grandi questioni sociali.
Fino
a poco tempo fa si credeva, per delle ragioni teoriche e pratiche, che queste
differenze fondamentalmente scomparissero all’interno del partito della classe,
il "partito operaio". Durante il periodo di grande sviluppo della
socialdemocrazia si diffuse l’impressione che questo partito avrebbe inglobato
a poco a poco tutti i lavoratori, in parte come militanti, in parte come
simpatizzanti. E dal momento che la teoria enunciava che interessi identici
devono necessariamente generare idee e scopi identici, si andava sempre più
cancellando – così si credeva – la distinzione tra partito e classe. Ma nulla
di tutto ciò avvenne. La socialdemocrazia restò una minoranza, e per di più
comincio ad essere oggetto di attacchi da parte di nuovi gruppi di operai:
conobbe parecchie scissioni, mentre il suo carattere originario subiva delle
metamorfosi e certi articoli del suo programma venivano revisionati oppure
interpretati in un senso completamente diverso rispetto a prima.
La
società non si sviluppa in modo continuo, senza sbalzi e contraccolpi, ma
passando attraverso lotte e antagonismi. Nello stesso momento in cui cresce
l’ampiezza della lotta operaia, cresce la forza del nemico; l’incertezza e il
dubbio sulla via giusta da scegliere rinascono in continuazione nello spirito
dei combattenti. E il dubbio è fattore di scissioni, di dispute intestine e di
scontri di tendenze in seno al movimento operaio.
E’inutile
deplorare queste divisioni e queste lotte di frazione come una cosa dannosa,
che non dovrebbe esistere e che riduce i lavoratori all’impotenza. L’abbiamo
detto più volte in questa rivista: la
classe operaia non è debole perché divisa, ma è al contrario divisa perché
debole.
E
la ragione per cui il proletariato deve mettersi alla ricerca di nuove vie
dipende proprio dal fatto che l’avversario dispone di una forza e di un potere
tali che gli antichi metodi rimangono inefficaci. E la classe operaia non troverà la via giusta per magia, bensì a prezzo
di duri sforzi, di un lavoro di riflessione, attraverso lo scontro di opinioni
divergenti e conflitti accaniti di idee.
Spetta alla classe operaia trovare
essa stessa la propria strada: ecco appunto la ragione d’essere delle
divergenze e delle lotte interne. Essa è costretta a rinunciare alle idee
superate, alle vecchie chimere, e la difficoltà di questo compito è quella che
sta all’origine di divisioni tanto grandi.
E neppure va coltivata l’illusione
secondo cui queste lotte accanite di partito e questi scontri di opinioni
sarebbero cose naturali soltanto nei periodi di transizione
, com’è l’attuale, e che essi scompariranno in
seguito, quando l’unità diverrà più grande che mai. Può accadere certamente,
nell’evoluzione della lotta di classe, che talvolta tutte le forze si uniscano
per strappare una grande vittoria, e che l’unità così realizzata abbia per
effetto la rivoluzione. Ma anche in questo caso, come dopo ogni vittoria,
vengono immediatamente alla luce delle divergenze a proposito dei nuovi
obiettivi che devono essere fissati. Infatti il proletariato si ritrova allora,
immancabilmente, alle prese con i compiti più ardui: finire di schiacciare il
nemico, organizzare la produzione, creare un ordine nuovo.
E’
impossibile che tutti i lavoratori, tutte le categorie e tutti i gruppi, i cui
interessi sono ancora spesso ben lungi dall’essere omogenei, abbiano gli stessi
pensieri e sentimenti e raggiungano immediatamente e spontaneamente l’unanimità
per quanto riguarda le azioni future. Proprio perché è loro dovere scoprire da
soli la propria strada, sorgono le più vive divergenze ed essi si scontrano
l’un con l’altro, ed infine giungono a chiarirsi le idee.
Se
delle persone animate dalle stesse concezioni si riuniscono per dibattere delle
prospettive d’azione, giungere ad una chiarificazione attraverso la
discussione, fare della propaganda per le loro idee, è naturalmente possibile –
volendo – dare a questi gruppi il nome di partiti.
