untori
Reich, modo d’uso
Presentazione di Sergio Ghirardi
Il testo qui
presentato ha il merito di stabilire un esplicito collegamento tra la filosofia di Reich e la
sensibilità situazionista che, oltre ogni fastidioso prosituazionismo, vecchio o nuovo, è più che
mai nel cuore della coscienza sociale contemporanea.

Alcune affermazioni e atteggiamenti sono chiaramente datati,
prigionieri di una retorica rivoluzionaria senza interesse, ma la nozione di carattere ha un’importanza di
primo piano per la definizione della forma contemporanea di un modo di
produzione assunto progressivamente a seconda natura umana
, nello
spettacolo sociale. Il concetto di feticismo
scientifico
è particolarmente
interessante. Oltre parecchie felici intuizioni, il testo invita a qualche
critica ed a dei distinguo più approfonditi di quelli a cui sto per accennare,
ma è tutta la questione del carattere – particolarmente nella sua forma sociale
– che aspetta ormai da troppo tempo un approfondimento.

Nelle brevi note di J.P.Voyer, qui riproposte, si afferma comunque, per
la prima volta esplicitamente, lo sviluppo caratteriale del dominio
capitalistico sull’uomo. Questa estensione, fin nelle strutture individuali
della specie, dei criteri dell’economia, dà al concetto di alienazione una
struttura biologica
che, in effetti, travalica la contrapposizione di
classe che storicamente ha accompagnato tutta la civiltà dell’economia, fino ai
nostri giorni. Laddove Marx affermava di dover abbandonare lo studio della
natura per concentrarsi sulla storia, oggi ci troviamo di fronte all’esigenza
opposta, ma non contraddittoria, di ritrovare la natura al centro di un
processo storico che la sta negando, in nome di quel profitto che ha già da
tempo negato l’uomo.
La riconciliazione tra uomo e natura
diventa il presupposto di ogni ipotesi di rivoluzione,
perché lo sfruttamento del tempo di lavoro e il conflitto sociale che ne deriva
travalicano ormai quella contrapposizione di classe in cui storicamente,
finora, la questione sociale si è espressa.
La forma moderna del dominio del capitale sull’uomo, con il suo corteo
putrescente di inquinamento generalizzato, dagli oceani ai cervelli, dai cuori
ai cibi che dovrebbero nutrirne i desideri, sposta nel cuore della natura e
della natura umana la presa di coscienza necessaria e possibile delle reali
condizioni dell’esistente. E’ quanto ha reso la politica specializzata
un’attività intrinsecamente spettacolare e la critica sociale della vita quotidiana l’espressione radicale di
un’esigenza urgente di totalità.
Si fa luce concretamente l’ipotesi che il conflitto sociale sia ormai
ancor più profondo di quella lotta tra
le classi
, in cui storicamente si è espresso, ed a cui ancora Voyer si
riferisce, reiterando che «la lotta di classe esiste».
Ciò che sicuramente esiste, nonostante si cerchi con tutti i mezzi di
renderlo invisibile, è il proletariato.
Ma si pone la questione del suo progetto, della sua abolizione e del nemico da
combattere. Sappiamo da tempo che, se dietro il citoyen si nascondeva il
borghese, nessun dio, nessuna avanguardia rivoluzionaria e nessun partito – se
non il partito preso della vita – potrà salvarci da ciò che si nasconde anche
dietro il compagno.
I situazionisti, nel loro tempo,
hanno cominciato a praticare la critica radicale che si ispira a questa
coscienza, e Reich, prima di loro e al di là di alcuni suoi errori, ha
contribuito a mettere in luce gli
elementi costitutivi di un passaggio cruciale dei rapporti sociali, ad un
livello interiorizzato di alienazione. I suoi errori sono del resto solo in
parte quelli che gli imputa il testo che segue. Il termine genitalità, per esempio, non è affatto automaticamente sostitutivo di individualità, nella
lettura della concezione di Reich. Esso indica nella funzione genitale il
compimento – certo ancora meccanicistico, perché la natura, prima dell’intervento
della coscienza e del libero arbitrio, veicola effettivamente un meccanicismo
primitivo di cui l’umano è un possibile superamento – della funzione animale sulla quale l’umano
applica l’alchimia del suo desiderare
. Cioè, del superamento cosciente
della pulsionalità meccanicistica. Solo una coscienza accerchiata dalla morale
sessuale coercitiva e dalla volontà di potenza può confondere pulsione e
desiderio, togliendo all’umano la sua caratteristica essenziale: quella di
essere il soggetto della coscienza e del libero arbitrio che essa introduce
nella natura.
Da condividere
con Voyer c’è, piuttosto, la critica della concezione del lavoro in Reich.
Mancando curiosamente di una sensibilità fourierista che sembrerebbe
consona all’insieme della sua sensibilità, egli fa in effetti un’evidente confusione tra attività creativa e lavoro.
E’ effettivamente una confusione di stampo marxista-leninista.
Resta comunque, in conclusione, l’essenziale: la messa in luce del nodo
caratteriale, oltre le questioni specialistiche della terapia individuale, come
il centro del funzionamento dei rapporti sociali nella società dello spettacolo .
Se il superamento del meccanicismo è effettivamente un’esigenza
rivoluzionaria, tuttavia è spesso proprio il misticismo rivoluzionario, che
pretende di combatterlo in nome di un materialismo idealizzato, che ne garantisce la continuità e la riproduzione.

