untori
Della disperanza
Mi dici che la speranza è essenziale: non ci resta che sperare perché quel
che resta è la speranza. Provo a capire, ma non è facile sospendere il pregiudizio
negativo con cui mi accosto a questa parola. Accolgo la tua provocazione a
pensare come un dono.

Immagino un punto di partenza, una ipotesi le cui implicazioni esigono un’attenta
analisi: la speranza resiste come fedeltà ad un resto. 

Che cosa significa essere fedeli ad un resto? Forse, semplicemente, non demordere,
non rinunciare a lottare pur essendo consapevoli che la battaglia è già persa
in partenza. Non rinunciamo a lottare anche se sappiamo che abbiamo già perso.
Che abbiamo già sempre perso. Noi lottiamo da vinti, da sconfitti,
da perdenti, da oppressi. Perché ci ostiniamo a lottare? Perché ostinarsi
a lottare nella lucida consapevolezza di essere già (stati) sconfitti? In
questo paradosso, nel paradosso (che è il nostro pane azzimo quotidiano) di
questa ostinazione sta il segreto della speranza.

Bando alle chiacchiere edificanti e consolatorie, per cui la speranza avrebbe
a che fare con l’attesa di un domani migliore. L’ideologia della speranza,
la speranza come ideologia ha costituito da sempre una delle armi psicologiche
più efficaci nel mantenimento dell’ordine costituito (e non vale la pena di
dilungarsi su questa ovvietà), arma impugnata a più riprese da maneggioni
di varie parrocchie (religiose, politiche; oggi parareligiose, parapolitiche).

L’affondo da cui muovere si impone ai miei occhi come un’evidenza: è nella
disperazione che la speranza trova il proprio senso. È dalla disperazione
che la speranza può fiorire. Come pensare una speranza nella e dalla
disperazione? Per marcare l’abisso che ci separa dalle concezioni ingenue
e consolatorie della speranza, preferiamo parlare di disperata speranza.
La potenza della speranza, il suo senso per noi qui ed ora risiede nella sua
intima e costitutiva relazione con la disperazione. La disperazione non è
negazione della speranza: ne è anzi la condizione di realtà. La speranza non
è superamento (Aufhebung) della disperazione: ne costituisce anzi l’effettuazione.

La nostra tesi: la speranza è l’attualità della disperazione. Ma di quale
speranza stiamo parlando? Prestandosi questo discorso a inevitabili fraintendimenti,
ci piace fare violenza alla lingua e introdurre una parola nuova a cui assegneremo
una funzione strategica: chiamiamo disperanza l’affetto che scaturisce
dalla decisione soggettiva di esporsi ad un resto qualunque.

FENOMENOLOGIA DELLA DISPERANZA

La disperanza è il frutto della speranza fiorita dalla disperazione: al tempo
stesso speranza disperata e disperazione sperata. Ho bisogno di questa parola
per emanciparmi da un’alternativa che, una volta accettata come valida, impoverirebbe
gravemente la mia esperienza: l’alternativa tra speranza e disperazione. Ma
rifiutare un’alternativa come limitante, angusta, intollerabile non basta,
non è sufficiente. Non nutro speranze, né mi rassegno alla disperazione. Da
questo “né…né” scaturisce l’esigenza di ripensare il rapporto tra speranza
e disperazione non nei termini di una mera dicotomia, né di una oscillazione
umorale di sapore psicologico. Si tratta piuttosto di una polarità, dove di
volta in volta e a seconda della situazione il polo attivo e quello reattivo
si distribuiscono rispettivamente tra speranza e disperazione (in una relazione
retta dal principio di azione reciproca). Dove si colloca la disperanza
in questo campo di forze? In nessun luogo. La disperanza resta illocalizzabile.

Da un punto di vista rigorosamente dinamico la disperanza è la disperazione
in quanto forza attiva. La disperazione non è un’impossibilità cieca, non
si riduce a questo. Certo, nella disperazione mi sperimento come impossibile:
non posso (più) vivere, non ce la faccio più, non sopporto più il fatto stesso
di esserci. L’approdo coerente della disperazione è dunque la morte. L’approdo
coerente, non l’unico possibile. Perché la disperazione è paradossalmente
più forte della propria impossibilità: o meglio, essendo esperienza dell’impossibile,
essa implica (in una certa misura, misura che è indice del temperamento di
un soggetto) la capacità di sopportare l’urto traumatico con la propria impossibilità.

Tesi: la disperazione – finalmente restituita alla sua qualità etica e liberata
da ogni ipoteca psicologica – è la facoltà dell’impossibile. Disperarsi significa
patire la propria impossibilità. Radicale desoggettivazione dagli effetti
prodigiosi: vanificazione dei ruoli, rovina delle identità, svuotamento dei
saperi, estinzione della volontà.