Il
nome ha poca importanza, una volta che è chiaro che questi partiti
attribuiscono a se stessi un ruolo del tutto diverso da quello cui aspirano i
partiti attuali. L’azione pratica, la
lotta concreta sono cose che spettano alle masse stesse, nella loro totalità:
la loro azione deve fare perno sui loro raggruppamenti naturali, in particolare
modo sulle squadre di lavoro
, che costituiscono le unità di combattimento
effettive. Sarebbe aberrante vedere i militanti di una tendenza scendere in
sciopero e quelli di un altra continuare a lavorare. In questo caso, i
militanti delle due tendenze hanno il dovere di esporre i loro rispettivi punti
di vista davanti alle assemblee di fabbrica, per permettere al collettivo
operaio di pronunciarsi con coscienza di causa. Data l’immensità della lotta e
l’enorme potenza del nemico, per strappare la vittoria è necessaria una
convergenza di tutte le forze di cui dispongono le masse: non soltanto la forza
materiale e morale, l’unità e l’entusiasmo che sono necessari in funzione
dell’azione, ma anche quell’energia spirituale che può nascere solo dalla
lucidità. L’importanza di questi partiti
o gruppi di opinione consiste nel fatto che essi contribuiscono a far nascere
questa chiarezza attraverso le loro lotte reciproche, le loro discussioni, la
loro propaganda.
Ed è per mezzo di questi organi di autochiarificazione che
la classe operaia giunge per conto suo a discernere la via della libertà.
Ecco
perché dei partiti così concepiti (allo stesso modo delle loro concezioni) non sanno che farsene di strutture rigide e
immutabili.
Di fronte ad ogni cambiamento di situazione, di fronte ad ogni
nuovo compito, gli animi si separano per raggrupparsi in modo diverso: altri
"partiti" sorgono con dei programmi diversi. Dal momento che la loro
caratteristica è quella di essere fluttuanti, sono così sempre in gradi di
adattarsi alle nuove situazioni.
I partiti operai attuali hanno un
carattere assolutamente opposto. Del resto, il loro scopo è un altro: prendere
il potere ed esercitarlo a loro esclusivo vantaggio.
Ben lontani dal cercare di contribuire
all’emancipazione della classe operaia, la loro intenzione è quella di
governare da soli, presentando tutto ciò sotto le mentite spoglie della
liberazione del proletariato. La socialdemocrazia, il cui grande sviluppo
risale all’epoca del parlamento, concepisce questo potere sotto l’aspetto di un
governo che si basa su una maggioranza
parlamentare
. Il Partito comunista, dal canto suo, spinge la volontà di
dominio fino alle sue estreme conseguenze, cioè fino alla dittatura del partito.
Contrariamente
ai "partiti" sopra descritti, questi ultimi devono essere delle formazioni
politiche caratterizzate da strutture
rigide, da una coesione che viene assicurata mediante statuti, misure
disciplinari, procedure di ammissione e di espulsione.
Nella
loro qualità di apparati di potere, essi lottano per il potere, e per mantenere
i militanti sulla retta via, si servono di quei punti di forza di cui essi
dispongono in modo sovrano, pur sforzandosi di accrescere costantemente la
propria espansione, la propria influenza. Non
si danno certo il compito di educare i lavoratori a pensare con la propria
testa
, ma al contrario, si ritengono investiti del dovere di ammaestrarli,
di trasformarli in fedeli e devoti seguaci delle loro dottrine. Laddove la
classe operaia ha bisogno, per accrescere le proprie forze e per vincere, di
una libertà di sviluppo spirituale illimitata, la potenza del partito ha come
base la repressione di tutte le opinioni
non conformi alla linea
.
All’interno
dei partiti "democratici" questo risultato viene ottenuto con dei
metodi che salvano le apparenze della libertà, nei partiti dittatoriali con una
repressione brutale e dichiarata.
Numerosi
lavoratori già si accorgono che la
dominazione del partito socialista o del partito comunista non significherebbe
altro che l’egemonia, sotto forma camuffata, di una classe borghese, che in tal
modo perpetuerebbe lo sfruttamento e la schiavitù.
