untori
Elementi di strategia ontomodale

Il dispositivo
scissionale

Se è vero che la posta in gioco della metafisica è politica e, viceversa, che
la posta in gioco della politica è metafisica (Stato
di eccezione
), e se è vero che la configurazione basilare di questo
dispositivo duale si dispiega nella forma del biopolitico, occorre anzitutto
chiedersi: in che modo agisce il dispositivo biopolitico attraverso gli operatori
ontologici di atto e potenza?
L’operazione in causa si presenta come una
dinamica complessa che si articola in due momenti complementari.

In primo luogo, infatti, il dispositivo biopolitico agisce scindendo i
due termini: separa la potenza dal suo atto e l’atto dalla sua potenza
.
Il primo gesto, la separazione della potenza dal suo atto, nomina esattamente
il processo di depotenziamento, la diffusione della tristitia, il trionfo
delle forze reattive. La potenza scissa dal proprio atto è istanza di depotenziamento
in quanto svuota la possibilità (e la forza che è insita in essa) dai suoi
rapporti con l’esistente che, appunto, potrebbe modificare. Simmetricamente,
la scissione dell’atto rispetto alla sua potenza ne solidifica la determinazione
nell’accettazione dell’esistente. Nella struttura radicale dell’apparato biopolitico,
il primo gesto della separazione consiste nell’isolamento e nella creazione
della nuda vita come pura potenza, materia priva di forma, che non può
le proprie modificazioni. Isterilita e privata delle proprie forme, la vita
è devitalizzata, accecata, sottratta al senso e al divenire ad essa immanenti,
annullata per non aver atto alcuno; letteralmente mortificata.

Per questo motivo, la riduzione del vivente al suo substrato
di pura materia informe, distinta dal proprio fare, richiede un’ulteriore
attività che venga a darle forma. La spoliazione della vita, che denudata
ha da essere formata ed informata, ha come gesto complementare nel processo
di formazione. Questo secondo gesto consiste tanto nell’ipostatizzazione categoriale
(nella sua dimensione statica), quanto nel processo di formazione disciplinare
(nella sua dimensione dinamica).

La funzione categoriale nomina l’assoggettamento alla necessità e
a tutte le proprietà in base alle quali il vivente non ha da essere un aver-da-essere
modale. In questa prospettiva, la singolarità, la forma-di-vita non deve essere
tale quale è, ma deve piuttosto essere quale non è. Nella disgiunzione
dell’essere dalle sue modalità di estrinsecazione, del che cosa dal
suo come, in questa disgiunzione che, beninteso, pone il che
cosa
deponendo la modalità, si fissa l’essere estratto (ovvero:
l’astrazione dell’essere) in una rete essenziale di attributi che, nella loro
trascendenza rispetto al singolo e alla sua unicità incommensurabile, lo eteronomizzano
ed eterofinalizzano. Al singolo viene imposto il dominio di provenienza e
destinazione sostanziato dalla specie, dal genere, da tutte le forme di identità.
La categoria appartiene al singolo solo nella misura in cui lo astrae dalla
propria singolarità, ovvero dalla sua più intima proprietà (che si differenzia
radicalmente da ogni forma di identità). Le proprietà categoriali attribuite
al singolo lo rivestono nella sua espropriazione originaria, facendo di quest’ultima
la base dell’imperativo categorico: sii anzitutto uomo o, se proprio ti risulta
difficile, sii almeno funzionario dell’umanità!

A sua volta, la funzione disciplinare o di normalizzazione dispone
i passaggi capillari che inchiodano il singolo alle strutture categoriali.
Micrologicamente disciplinato, il singolo normato diviene l’incarnazione
della norma. Questa, imponendosi come telos implicito nell’amorfismo originario
del vivente, si incarna propriamente nel corpo del singolo e nelle sue relazioni,
nei suoi gesti elementari e nelle inclinazioni performative. In questo senso,
il dispositivo disciplinare non si limita a porre divieti, ma agisce piuttosto
tramite la prescrizione valoriale e comportamentale (che vieta solo ciò che
non è prescritto). La prescrizione, stante la preliminare astrazione del vivente
rispetto alle sue modalità espressive, presenta così se stessa come l’implicita
tendenza del vivente ad incarnare la norma generale. Perciò, siccome il potere
deve farsi sempre più isomorfo alla vita che deve normalizzare, esso diviene
un dispositivo sempre più micrologico, microfisico, molecolare.