* * *

Reich, modo d’uso

di Jean Pierre Voyer (dell’Istituto di Preistoria Contemporanea)(1)

«La cosa contiene nella sua seconda parte, in
forma straordinariamente densa, ma relativamente popolare, non poche novità che
anticipano il mio libro, mentre essa deve al contempo
necessariamente sorvolare su molte altre. Credi che sia bene anticipare in
questo modo soggetti di tal fatta?»
Marx ad Engels, 24 giugno 1865.


1.   La nozione di carattere secondo Reich.

«Per trovare l’amore a Parigi, bisogna scendere
fino alle classi la cui mancanza di educazione e di vanità unita alla lotta con
i veri bisogni hanno lasciato maggiori energie. Lasciar trasparire un forte
desiderio insoddisfatto vuol dire mostrarsi inferiore, cosa impossibile in
Francia, se non per la gente di più bassa condizione … Ne derivano le lodi
esagerate nei confronti delle ragazze da parte di quei giovani che temono il
proprio cuore.»
Stendhal, Dell’amore

Sotto la spinta della lotta pratica e teorica contro le
resistenze nell’analisi, Reich giunse con una totale consequenzialità a
concepire il carattere (carattere nevrotico) come la forza stessa di queste
resistenze(2). Contrariamente al sintomo che dobbiamo considerare come un
prodotto ed una concentrazione del carattere e che viene risentito come un
corpo estraneo che provoca una sensazione di malattia, il tratto di carattere è una componente organica della personalità.
L’assenza di coscienza della malattia è un segno fondamentale della nevrosi
caratteriale. E questo spiega perché questa degradazione dell’individualità
poteva apparire soltanto all’interno di un tentativo di comunicazione – la
stessa tecnica analitica – che, per quanto unilaterale, doveva rivelare ben
presto il carattere per ciò che esso è: una
difesa contro la comunicazione, una perdita della facoltà di incontro
. Tale
è il prezzo pagato alla funzione primaria del carattere: la difesa contro l’angoscia(3). Non c’è
bisogno di soffermarsi sull’origine dell’angoscia, sulle sue cause ed il loro
fissarsi. Diciamo semplicemente che la forma particolare del carattere è una
piega che si prende prima del decimo anno di età, cosa che non sorprenderà
nessuno.
La discrezione di questa disposizione spiega il
fatto che essa resti ignorata in quanto flagello sociale, così come viene
ignorata la sua durevole efficacia. Questa disposizione produce degli individui degradati, spossessati al
massimo grado di intelligenza, di sociabilità e di sessualità, e
conseguentemente davvero indipendenti gli uni dagli altri, condizione ideale
per il funzionamento ottimale del sistema automatico della circolazione delle
merci
. L’energia che l’individuo può impiegare a riconoscere e ad essere
riconosciuto è legata nel
carattere, cioè impiegata a
neutralizzare sé stessa
.
In tutte le società in cui regnano
le condizioni moderne di produzione, l’impossibilità di vivere prende
individualmente la forma della morte, della follia o del carattere. Dalla parte
dell’intrepido dottor Reich e contro i suoi recuperatori e detrattori
orripilati, noi postuliamo la natura patologica di ogni tratto
caratteriale, cioè di ogni cronicità nel
comportamento umano
. Ciò che ci interessa non è la struttura individuale
del nostro carattere, né la spiegazione della sua formazione, ma l’impossibilità
della sua applicazione
alla costruzione di situazioni.
Il carattere non è dunque una
semplice escrescenza maligna che si potrebbe trattare separatamente, ma
nello stesso tempo un rimedio individuale in una società globalmente ammalata, rimedio che permette di sopportare il
male aggravandolo
. La gente è in gran misura complice dello spettacolo
dominante. Il carattere è la forma di
questa complicità .
Noi sosteniamo che la gente non può dissolvere il proprio carattere, se
non contestando la società intera
(contrariamente a Reich, quando considera
l’analisi caratteriale da un punto di vista specializzato), mentre, visto che
la funzione del carattere è quella di adattarsi allo stato di cose vigenti, la
sua dissoluzione è un preliminare alla critica globale della società. Bisogna
interrompere questo circolo vizioso.
La contestazione globale inizia
con la critica in atti del lavoro
salariato
(4) secondo un principio fondamentale fuori discussione: «non
lavorate mai». Le qualità di avventura assolutamente necessarie per una tale
impresa sono esclusive del carattere. Il carattere è la rovina di queste
qualità. Il problema della contestazione della società intera è dunque anche il
problema della dissoluzione del carattere.

2. La sua
applicazione all’effetto di spettacolo
.

«I concetti più importanti e più veri dell’epoca
sono misurati con precisione dall’organizzazione su di loro della più grande
confusione e dei peggiori controsensi […]. I concetti vitali conoscono
contemporaneamente gli impieghi più veri e più menzogneri […] perché la lotta
della realtà critica e dello spettacolo apologetico conduce ad una lotta sulle
parole […]. Non è la purga autoritaria che rivela la verità di un concetto ma
la coerenza del suo uso nella teoria e nella vita pratica.»
I.S.
n. 10.

Pubblico:  relativo a tutto un popolo.
Pubblicità: Notorietà pubblica,
carattere di ciò che è fatto in presenza del pubblico, stato di ciò che
appartiene al pubblico.
Dal
Larousse del XX secolo