Ma, secondo loro,
bisognerebbe costruire al loro posto un "partito rivoluzionario" il
cui obiettivo fosse realmente quello di instaurare il potere proletario e la
società comunista. Ma non si tratta affatto di un partito nel senso più stretto
sopra definito, di un gruppo di opinione il cui solo e unico scopo sarebbe
quello di illuminare, di chiarire le idee, bensì di un partito nel senso
attuale della parola, di un partito che lotta per impadronirsi del potere ed
esercitarlo esso stesso con l’intenzione di usarlo a favore della liberazione
della classe operaia; di un partito che fa ciò nella sua qualità di
avanguardia, di organizzazione della minoranza rivoluzionaria cosciente.
L’espressione
stessa di "partito rivoluzionario" contiene una contraddizione in termini. Un partito di questo genere non potrebbe
mai essere rivoluzionario. Oppure lo è soltanto nello stesso senso in cui si dà
il nome di rivoluzione ad un cambiamento di governo avvenuto in seguito a
pressioni un po’ violente, com’è accaduto, per esempio, con la nascita del
terzo Reich.
Quando
noi parliamo di rivoluzione, pensiamo evidentemente alla rivoluzione
proletaria, alla conquista dei potere da parte della classe operaia.
Il
"partito rivoluzionario"
ha come fondamento teorico l’idea secondo cui la classe operaia non potrebbe
fare a meno di un gruppo di capi capaci di vincere la borghesia a nome suo ed
in sua vece, e capaci quindi di formare un nuovo governo, cioè, in altre
parole, la convinzione secondo cui la
classe operaia è incapace di compiere da sola la rivoluzione.
Sempre
secondo questa teoria, i capi creano la società comunista a suon di decreti, e
cioè, in altri termini, la classe operaia è ancora una volta incapace di gestire e di organizzare essa
stessa il proprio lavoro e la propria produzione.
Forse
che questa tesi non ha una certa validità, almeno per il momento? Dato che
attualmente la classe operaia, in quanto massa, si rivela incapace di fare la
rivoluzione, non è forse necessario che l’avanguardia rivoluzionaria, il
partito, la faccia al posto suo?. E ciò non sarà forse valido fintantoché le
masse subiranno il capitalismo senza recalcitrare?.
Un
simile modo di vedere sollecita immediatamente altre domande: che tipo di potere
potrà instaurare un simile partito grazie alla rivoluzione? Come farà per
sconfiggere la classe capitalista? La risposta è scontata: ciò potrà essere
fatto solo per mezzo della sollevazione delle masse; infatti soltanto degli attacchi in massa, soltanto
delle lotte e degli scioperi di massa permettono di rovesciare il vecchio
dominio. Così il "partito rivoluzionario" non arriverà mai a far
nulla senza l’intervento delle masse.
Quindi,
delle due l’una. O le masse persistono
nell’azione
. Ed allora, lungi dall’abbandonare il campo per lasciare il
governo in mano al nuovo partito, organizzano il proprio potere nelle fabbriche
e nelle officine e si preparano a nuove lotte con l’obiettivo, questa volta, di
abbattere definitivamente il potere del Capitale. Formano per mezzo dei consigli operai una comunità dotata di una
coesione sempre più grande, e perciò capace di assumersi la gestione della
società nel suo insieme.
(In
poche parole, le masse dimostrano che alla fin fine non erano poi così incapaci
di far la rivoluzione come si pretendeva. Da questo momento, sorge
ineluttabilmente un conflitto fra le masse ed il nuovo partito che è desideroso
di esser l’unico detentore del potere e che è convinto, in virtù della teoria
secondo cui il partito deve costituire la direzione della classe operaia, che l’autoattività
delle masse non è altro che un fattore di disordine e di anarchia. Può accadere
allora che il movimento di classe abbia acquistato una tale forza da potersi
permettere di passare al di sopra del partito. Ma può anche darsi che il
partito, alleatosi a degli elementi borghesi, schiacci i lavoratori. In tutti i
casi, però, il partito si è rivelato essere un ostacolo per la rivoluzione. E
questo perché esso vuol essere qualcosa di più di un organo di propaganda e di
chiarificazione. Perché si attribuisce come missione sua specifica quella di
dirigere e di governare).
Oppure – questo è il secondo caso – le masse operaie si conformano alla dottrina del partito e
abbandonano ad esso la direzione del corso delle cose
; seguono le consegne
venute dall’alto, e persuase (si pensi alla Germania del 1918) che il nuovo
governo realizzerà il socialismo o il comunismo, riprendono la via del lavoro.