La strategia
ontomodale: radicalizzare la separazione.

Il dispositivo biopolitico opera dunque con un duplice gesto complementare:
da un lato spoglia, denuda la vita rispetto al proprio essere (separazione
della potenza e dell’atto), dall’altro riveste, normalizza, categorizza (imposizione
di attualità identificanti e normalizzanti).

In che cosa consiste
la
prospettiva dell’ontologia modale come
pratica di resistenza al dispositivo scissionale
della biopolitica? In che modo la prospettiva ontomodale può tentare di sottrarsi
alla scissione ontologica?

La prima ipotesi consiste nella radicalizzazione del dispositivo scissionale,
al fine di cortocircuitarne la riconciliante dinamica degli operatori formativo-categoriali.
Si tratta, in questa ipotesi, di radicalizzare la separazione, di mantenere
i termini disgiunti dalla prima ed originaria operazione biopolitica: rifiutando
cioè il secondo gesto di rivestimento e cercando di pensare, radicalmente,
atto e potenza a prescindere dalla loro vicendevole relazione.

Ma come è possibile pensare la potenza senz’alcuna relazione all’atto?
Consideriamo, preliminarmente, la forma in cui essa si rapporterebbe
all’atto, in modo tale da guadagnare lo spazio aperto dalla sottrazione a
tale rapporto. Il rapporto dalla potenza all’atto si darebbe, nel divenire,
tramite il rinvio ad un’effettuazione a venire che, nel proprio futuro anteriore,
determinerebbe la realizzazione di una possibilità (A, la battaglia) ad esclusione
del suo negativo (non-A, la non battaglia).

Quindi, la potenza senza relazione all’atto può essere intesa come una potenza
che non include in sé il rapporto che, alla luce dell’atto, diviene di esclusione.
Il rapporto di esclusione del dictum di una proposizione modale, infatti,
riguarda la negazione della potenza di una delle due possibilità a causa dell’attualizzazione
dell’altra. L’atto, cioè, recide nella forma dell’esclusione ciò che è incluso
nella sfera della potenza. Pensare la potenza senza relazione all’atto significherebbe
quindi escludere l’esclusione inclusa nella potenza (inclusa nella
potenza dalla relazione all’atto), ovvero pensare la pura inclusività,
la pura intensività nella sua ricchezza eccedente ed irriducibile all’esplicitazione
attuale. La potenza pensata radicalmente nella sua separatezza nomina l’eccedenza
dell’implicito rispetto all’esplicito, la sovrabbondanza del complicato rispetto
all’esplicato.

Se la forma dell’esclusione nomina la possibilità reale, che si distingue
dall’autoannullantesi possibilità formale, potremmo dire che la pura inclusività
nomina la realtà della possibilità, l’atto proprio della potenza. In
breve: la pura immanenza. Altrimenti detto: il transito dalla potenza
all’atto è possibile solo rispetto al lato positivo della disgiunzione inclusa
nella potenza, lato positivo che determina, après coup, la negatività
dell’altro polo. In questo senso, una potenza che non si risolve nell’atto
è la potenza dell’impotenza, la potenza di ciò che in essa non passa all’atto
(e che, ovviamente, nominiamo “impotenza” solo dal punto di vista dell’atto).
Infatti, l’impotenziarsi della potenza, ovvero il lato o il termine dell’impotenziamento
(di ciò che nella possibilità è possibilità che non), riceve la propria determinazione
solo a partire dalla retrocessione, al negativo, del compimento di attualizzazione
di ciò che lo esclude e che lo recede nella dimensione della potenza di non
essere. Dal punto di vista della pura potenza, invece, l’impotenza è potentia
potentiae
.

Quindi, pensare la pura potenza significa cogliere il limite symballico che
in essa include ciò che, nell’attualizzazione, si dà nell’esclusione:
pura immanenza inclusiva come realtà del possibile.