La pubblicità della miseria non si distingue dall’idea
della sua soppressione(5). E’ così che lo spirito viene agli uomini. La
miseria è sempre la miseria della pubblicità. Bisogna ricercare dunque le
ragioni della persistenza della miseria in ciò che causa la miseria della
pubblicità.
Il feticismo è
la miseria della pubblicità. E’ la forma stessa della separazione sociale. Dovunque c’è opposizione degli individui e
della loro totalità, questa opposizione prende la forma del feticismo della
totalità
. L’opposizione del tutto e
degli individui si fa
per mezzo di parti del tutto, che
sembrano isolate
o legate da relazioni sconnesse dal tutto e tra di loro(6).
La coscienza ingannata è il momento fondamentale del feticismo. Con essa le
cose diventano ciò che appaiono. L’assenza della coscienza prende la forma
della coscienza.
Il feticismo della merce è concentrato nel suo valore. Marx avrà avuto bisogno di qualche migliaio di pagine del Capitale
per chiarire fino in fondo la realtà di questo feticcio. E’ il giogo del valore
che china le fronti umane, siano esse borghesi, burocratiche o proletarie. Il
valore è il rapporto fra due quantità. Che cosa c’è di più irreale del fatto
che qui e ora x chilogrammi di carote valgano y
litri di vino, oppure z minuti di garzone di barbiere? Il valore
è qui ed ora l’autonomia esorbitante della merce. E’ rischioso rubare,
saccheggiare o incendiare. Lo è ancora di più non lavorare mai! Il valore si
esercita implacabilmente(7), mentre lo sguardo ingannato non incontra che le
cose e il loro prezzo!
Nel XIX secolo, con l’opposizione compiuta della vita
dell’individuo e di quella del genere al quale esso appartiene
(in vita quotidiana, da un lato, e in circolazione automatica delle merci,
dall’altro), tutte le speranze – quelle di Hegel e quelle di Marx – sono
permesse. A questo stadio le cose sono chiare: la vita quotidiana non è nulla, la circolazione è tutto. Il niente della vita quotidiana è un momento visibile del tutto della
circolazione
. Il feticismo non
inganna più
nessun altro che la classe dominante e i suoi sicofanti. Molte
volte il proletariato si è lanciato all’assalto della totalità e la pubblicità
della miseria sfiorò il trionfo sulla miseria della pubblicità.
Oggi le cose sono molto cambiate. La
modernizzazione delle lotte degli oppressi, e soprattutto la loro incompiutezza,
hanno portato alla modernizzazione rapida del feticismo, da parte della classe
dominante e del suo Stato, a partire dal 1930. L’entrata in scena del feticismo scientifico è stata
davvero notevole: new deal, bolscevismo e nazional-socialismo simultaneamente.
Questa modernizzazione consiste essenzialmente nel privare la vita quotidiana di quanto le era rimasto: la sua negatività, cioè la pubblicità della sua miseria, la
pubblicità della sua nullità. Il segreto della miseria della vita quotidiana è
il vero segreto di Stato. E’ la chiave di volta che completa l’edificio della
separazione che è anche l’edificio dello Stato.
Lo spettacolo, o sviluppo scientifico del feticismo, non è che la proprietà
privata dei mezzi di pubblicità, il monopolio di Stato di ciò che appare. Con
esso soltanto la circolazione resta pubblica. Lo spettacolo non è che la circolazione delle merci che assorbe