In virtù della disperazione (e non malgrado essa) il soggetto è di
nuovo possibile, si sperimenta come ancora possibile. Solo dall’urto
con la propria impossibilità (e dalla capacità di sopportare l’impatto devastante
con questo fondo roccioso della fatticità) il soggetto trae la forza reattiva
che lo riattiva. Nulla di psicologico in tutto questo. Una dinamica
impersonale dispiega i propri effetti. La disperanza è appunto la riattivazione
della potenza (sono di nuovo possibile) dopo avere sopportato la propria
impossibilità. Così anche noi possiamo camminare in una vita nuova.

Tutto ciò non si lascia pensare dialetticamente. Perché l’urto con la propria
impossibilità sancisce un punto di non ritorno, marca una sorta di conversione,
di metánoia e metábasis etica irreversibile. Nulla sarà più
come prima. A cominciare dalla speranza. Perciò non potrò più sperare, la
speranza non sarà più possibile. Non lasceremo più che “l’idea di una cosa
futura o passata, del cui evento in una certa misura dubitiamo” (avrà luogo
o meno la rivoluzione?) desti in noi una qualche letizia incostante. Non faremo
la fine di Gatsby.

D’altra parte, in qualche modo, ricominceremo a poter vivere. Non più speranzosi,
né disperati, ma disperanzosi. La disperanza è la ripresa della propria
possibilità nella lucida consapevolezza della propria impossibilità.

Posso ancora vivere, non nonostante la disperazione, ma in virtù
della disperazione. Chiamiamo disperanza la sostanza etica in cui bagna
una vita affermativa affetta dalla propria impossibilità, una vita che non
si è rassegnata alla propria impossibilità, ma ha avuto la forza di trasvalutarla.
La disperanza consiste nell’essere affetti dalla propria incrinatura: nella
facoltà di sopportare la felûre che ha irrimediabilmente e irreparabilmente
minato la nostra fiducia ingenua nel nostro essere possibili.

Vivere nella disperanza è vivere per amore della disperazione.

Per rispondere alla tua provocazione: solo in quanto disperanza la
speranza può avere un senso.

DISPERANZA E RESTO

Ricapitoliamo l’esito delle precedenti considerazioni: la speranza è fiducia
ingenua (letteralmente ingenua) nel proprio genio, nel proprio essere possibili
(posso potere, cioè posso vivere); la disperazione è la facoltà dell’impossibile
(non posso potere, cioè non posso più vivere); la disperanza
consiste nel risentirsi possibili, dunque è trasvalutazione affermativa
della disperazione (posso non potere, cioè posso non vivere).

Che cosa significa “poter non poter vivere”? Non dobbiamo lasciarci trarre
in inganno dalla ridondanza di questa espressione, né rifuggire sdegnati di
fronte a tali forzature sintattiche. Per capirci, ritorniamo alle considerazioni
iniziali: poter non poter vivere significa continuare a lottare pur
sapendo di essere (già) sconfitti. Non posso accettare l’esistente, perché
l’esistente è perpetuazione e santificazione dell’oppressione, dello sfruttamento,
dell’abbrutimento, dell’alienazione. Di qui l’esigenza di reagire alla violenza
che mi viene inflitta, di resistere al depotenziamento col quale mio malgrado
sono costretto a cooperare, uomo sacro tra i tanti in una sorta di zona grigia
planetaria. Perché resisto? Spero forse in un futuro migliore, più in armonia
con i miei desideri? Sciocchezze. Di un futuro migliore non saprei che farmene:
che i posteri, se ci riescono, se lo godano. Io decido di resistere qui ed
ora a prescindere da ogni illusione circa un futuro migliore. Resisto gratuitamente,
non perché sono convinto che un giorno verrò ricompensato. La mia resistenza
non è sacrificale. Non resisto in nome di una causa sull’altare della quale
avrei offerto le mie opere e i miei giorni. Al diavolo la morale del sacrificio.
La resistenza mi allieta, ecco tutto. Nella resistenza, nella lotta la mia
forza ha modo di esprimersi qui ed ora (non è pegno per una emancipazione
a venire). Detto ciò, torno a domandare: perché resisto nonostante non nutra
alcuna speranza circa il buon esito della mia lotta? Evidentemente resisto
anche perché non ho ceduto alla rassegnazione, perché ho la forza di sopportare
la disperazione: perché ho affinato e trasvalutato la mia disperazione. Da
dove traggo la forza propulsiva per attuare questa trasvalutazione? Dalla
donazione del resto.

Solo un resto verrà salvato. Va aggiunto però che solo il resto è ciò che
può salvarci.

(à suivre)

 

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