Pensare l’atto senza rapporto alla potenza, d’altra parte, significherebbe
pensarlo a prescindere tanto dalla potenza di cui sarebbe attualizzazione
(realizzazione che coincide con l’esclusione della propria impotenza), quanto
dall’ulteriore potenza di cui sarebbe foriero nel suo stesso realizzarsi.
L’atto in quanto tale può essere pensato come puro evento: mero accadere
di ciò che consiste impassibilmente sia rispetto alle proprie condizioni di
possibilità, sia rispetto all’ulteriore apertura di possibili che viene a
schiudere. L’atto, rescisso dalla propria potenza, sarebbe la pura esteriorità,
l’irrelata ed irreparabile esteriorizzazione del gesto, la riduzione della
totalità dinamica in un punto che, nella sua parzialità, esplica tutto. Essere
all’altezza di gesti evenemenziali, di atti che si conformino come eventi
puri, significa non cercarne il senso nel suo differimento, né dotarsi di
“ragionevoli” motivazioni preliminari. Un colpo, e basta! Puro evento che,
nella sua necessità (essendo accaduto non può non essere, è intrascendibile,
irreparabile), coincide con la pura contingenza (contingit).

In sintesi: gli assi portanti dell’ontologia modale, che radicalizzando la
separazione pensa atto e potenza a prescindere dal loro vicendevole rapporto,
sono le nozioni di evento come atto puro e di immanenza come pura potenza.

Strategia ontomodale:
l’annullamento della separazione.

Per pensare atto e potenza al di là di ogni figura della relazione, si può
anche tentare un’altra via, considerandone la relazione a prescindere dai
termini relati
. Ciò significherebbe, in una prospettiva genealogica (vale
a dire da un punto di vista che non confonde l’atto con il farsi dell’atto),
pensare la relazione in una dimensione originaria, costitutiva, senza cioè
presupporre i termini nella loro distinzione. Pensare atto e potenza al di
là della figura della relazione, significa pensarli nella loro indistinzione
genealogica
, nella reversibilità della loro differenza senza separazione.

Donde il passaggio ad una seconda ipotesi in base alla quale si tratterebbe,
infine, di non scindere l’atto dalla sua potenza e non scindere la potenza
dal suo atto
. L’annullamento della distinzione, beninteso, mira ad annullare
non già la differenza dei due termini, bensì la loro separatezza. Intende
con ciò cogliere l’atto della potenza in quanto potenza e la potenza dell’atto
in quanto tale, il che significa, d’altra parte, cogliere la radicale coimplicazione
di evento e immanenza in una logica del divenire.

Consideriamo, in via preliminare, due possibili obiezioni.

La prima obiezione riguarderebbe l’impossibilità dell’apprendimento: l’indistinzione
genealogica di atto e potenza annullerebbe la possibilità, per un uomo, di
divenire in futuro ciò che attualmente non è (essendolo, appunto, solo in
potenza): l’impossibilità cioè di rompere con l’esistente e, anzitutto, col
fatto che si è. Questa obiezione rischia però di farsi sfuggire proprio ciò
che vorrebbe salvare, ossia l’effettivo divenire nell’apprendimento. Considerare
quest’ultimo nei termini molari di atto e potenza (per cui ora non sono in
atto ciò che però sono in potenza), significa infatti considerarlo esclusivamente
alla luce del divenuto, ovvero confondere i fatti (non ero musico – sono musico)
con il farsi di fatti (divento musico). In realtà, l’effettività del divenire
dispone una molteplicità micrologica di tentativi falliti, di piccoli errori,
di parziali successi, di ricadute repentine ed infiltrazioni di oblio che,
in infinitesimali rapporti differenziali, disegnano la curva dell’apprendimento.
Anzi, proprio questa curva a curvatura variabile, questa sinusoide altamente
irregolare disegna l’effettivo grafo dell’apprendimento in cui, in ogni fase
minima, si esprime modalmente un essere che è solo nel suo modo d’essere.
In altri termini: nel corso dell’apprendimento, vale a dire nel corso dell’esperienza,
io non consisto se non nel come effettivo del mio esperire, in un’infinità
di atti che sono la mia potenza e, inversamente, un’infinità di potenze
che sono la mia attualità. O ancora: la potenza si esprime come una
molteplicità di atti (ora, che sono ignorante, posso imparare solo nella misura
in cui tale possibilità coincide con un’infinita trama di gesti che, nel loro
vicendevole rapporto differenziale, disegnano la linea di continuità dinamica
lungo la quale passo dal non-sapere al sapere); mentre il mio essere in atto,
a sua volta, coincide con la molteplicità delle sue potenzialità (la mano
attualmente aperta coincide con le molteplici possibilità di movimento presenti
nel suo atto).   