tutti i mezzi di pubblicità disponibili, condannando così la miseria
all’invisibilità
. Lo spettacolo è la forma segreta della miseria pubblica,
in cui il valore si esercita implacabilmente mentre lo sguardo ingannato
incontra soltanto le cose e il loro uso.
Nella pubblicità imperialista della circolazione
delle merci, il valore non appare mai. E’ lo spettacolo dell’invisibilità del valore. Questa
invisibilità “naturale” costituisce la tendenza
fondamentalmente spettacolista della circolazione
che la borghesia potrà
sfruttare nello sviluppo scientifico del feticismo. La circolazione può
apparire come una kermesse dell’uso, basta che il valore non sia
altrimenti pubblico. Ovviamente, principalmente uso del denaro. Si comprende
facilmente, allora, il fascino subìto dallo spettatore, confrontato
quotidianamente con il valore. E’ l’effetto di spettacolo. Esso previene ogni
idea: tutto sembra realizzato. Vieta
ogni riconoscenza: il miserabile si
conosce come il solo miserabile
. L’uso del denaro appare spontaneamente
come lo strumento dell’abolizione del valore. Colmo dell’inversione. E’ così
che lo spirito non viene agli uomini (e neppure alle ragazze, ciò che è ancor
più esecrabile).
Situato nei primi ranghi, Wilhelm Reich non poté
evitare di essere colpito dal ruolo giocato dal carattere, in quanto struttura
anti-individuale nella magnifica messa in scena nazista(8). Egli abbandona il
quesito burlesco «Perché gli operai si rivoltano?», rivolto agli psicanalisti,
psichiatri, sociologi e altri servitori dello spettacolo, per porre invece la
questione fondamentale: «Perché non
si rivoltano?»(9). Reich attribuisce la sottomissione
all’annientamento dell’individuo da parte del carattere
. Tesi difficilmente
contestabile. Necessaria ma insufficiente. Pretendere che questa società non
abbia una tendenza intrinsecamente spettacolista equivarrebbe a dire che lo
spettacolo è la grande opera della sola classe dominante. Sarebbe attribuirle
molto talento. Noi sappiamo che la classe dominante è la prima vittima delle
sue proprie illusioni. Essa segue il movimento. Abbiamo dimostrato più sopra la
ragione di questa tendenza. Il carattere, a parte ciò, è incontestabilmente
reale e si palesa clinicamente. Si tratta ora di sapere di che cosa esattamente
è il fattore clinico, una volta constatata la sua insufficienza in quanto
nozione separata. Come nozione separata è soltanto un feticcio in più.
La nostra tesi è la seguente: il quantitativo regna.
Tutti i rapporti umani sono retti dal
rapporto di quantità fra di loro
, ma appaiono, comunque, come dei puri
rapporti umani; altrimenti, lo sguardo ingannato non incontra che le cose e
il loro prezzo. Abbiamo visto rapidamente l’effetto spontaneamente
spettacolista di questo dato “naturale” che è l’invisibilità del valore. Ciò
non toglie che il valore non smetta di essere vissuto da ognuno come
l’ineluttabile necessità della propria vita quotidiana. Abbiamo visto che
questo vissuto segreto
completava la tendenza spettacolista della circolazione delle merci. Che
cosa scopre clinicamente Reich chiamandolo carattere? Noi sosteniamo che con
questo mezzo viene colto il valore in quanto necessità disumana, altrimenti
