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Esercizio di trasvalutazione: della disperazione

L’impossibilità non è una valida obiezione.

Spesso il senso comune pretende di screditare una
prospettiva esistenziale (cioè etica, estetica, politica) denunciandone l’impossibile
attuazione. Tale assennata presa di posizione, di fatto, è rivelatrice di
un tacito (e perlopiù inconsapevole) pretesto per giustificare gli accomodanti
sentieri tracciati dall’esistente, dalla realtà nella sua configurazione attuale.

Da un lato, infatti, si tratta della replica di chi
non coglie la differenza fondamentale tra la possibilità reale e la
realtà del possibile. Solo nell’ambito della possibilità reale, infatti, l’impossibile
è ridotto ad un livello negativo: attestate (ed accettate) le attuali condizioni
dell’esistente, nonché le leggi vigenti che ne regolano il funzionamento,
x è dichiarato non essere possibile. Le possibilità reali sono appunto
le possibilità date dalla permutazione interna degli elementi dell’esistente.

 

La realtà del possibile è però ben altra cosa: in
essa l’impossibile è costitutivo della stessa sfera della possibilità, nella
forma dell’inclusione degli incompossibili. Nella realtà del possibile, l’impossibile
non è escluso dalla rete delle molteplici possibilità, bensì incluso nel suo
statuto evenemenziale, virtuale, ineffettuale. La realtà del possibile pertanto
mostra non solo come ogni condizione dell’esistente si sia costituita a partire
da eventi imprevedibili e pertanto considerati ante factum impossibili,
ma anche come essa sia costantemente minacciata da simili eventi che, proprio
perché logicamente e realmente non prevedibili, vengono esclusi come logicamente
e realmente impossibili (in altri termini: la realtà viene misurata e ridotta
alla nostra capacità di concepirla).

 

Dall’altro lato, il rifiuto dell’impossibile in quanto
impossibile è espressione di chi ha talmente bisogno delle proprie certezze
da erigerle a limite invalicabile dell’esistenza stessa, senza tener conto
che, in realtà, la certezza non è affatto un criterio adeguato all’esistenza.
Da questa considerazione preliminare derivano i seguenti corollari: 1) la
possibilità è bensì una certezza, ma in questo caso essa è accompagnata dall’idea
inadeguata (cioè astratta) di un tempo a venire. Vale a dire: essa è l’idea
inadeguata dell’incertezza; 2) la speranza è l’espressione di quest’idea inadeguata.
Vale a dire: l’idea inadeguata dell’incertezza (la possibilità differita in
un tempo a venire) si esprime, in maniera necessariamente inadeguata (e dissimulata
in tale immagine del tempo), nella nozione di speranza; 3) l’idea adeguata
dell’incertezza si esprime, adeguatamente, nella nozione di disperazione.
Vale a dire: la disperazione è l’incertezza accompagnata dall’idea adeguata
del tempo evenemenziale.

 

In sintesi: i limiti invalicabili della certezza
e dell’evidenza pretendono di delimitare i confini del possibile. In tale
maniera, essi evidenziano solo i limiti che certe forme di vita sono costrette
a tracciare per poter sopravvivere – sono costrette, cioè: sono state allevate,
cresciute, formate ed informate in modo tale che esse si percepiscano costrette,
senza perlopiù avere la consapevolezza di tale percezione (secondo un celebre
esempio, è quanto accadrebbe ad individui che, cresciuti sin dalla più tenera
infanzia in catene e circondati da persone in catene, non potrebbero che assumere
tale situazione come naturale). Entro quei limiti, ogni possibilità
è già preformata dalla necessità imposta dall’esistente e fondata più su un
inconsapevole assunto psicologico-sociale che su un’effettiva evidenza del
vissuto. Tale assunto è quindi costitutivo di una determinata forma di vita,
così come quei limiti sono i confini entro i quali essa può perpetrare se
stessa.