Immediatamente la borghesia, le cui radici di classe non sono state ancora estirpate,
mobilita tutte le sue forze: la potenza finanziaria, il suo enorme potere
spirituale, la sua egemonia economica nelle fabbriche e nelle grandi imprese.
Il partito al potere, troppo debole per tener testa a questa offensiva, per
mantenersi al potere non può fare altro che dar prova di moderazione,
moltiplicare le concessioni e le marce indietro. Si comincia allora a
dichiarare che per il momento è impossibile fare di meglio, che sarebbe una
follia da parte degli operai volere imporre con la costrizione delle
rivendicazioni utopistiche.
Ed
in tal modo il partito, privato di quell’appoggio potente delle masse che
caratterizza una classe rivoluzionaria, si trasforma in strumento di conservazione del potere borghese.
Dicevamo
poco fa che, per quanto riguarda la rivoluzione proletaria, l’espressione
"partito rivoluzionario" rappresenta una contraddizione in termini.
La stessa cosa può esser detta in un altro modo: nella espressione "partito rivoluzionario" il termine
rivoluzionario designa per forza di cose una rivoluzione borghese.
Infatti
ogni volta che le masse sono intervenute per rovesciare un governo ed hanno in
seguito affidato il potere a un nuovo partito, ci siamo trovati di fronte ad
una rivoluzione borghese, alla sostituzione di una classe dominante con una
nuova classe dominante. Così accadde a Parigi nel 1830, quando la borghesia del
denaro successe ai grandi proprietari fondiari; nel 1848 quando la borghesia
industriale prese il posto della borghesia finanziaria; e nel 1870, allorché si
installò al potere la borghesia nel suo insieme, sia la grande che la piccola.
Così
accadde durante la rivoluzione russa,
quando la burocrazia di partito si accaparro il potere in qualità di categoria
incaricata dei compiti di governo. Ma ai nostri giorni, sia in Europa
occidentale che in America, il potere della borghesia si è installato troppo
saldamente nelle fabbriche e nelle banche perché una burocrazia di partito
possa scalzarla. L’unico mezzo per vincere consiste, ancora una volta, nel fare
appello alle masse affinché si impadroniscano delle fabbriche e costruiscano la
loro organizzazione dei consigli. Ma
in questo caso appare evidente che la forza reale risiede nelle masse che
annientano il dominio del Capitale, man mano che la loro azione diventa sempre
più estesa e profonda.
Coloro,
quindi, che pensano a un "partito rivoluzionario" traggono soltanto
per metà l’insegnamento del passato. Pur non ignorando che i partiti operai, i
PS ed i PC sono diventati degli organi di dominio che servono a perpetuare lo
sfruttamento, sono capaci soltanto di trarne la conclusione per cui
"l’unica cosa da fare è fare meglio". Ciò significa chiudere gli
occhi sul fatto che il fallimento dei diversi partiti è dovuto a una causa
assai più generale, e cioè alla fondamentale contraddizione che esiste fra l’emancipazione della classe nel suo
insieme e per mezzo delle sue stesse forze, ed il fatto che un nuovo potere
"filo operaio" riduce al nulla l’attività della masse.
Dinanzi
alla passività, all’indifferenza delle masse, scambiano se stessi per una
avanguardia rivoluzionaria. Ma se le masse rimangano inattive, ciò è dovuto al
fatto che esse ancora non arrivano a vedere la strada giusta della lotta,
dell’unità di classe, anche se sentono istintivamente sia la potenza colossale
del nemico che le dimensioni gigantesche dei compiti da portare avanti.
 
Ma quando le circostanze le
avranno spinte di nuovo all’azione, dovranno pur assolvere a quei compiti: organizzassi
in modo autonomo, prendere in mano i mezzi di produzione, scatenare l’attacco
contro il potere del Capitale. E una volta di più, apparirà evidente che ogni sedicente avanguardia che cercasse, in
conformità con il proprio programma, di dirigere e di spadroneggiare sulle
masse per mezzo di un "partito rivoluzionario", si rivelerebbe un
fattore reazionario.

 

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