invisibil
e. E’ anzi, finora, il solo mezzo di approccio concreto del
valore, in quanto miseria segreta dell’individualità. Reich braccò sotto questa
forma l’incoscienza, la sua miseria e le sue miserabili istanze
repressive, che traggono la loro forza ed il loro apparato magico soltanto
dall’impero del valore sulla vita quotidiana. E’ soltanto perché la socializzazione universale dei rapporti umani ha
preso la
forma unica del valore,
che è la
loro negazione, che i
rapporti umani autentici, sanciti dal piacere
, sono conservati in questa socializzazione come rapporti naturali tra uomo e uomo, e a questo titolo
considerati illeciti e clandestini
, poiché tutta la socialità, tutta
l’umanità è occupata (nel senso di Lyautey) dal valore, sola socializzazione
lecita. Ciò che tende a sfuggire alla legge del valore prende dunque la forma
del “naturale”, cioè per definizione, di ciò che sfugge
alla padronanza dell’umanità.
Nel suo terzo manoscritto filosofico, Marx misura
l’umanità dell’uomo, la sua socializzazione, con il grado di socializzazione
del rapporto «immediato, naturale, necessario» dell’uomo con l’uomo: il rapporto tra l’uomo e la donna. Il
valore come socializzazione universale, come forma unica e rovesciata
dell’umanità, è anche l’impossibilità della socializzazione di questo rapporto,
che resta quindi «il più naturale», cioè il più contrastato dalla socialità
regnante
. Questo naturale si confonde, in seno alla socializzazione
universale da parte del valore, con il suo grado di deterioramento(10), allo stesso titolo che il grado di naturale
degli indiani Nambikwara, in seno alla nostra civilizzazione, si confonde con
il loro grado di sterminio.
Questo livello di deterioramento – psicosi,
nevrosi, carattere – come indice della non-socializzazione, della non-umanità dell’uomo è l’oggetto reale
della psicanalisi. Quel vecchio farabutto di Freud arrivò fino ad identificare questo grado di “naturale”, con
lo stato selvaggio, e questa socializzazione rovesciata dal   valore, con la civilizzazione. La psicanalisi
fu e sarà la paleontologia di questa preistoria.
Noi appoggiamo la nostra tesi, ancora puramente
teorica, sulla seguente osservazione clinica: se per una
causa fortuita il carattere dell’individuo si trova dissolto, la forma
fenomenica spettacolare della totalità viene dissolta nella sua pretesa di
farsi passare per l’assenza del valore. Abbiamo dunque constatato, per il
momento negativamente, una identità tra il carattere e l’effetto di spettacolo.
Che il soggetto precipiti nella follia, pratichi la teoria o partecipi a
un’insurrezione(11), abbiamo constatato che i due poli della vita quotidianacontatto con una realtà ristretta e separata, da una parte, e contatto spettacolare con la totalità,
dall’altra – sono aboliti simultaneamente, per far posto all’unità della vita individuale, ciò che
Reich chiama infelicemente genitalità (noi preferiamo individualità).
I lavori di Reich sono i primi, dopo Marx, a
mettere concretamente in luce l’alienazione. La teoria dello spettacolo è la
prima teoria che, dopo Marx, si preoccupa di essere una teoria
dell’alienazione. La sintesi di questi due metodi conduce a conseguenze