 

Una differente forma di vita si profila a partire
da un’altra affermazione, dall’affermazione che vuole dell’impossibile.
Tale è la disperazione: la facoltà dell’impossibile, la facoltà al limite
delle proprie facoltà. E ciò non nel senso che si voglia qualcosa per quanto
impossibile, ma che la si vuole proprio in quanto impossibile – poiché
la sua irruzione spezza le catene della possibilità legale. Affermare la paradossale
possibilità dell’impossibile significa non solo farsi carico della potenza
del paradosso, ma anche scavare alle radici delle nostre stesse possibilità
reali, esponendosi alla realtà del possibile.

 

Ma che cos’è la potenza del paradosso di cui
questa forma di vita dovrebbe farsi carico? È propriamente il paradosso
della potenza
nella misura in cui enuncia, nella realtà del possibile,
la possibilità dell’impossibile. Tale paradosso si può esprimere, ancora
in maniera impropria, nei termini che seguono. Se è possibile, l’impossibile
non è tale (infatti: se l’impossibile è possibile, esso non è impossibile).
Quindi: l’impossibile non è impossibile (ovvero è non non-possibile). Ma che
l’impossibile non sia impossibile, significa che non è possibile che sia (come)
impossibile. Cioè: è impossibile che sia. Quindi: l’impossibile deve essere,
in qualche modo, possibile (e non impossibile). In sintesi: se è possibile,
allora non è impossibile; ma se non è impossibile, allora è impossibile (come
impossibile). Il piccolo sofisma logico implicito nell’esposizione di questo
paradosso (che confonde il piano del modus con quello del dictum)
è effetto dalla sua discorsività la quale, inevitabilmente, lo diluisce e
diluendolo lo snatura, disgiungendo i due termini (possibilità e impossibilità)
che, nella realtà del possibile, si stringono in una vicendevole e complementare
reversibilità.

 

Si potrebbe obiettare che, in fin dei conti, tale
paradosso sia solo una chimera, un sofisma (appunto) o, al massimo, un divertissement
da perdigiorno; un discorso in qualche maniera analogo a quello che, con la
consapevolezza sofistica o vittima di superstizioni immaginifiche, sostiene
variamente l’essere del non essere – discorso in base al quale se il non-essere
è, allora esso non è (non-essere), mentre se esso non è, appunto è. Non ci
si sta quindi bagnando nelle placide acque di un mero ens verbale?
Questa obiezione sconterebbe però, in questa sede, tutto un insieme di presupposti
impliciti ed inindagati. In rapida successione: presuppone il principio di
contraddizione quale misura universale del possibile e dell’impossibile; accetta
implicitamente una separazione tra sostanza e modi; assume come ovvia ed univocamente
determinata la distinzione tra la filosofia e la sua ombra, la sofistica;
non considera la funzione magica della parola; non va a fondo della potenza
dell’immaginazione…. Ma tutte queste considerazioni avranno il loro luogo
e momento di tematizzazione. 

 

Disperazione e volontà.

 

Ora, la volontà che afferma la possibilità dell’impossibile
si direbbe peraltro in strana sintonia con l’adagio teologico della fede
nell’assurdo
. Il credo quia absurdum non significa semplicemente
lo scacco della ragione di fronte al mistero della fede. Esso esprime il fatto,
ben più radicale, che Dio esige l’impossibile. Il nodo fondamentale che viene
espresso è quello tra l’impossibile e l’esigenza. Esso, in nome della trascendenza,
si sostanzia nella speranza (sostanza della fede), mentre sul piano di immanenza
non può che essere disperazione. Senza Dio, infatti, la disperazione si esprime
differentemente, dicendo non “Dio esige l’impossibile”, ma piuttosto e più
causticamente: l’impossibile esige. Esigenza (non poter non potere)
e impossibilità (non poter potere) si incontrano così nel profondo dell’esistenza,
non più alla luce di una trascendenza alla quale rinviare (come vorrebbe qualsiasi
forma di speranza), ma alla luce dell’immanenza del come si è.