La seconda obiezione verterebbe invece sull’impossibilità di una morale fondata
sulla deliberazione. La volontà sarebbe infatti l’istanza in grado di porre
fine all’ambiguità della potenza, recidendo la disgiunzione in essa inclusa
e facendo ricadere sull’agente l’assunzione di responsabilità del proprio
agire. È cosa risaputa, d’altra parte, come questa morale della volontà scavi
nel luogo vuoto dell’anima: il soggetto si scinde dai suoi atti arretrando
in una zona di potenzialità sospensiva dalla quale trascenderà se stesso in
ogni sua decisione. La trascendenza della coscienza è l’effetto di questo
vuoto di potenzialità scavato al di qua dell’attività. In questa maniera,
però, la potenza dell’essere è in realtà sottratta alla sua esplicazione espressiva,
neutralizzata rispetto ai suoi effettivi modi d’essere. Questi, a loro volta,
vengono costantemente differiti in un a-venire indeterminato. Non si è più
la propria potenza, ma si ha in sé la potenza deliberatoria. In breve, la
morale della deliberazione si rifugia in un luogo fittizio e in fin dei conti
consolatorio rispetto ai nostri modi d’essere. Indistinguere atto e potenza,
significa quindi farla finita con la morale dell’anima, con le prescrizioni
dell’interiorità, annullando la permutazione tra ideali e realtà. La strategia
ontomodale si lascia alle spalle l’illusione della volontà e la sua giustizia
distributiva di meriti e demeriti. Nella prospettiva ontomodale, si vuole
infatti sopprimere la deficienza che obbligherebbe l’uomo alla deliberazione,
quella deficienza che ne farebbe il depositario delle virtù morali. Animale
divino o divinità animale, la singolarità ridefinisce l’uomo al di qua e al
di là dell’umano, tramite la riappropriazione dell’istinto e il suo ricongiungimento
con una perfezione disponibile all’effettiva sperimentazione dei propri modi
d’essere.

Del possibile
ontomodale.

Non scindere l’atto dalla potenza, e viceversa, significa in definitiva indistinguerli
in un processo di modulazione continua, di inarrestabili oscillazioni
modali. In questa linea modulare, si costituisce un
essere qualunque
. La costituzione dell’essere qualunque, della singolarità
di ciò che è tal quale è, dischiude a sua volta il piano dell’etica,
tracciabile a partire da un ripensamento della categoria della possibilità.

In questa prospettiva occorre quindi, in primo luogo, distinguere tre forme
del possibile (da cui derivano altrettante modalità di costruzione di un mondo
altro).

1)   La possibilità formale. La possibilità formale è la formula vuota
di un’astrazione. Si tratta di una possibilità separata, priva di rapporto,
che, a causa del suo isolamento, si identifica con il proprio opposto. La
possibilità formale si autoannulla nella possibilità inversa ed opposta, nella
sua possibilità negativa che, nel piano astratto, è tanto possibile quanto
la possibilità positiva. È la formula zero del possibile che, secondo il celebre
esempio kantiano, indistingue la possibilità di avere cento talleri, facendola
rifluire nella sua possibilità negativa, stante l’assenza di un nesso congiuntivo
tra il possibile e il reale. L’astrazione della possibilità formale (conforme
non solo all’ideologia giuridico-liberale, ma anche ad ogni utopismo da anima
bella) cela, di fatto, l’autogiustificantesi rassegnazione alla realtà esistente
(e perciò diffusamente indotta dallo Spettacolo nell’autocomprensione media
del cittadino-consumatore).