immediate, che svilupperemo nella nostra prossima opera.
Innanzitutto, noi sosteniamo che la pratica della teoria
non si distingue dalla genitalità concepita da Reich. La teoria diventa la conoscenza
permanente della miseria segreta
, del segreto della miseria. Essa è dunque,
anche di per sé stessa, la cessazione dell’effetto di spettacolo. Essendo lo
spettacolo la forma segreta della miseria pubblica, il suo effetto risiede nel
suo segreto. La teoria si confonde,
dunque, con la possibilità vissuta
(pleonasmo in opposizione alla
probabilità, la quale è vissuta come il dubbio o l’indifferenza). La teoria è la
vita
quando tutto è possibile. Cessa di esistere nel momento
in cui sbaglia e si trova rigettata nella noia, nell’effetto di spettacolo. La
teoria, quando esiste, è dunque sicura di non sbagliarsi. E’ un soggetto esente
da errore. Niente l’inganna. La totalità
è il suo unico oggetto
. La teoria conosce la miseria come segretamente
pubblica. Essa conosce la pubblicità segreta della miseria. Tutte le speranze
le sono permesse. La lotta di classe esiste.
Lo spettacolo è l’assenza dello spirito, il carattere è
l’assenza della teoria. Il proletariato sarà visibile o non sarà. Il
proletariato risiede nella sua
propria visibilità. L’organizzazione del proletariato è l’organizzazione della
sua visibilità. La pratica globale del proletariato sarà la sua pubblicità
permanente
o niente. Hitler, i leninisti ed i maoisti l’hanno capito
così bene che hanno organizzato con la forza la visibilità del
proletariato. Il capitalismo, più ambizioso, vuole realizzare la visibilità del
proletariato abolito.
La visibilità della miseria non è, da sola, il
proletariato. Necessaria ma non sufficiente essa può non essere che
la teoria. Il proletariato reclama che la visibilità della miseria sia
pubblica. La critica deve essere nello stesso tempo teoria della pubblicità
(della visibilità) e pubblicità (visibilità) della teoria. Il suo
oggetto
deve assicurarle la sua pubblicità. Quando essa è pubblica
non si sbaglia. Essa non è la teoria della pubblicità, se non assicura
la sua pubblicità. E’ veramente il colmo del ridicolo, per un teorico della
pubblicità, non poter assicurare la pubblicità della sua teoria.
Il proletariato è l’unità infine realizzata della
teoria della pubblicità e della pubblicità della teoria.
Noi crediamo che questi cenni siano superiori a
tutto ciò che ha potuto dire un Lukacs sulla coscienza di classe.
Indiscutibilmente, hanno il vantaggio di essere brevi. I pubblicitari sanno
che in pubblicità la brevità è primordiale: «Se ne avete tre vi spetta di diritto!»(12).
Non si può essere più brevi nel disprezzo. Ciò che essi non possono immaginare è che essa sarà ancora più breve, al momento di una Strasburgo
delle fabbriche. La visibilità sarà folgorante, colpo di pistola e sorgere del
sole, o non sarà(13).
Per l’istante, le nostre formule hanno dalla loro parte,
forse, soltanto la brevità. Bisognerà introdurvi i concetti di “ Bridel
o “ Camembert”, affinché esse conoscano tutta la loro chiarezza. Un
giorno verrà, ed è vicino, in cui tutti i camemberts della terra non
potranno più soffocare l’incontro della teoria della pubblicità e della
pubblicità della teoria.