 

Ci si potrebbe infine domandare da dove emerga e
da dove parli una siffatta forma di vita che vuole l’impossibile in quanto
impossibile
, che vuole esporsi alla potenza del paradosso. Ma la
risposta è in questo caso più semplice di quanto non si sospetti: risiede
nella stessa disperazione. È proprio la disperazione l’istanza insorgiva di
questa volontà, volontà che quindi non vuole altro da ciò che è (se non nella
distruzione e nella trasvalutazione ludica). Questa facoltà dell’impossibile
costituisce infatti un’istanza fungente in ogni atto dell’esistenza come ogni
facoltà portata al limite di se stessa, facoltà in base alla quale immaginiamo
l’inimmaginabile (rendendolo immaginabile in quanto inimmaginabile),
nominiamo l’innominabile (rendendolo nominabile in quanto innominabile),
effettuiamo l’ineffettuabile (rendendolo effettuabile in quanto ineffettuabile)… 

 

Va da sé che questa stessa volontà non possa propriamente
dispiegarsi se non in una forma impossibilitante. Una celebre espressione
di questo impotenziarsi della volontà si può rinvenire nella formula del volere
a ritroso la quale enuncia non tanto l’ipertrofia della volontà, quanto la
sua impossibilità. La volontà, beninteso, non è qui affatto una capacità del
soggetto (che dalla trasparenza a sé della coscienza delibererebbe secondo
ragione); essa nomina piuttosto un elemento energetico, un campo d’intensità
differenziale di cui, al limite, il soggetto cosciente è solo un effetto di
superficie. Detto altrimenti (e sul piano del soggetto, questa volta): rispetto
a ciò che si è, la disperazione consiste nel voler non essere ciò che si è
e, nello stesso tempo, voler essere ciò che si è (in quanto ciò che
si è, per come si è, è quanto permette di voler non essere come
si è): quest’ulteriore paradosso, paradosso della volontà questa volta,
costituisce la modalizzazione soggettiva della disperazione, ovvero la desoggettivazione
attraverso una possibilità impotente annientantesi (annientantesi,
e non annientatasi – come un ironico “autoannientantesi nulla”). Ciò che in
essa si annienta (in un divenire senza punto d’arrivo – cioè un divenire che
non si riduce a diventare qualcosa) è l’intolleranza al proprio come.
Positivamente, ciò si dice: assunzione della propria forza di vita modale.  

 

Chiamiamo quindi disperazione questa volontà
che sa volere l’impossibile
. Si tratta, ribadiamo, di una volontà che,
propriamente, non sa e non può più neanche volere (se volere significa discriminare
tra dimensioni possibili, ma reciprocamente incompossibili) – una volontà
che esprime semplicemente la propria dimensione energetica ed esplosiva. Da
un punto di vista dinamico, essa procede nell’intensità della propria istanza
modale, del proprio come, come non.

 

Disperazione e speranza

La disperazione non si misura in base alla speranza
perduta, non è negazione della speranza. È vero proprio il contrario: ogni
speranza è disperazione negata, tolta, superata. Insussumibile, la disperazione
è però il resto di ogni toglimento e di ogni superamento. Il resto
è quindi ciò che resiste ad ogni forma di speranza, e su tale resto
insiste la disperazione.  Non si tratta quindi di far fiorire la speranza
dalla disperazione (o credere, con ancora troppa indulgenza, che la speranza
trovi il proprio senso nella disperazione), ma di comprendere e attestarsi
su quell’irriducibile residuo disperatamente resistenziale, cercando di farlo
esplodere creativamente. In questo senso, è fin troppo semplicistico sostenere
che la disperazione è condizione della speranza – troppo semplicistico, cioè
troppo semplicisticamente dialettico (e sia detto per la scaltrezza di ipotetici
critici malvagi: la dialettica non è né semplice, né semplicistica, né facilmente
eludibile – ma c’è un uso semplice e semplicistico della dialettica che spesso
caratterizza le facili obiezioni degli stessi critici malvagi…). La speranza,
disperazione negata, è istanza reattiva, nella misura in cui la negazione
costituisce, notoriamente, la via di affermazione delle forze reattive, delle
forze antivitali – dispositivo psicologico per il mantenimento dell’ordine
costituito.