novembre 1971

Note:

(1)         
Al momento della pubblicazione di questo
testo (1971) l’Istituto di Preistoria Contemporanea stava preparando una Enciclopedia
delle Apparenze: Fenomenologia dell’Assenza dello Spirito
.
(2)         
Questa fondamentale ricerca di W. Reich
aveva preso inizio già nel 1924 con il Der triebhalfe Charakter
in cui la questione caratteriale veniva soltanto accennata, senza alcun tentativo
di definizione. Nel 1928, invece, in Ueber Charakteranalyse
(in Internationale Zeitschrift für Psychoanalyse, vol.
14, pp. 180-196, 1928) si mettono le basi dell’ Analisi
caratteriale
, Sugar, Milano, 1973, che è la traduzione italiana della prima
edizione tedesca del 1933.
(3)         
La situazione critica in cui si valuta
pienamente il prezzo di questa difesa è l’amore. E’ sempre merito di Reich aver
mostrato che la difesa caratteriale contro l’angoscia si pagava, in questa
situazione, con l’incapacità alla tenerezza, da lui chiamata inopportunamente
impotenza orgastica. A questo livello, il carattere si riunisce al sintomo.
(4)         
Mentre Reich arrivava in modo ambiguo a
considerare il carattere come ostacolo al lavoro, noi sosteniamo che il
carattere è un ostacolo alla critica del lavoro.
(5)         
Il lettore avrà riconosciuto la coscienza di
classe. Non la confonda dunque con lo spettacolo della miseria che è la
versione pubblicitaria della pubblicità della miseria.
(6)         
L’opposizione del tutto agli individui non
si fa che per mezzo di parti del tutto, purtroppo! Quando l’opposizione degli
individui alla totalità diventa “totale” le cose diventano totalmente chiare.
(7)         
Il lavoratore ha sul ricco lo stesso
vantaggio che lo schiavo ha sul padrone. Lo schiavo conosce la paura, il lavoratore
– merce vivente – conosce il valore.
(8)         
Che cos’è la coscienza di classe?,
1934. In
questa piccola opera, Reich tocca il vertice dell’ingenuità leninista. Malgrado
le sue negazioni, egli fa l’apologia
della conoscenza storica specializzata
. Vi si trova persino un curioso
abbozzo del concetto maoista dell’educazione come spettacolo della miseria. Psicologia
di massa del fascismo
e Materialismo dialettico e Psicanalisi
sono in permanenza impregnati di una concezione meccanicistica degli istinti.
(9)         
[N.d.t.:  Materialismo dialettico e Psicanalisi,
trad italiana in Vis-à-Vis,
n. 7, Massari, 1999, pp. 334-358.]
(10)     
Secondo il 
principio: «Ciò 
che  non  è 
superato  imputridisce,  ciò 
che  imputridisce  incita 
al  superamento
» (R.Vaneigem).
(11)     
Il 1968 ci ha  fornito fortuitamente un materiale abbondante
e svariato.
(12)     
Insolente spot per i camemberts
Bridel
.  
(13) [N.d.t.: Sostenuto da un estremismo minaccioso,
spiacevole retorica dell’epoca e dei suoi terrori, il testo si riferisce
in questo punto ad un’azione dei situazionisti, i quali, nel 1966 a Strasburgo – nel
contesto di un intervento articolato, caratterizzato da diverse pratiche
radicali -, avevano fatto tra l’altro pubblicare, a spese della sezione
strasburghese dell’Unione Nazionale degli Studenti di Francia (UNEF), il loro pamphlet, Della miseria in ambiente studentesco, traduzione italiana disponibile: Nautilus, Torino,
1995; ora anche in Vis-à-Vis,
n. 6, Massari, 1998]

 

 

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