 

Il tempo proprio della speranza resta sempre un tempo
a venire, il sempre rinnovato domani di ogni giorno. Il tempo della disperazione
è adesso. Invece di tergiversare su ipotetici domani migliori, essa
vuole l’impossibile e lo vuole nel tempo di ora. Il tempo di ora è
adesso, ogni adesso che, nel suo accadere irriducibile alla presenza,
ridistribuisce perpetuamente il passato ed il futuro, ma contratti e complicati
nel gesto intensivo della disperazione. Si spera per una possibilità a venire;
si dispera per un’impossibilità attuale. Certo, si spera ora – ma nella
speranza l’ora subisce la neutralizzazione propria di un tempo in estensione,
in proiezione, in ulteriore differimento.  

 

Ma che cosa significa “impossibilità attuale”? Sarebbe
ovviamente un controsenso misurare l’attualità dell’impossibile sul piano
della realtà in atto. Ciò significherebbe, con tutta evidenza, ricadere nelle
maglie della possibilità reale. L’impossibile attuale, piuttosto, risiede
nell’atto della pura potenza in quanto potenza. È la diplopia intensiva del
possibile. L’atto della potenza come potenza, infatti, si dà nella disgiunzione
inclusa di potenza e potenza-che-non. Il carattere negativo di quest’ultima
(della potenza-che-non) emerge però solo alla luce della sua attuazione. La
potenza-che-non non ha carattere negativo: il negativo è solo l’immagine retroflessa
a partire dalla determinazione d’atto. L’impossibile enuncia piuttosto la
sovrabbondanza implicata e complicata nella potenza: la coincidenza puntuale
del poter-vivere e del poter-non-vivere. È chiaro che questa formula ha senso
solo nei suoi volti concreti, modali, pratici, sperimentali.

 

Disperazione e nichilismo

La disperazione tiene in sé l’ambiguità della formula paradossale: poter
non potere
(cioè fondamentalmente: poter non poter più vivere). La sua ambiguità
deve essere misurata con le molteplici forme di superamento del nichilismo implicito
dell’apparato biopolitico.

 

Nichilista è, appunto, il duplice gesto di spoliazione
e formazione messo in moto dal dispositivo biopolitico (cfr. saggio
ontomodale
). La sua struttura generale si articola nella negazione
della vita (spoliazione) in funzione di trascendenze dalle quali, poi, la vita
stessa trarrebbe il proprio senso (formazione). In questo dispositivo, propriamente,
non ci si può riconoscere in ciò che si fa, non ci si può mettere in gioco nell’immanenza
del proprio stare, per quanto sia dalle proprie attività che si riceve il senso
di ogni nostro fare. Devitalizzata e mortificata, la vita viene deprivata della
propria potenza in atto (cioè della sua potenza infinita che tiene in sé i propri
atti) e, nella sua riduzione a mera potenza (nuda vita: mera potenza senza atto
alcuno), essa riceve determinazioni d’esistenza solo dall’esterno. Questa ipostatizzazione
dei valori (che ne è, al contempo, lo svuotamento) riguarda non solo un piano
teorico di interpretazione della realtà, ma anche e soprattutto un dispositivo
concreto, un insieme di pratiche che costantemente rendono effettiva quella
triangolazione. Ogni pratica che misura se stessa alla luce di un senso eterodeterminato,
ogni pratica che si esercita all’interno di una distribuzione regolamentata
di ruoli, spazi e tempi, ogni pratica che si legittima sul piano della legalità
del diritto – in breve, la quasi totalità delle attività in cui la forma di
vita dell’omnitudine fa rifluire la propria vita – è affetta da questa struttura
di nichilismo negativo.

 

In questo senso, il dispositivo disciplinare e
biopolitico è intrinsecamente e negativamente nichilista. In tale piano dell’esistenza
(che è propriamente una pianificazione dell’esistente), si fa quel che si
può
– affermazione che dichiara i limiti delle proprie condizioni esistenziali
(il diritto che legittima) e, allo stesso tempo, i limiti delle proprie forze
(l’impotenza che non permette). L’astenia introiettata di questa formula offre
a tutti la consolazione per la propria inedia. In essa, si mistifica la vita
con il desiderio di certezze (il denaro, un lavoro sicuro, un avvenire, una
pensione, un reddito garantito, un misero tozzo di pane…) – mistificazione
tanto della vita (la cui incertezza radicale viene rimossa costantemente), quanto
del desiderio (che si esprime solo al limite di se stesso) – mistificazione
in cui si dimentica e cancella con pertinacia la semplice evidenza in base alla
quale la certezza non è un predicato adeguato alla vita. 
Un primo attacco
alla struttura nichilista dell’apparato biopolitico proviene dalla critica
pratico-teorica mossa alla funzione disciplinare di normazione e normalizzazione.
La supposta fonte di senso e di formazione della nuda vita viene così neutralizzata
e denunciata nella sua astrattezza. Tuttavia, sospendendo la provenienza di
riflesso delle determinazioni d’atto, tale critica non può che essere di carattere
meramente transitorio in quanto non giunge alle conseguenze radicali del proprio
gesto, attenendosi ad una fondamentale, ma ancora preliminare, esposizione
all’universalizzazione del possibile. Non basta cioè distruggere criticamente
e praticamente l’istanza che informa la vita (e che, informandola, la costringe
nelle reti del possibile); si tratta anche di esporre la nuda vita ad una
nuova formulazione teoretica e ad una nuova sperimentazione etica. Non basta
la distruzione, bisogna assurgere ad una nuova gioia. Per quanto la critica
dischiuda uno spazio illimitato di possibilità, questo, proprio per il suo
carattere illimitato (cioè indefinito), rischia di restare inattivo. Tutto
è possibile! Ma, senza una riformulazione e una differente sperimentazione
della vita, questa possibilità rimane ancora un’astrazione, una possibilità
teorica. Nulla sembra fattibile, perché tutto è possibile.

 

Tutto è possibile? Tutto, cioè: ogni cosa, ogni evento, ma anche il suo contrario:
A e non-A, la battaglia e la non-battaglia, nello stesso tempo e nello
stesso senso
. Nello stesso tempo e nello stesso senso, vale a dire: nel
tempo di ora, adesso, in ogni adesso, nel suo senso immanente. Adesso tutto
è possibile, anche l’impossibile. Pertanto, l’universalizzazione nichilista
del principio di possibilità, universalizzazione dirompente che esprime la
scandalosa realtà del possibile in quanto incompossibilità agente, annulla
d’un solo colpo ogni principio universale e, in primo luogo, il principio
dei principi: il principio di identità e di non contraddizione. In questo
senso, come abbiamo visto, la possibilità dell’impossibile esprime la potenza
del paradosso (e il paradosso della potenza).

Ma quali sono i possibili volti concreti di quest’esperienza della possibilità
dell’impossibile? Quali sono le forme di disperazione che si profilano alla
luce del paradosso della potenza?

Tre volti concreti della disperazione

Disperazione suicidaria. Alcune forme di vita, còlta la natura
astratta e mortifera dell’apparato biopolitico, scivolano a loro volta in
una pratica suicidaria, in una deriva di autodistruzione: forme di vita che
si rovesciano, propriamente, in forme di morte. Nell’unilateralità del loro
gesto restano vittime dell’apparato biopolitico: esse infatti percepiscono
il carattere posticcio di un solo aspetto dell’apparato biopolitico (la vacuità
e l’astrazione del processo formativo e di tutti i processi di identificazione
e soggettivazione che esso mette in moto), ma accettano inconsapevolmente
l’altro lato del processo, il complementare e logicamente preliminare gesto
di spoliazione. A causa dell’unilateralità di questa percezione, sprofondano
nell’immanenza vuota della nuda vita, restando così, essi stessi, nudi e vuoti.
Sensibili all’intollerabile, sprofondano in esso lungo una china mortifera,
esponendosi irrimediabilmente, ma negativamente, alla dichiarazione del biopolitico
che dice: sotto le mie forme, nulla! Ed in tale nulla esse si annullano (mentre
la biopolitica non farà certo mancar loro le droghe necessarie per l’autodistruzione).
L’immanenza qui volge in immanenza di morte, laboriosa ed oscura “balistica
interna”: la desoggettivazione implicata dall’impossibilità si riduce a confermare
l’annullamento dell’esperienza.

Disperazione distruttiva (o bellica, o conflittuale). Altre
forme di vita rispondono al dispositivo biopolitico in maniera esclusivamente
distruttiva, con un’allegra e allegrante “balistica esterna”. Da un
punto di vista teorico, rientra in questo campo ogni forma di negazione critica
dell’esteriorità dell’ideale (morte di Dio, morte dell’uomo-dio, morte dell’uomo,
morte dello stato…). Da un punto di vista pratico, essa si manifesta variamente
in ogni gioiosa pratica della distruzione, nella disperazione liberantesi
in letizia esplosiva. Nella misura in cui arriva a cortocircuitare i meccanismi
del biopotere, è senz’altro indice di una forza irriducibile alla sua sussunzione
disciplinare; indisciplinabile, essa sa, a suo modo, volere l’impossibile.
In tal modo, essa si espone attivamente all’intollerabile. Da un punto di
vista teorico e pratico, il limite di questa posizione appare tuttavia
come l’altra faccia della sua virtù: la reattività. Se questa, in sede
strategica (ovvero sediziosa), non può che essere una virtù (per il suo potenziale
offensivo), resta nondimeno un limite dal punto di vista ascetico (cfr.
ascesi e sedizione). Vale a dire: nella
misura in cui resta sul piano reattivo, appare insufficiente in quanto facilmente
riconducibile alla logica del risentimento e della vendetta, al volto tetro
(sebbene non suicidario) della disperazione. In altri termini, il carattere
reattivo di questa disperazione rischia di ridurla al suo volto distruttivo,
facendo sfumare la gioia e l’affermatività implicite nel suo stesso gesto
di distruzione.

Disperazione ludica (o gioiosa). Abbiamo infine una terza forma
di disperazione che, con letizia, afferma le proprie possibilità esponendole
asceticamente ai limiti dell’impossibile. Campo sperimentale. È la frequentazione
affermativa di possibilità al loro limite d’impossibilità, dove si può quell’impossibile.
È l’assunzione ludico-creativa che fa rimbalzare l’impossibilità del dictum
(poter non-poter vivere) sulla possibilità del modo: dove quell’impossibile
diviene possibilità immanente di una forma di vita che sa creare il proprio
spazio-tempo di espressione, con le sue intrinseche divergenze e convenienze.
Nel spazio-tempo ludico, la finzione diviene effettiva sperimentazione creativa,
gli oggetti perdono lo statuto strumentale per divenire forme del come-non,
i soggetti destituiscono i propri ruoli per divenire complici segreti, gli
spazi sono abitati in volumetrie geometriche inusitate… È quel gioco ideale
in cui le regole vengono inventate ad ogni colpo, in un perpetuo circuito
di deregolamentazione ramificante. Nella disperazione ludica si declina quindi
in termini di atto della potenza pura ciò che ci si vorrebbe contrabbandare
come nuda vita, vita informe per non avere atto alcuno. Qui la disperazione
assume se stessa come forma gioiosa del proprio stare, spazio ludico della
propria ascesi, nella gratuità e nella reciprocità. Rispetto alla china meramente
distruttiva, viene in primo piano l’elemento creativo, sperimentale, vitale
del rapporto all’impossibile. Rispetto alla china suicidaria, “muore la morte”:
è il vitalismo nascosto ed incontenibile di chi arriva a concepirsi come già
morto, consumando così il non-potere (vivere) in un costante non-poter
non-potere, cioè nella kinesis emergente dell’esigenza.

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