2)   La possibilità reale. La possibilità reale, distinguendosi dall’astrazione
formale, si declina in termini di condizioni di possibilità, che esprimono
il nesso che rende reale un possibile. Il possibile reale viene pensato nel
quadro relazionale delle compossibilità, ovvero come istanza permessa e prevedibile
nella combinatoria degli elementi della realtà attuale (questa essendo il
vero contenuto affermato e, al contempo celato, dalla possibilità formale).
È realmente possibile solo ciò che risulta compatibile con l’ordine attuale
della cose, nella sua costituzione organica ed unitaria. In quanto tale, essa
coincide con la versione socialdemocratica o riformista della possibilità,
versione che per dischiudere del possibile nella realtà, del possibile realizzabile,
comincia proprio con l’accettazione della realtà attuale (salvo comprenderla
come indefinitamente correggibile).

3)   La realtà del possibile come incompossibilità. La realtà del
possibile non deve essere confusa con la possibilità reale. Quest’ultima infatti
coincide, in ultima analisi, con le possibilità combinatorie implicite nella
realtà esistente dalle quali la realtà stessa subisce le proprie alterazioni
(che si mostrano quindi come alterazioni del medesimo). La realtà del possibile,
invece, scava proprio nel nucleo genealogico della realtà attuale e della
molteplicità delle sue circostanze convergenti. Essa considera cioè l’aver
luogo della possibilità reale e, quindi, della realtà tout court. In
questo scavo, tuttavia, viene alla luce il processo immanente di realizzazione
selettiva che costituisce il reale, ovvero le istanze da esso divergenti in
quanto incompossibili con la molteplicità delle sue circostanze. In questa
maniera, la realtà del possibile include in sé l’impotenza indeterminata,
l’impotenza che diviene tale solo retroattivamente. L’incompossibile nomina
infatti il processo effettivo di realizzazione del possibile che, nel momento
del suo farsi, nel pieno del suo divenire, include l’esclusione. Ponendosi
quindi al di qua della retroazione (che nomina a ritroso la possibilità esclusa
come impotenza), la realtà del possibile contiene, nello stesso tempo e nello
stesso senso, l’impossibile come realmente possibile e attuale. In questo
senso, la realtà del possibile è propriamente una de-realtà: essa sospende
tutte le posizioni d’essere e la rete di negazioni che esse, nel loro complesso,
dispongono. Includere l’esclusione significa, infatti, escluderla dalla sua
negatività per metterne in rilievo l’affermatività propria. La nozione propria
dell’incompossibile è dunque la realtà del possibile privo di negatività.
È l’affermativa possibilità insurrezionale che sa volere anche l’impossibile.

L’incompossibile come realtà del possibile costituisce il piano di immanenza
come piano del divenire. Ma come accade effettivamente la selezione relazionale?
Come si dirime la realtà del possibile? Come si afferma la possibilità insurrezionale?
Introduciamo alcuni reperti iniziali (nei quali occorre saper individuare
l’incidenza dell’evento sul piano di immanenza, e viceversa): l’esigenza
(la forza del possibile esatto, il suo affetto originario, la spinta dal reale
al possibile; in breve, la vocazione), l’evenienza (l’esposizione integrale
alla propria contingenza, scarto costitutivo di un atto che pone il proprio
non [più] non-potere), la diplopia (la selezione, l’assunzione della
non-potenza correlativa al non non-potere). In linea esemplificativa, si potrebbe
cogliere la seguente dinamica: 1) l’esigenza, in quanto autotrascendimento
potenziale, 2) si attua in un’evenienza, in base alla quale la sua medesima
non possibilità viene esclusa, 3) secondo un processo diplopico che pone anche
una non possibilità a ritroso.

L’identificazione di atto e potenza nell’ontologia modale
ci immette nella nuova terra etica, nel piano di immanenza. In ogni modo,
infine, è solo il modo a potersi fare carico della realtà del possibile.

Cerchiamo quindi di fissare alcuni punti sulla nozione di modo

1)   Il modo è un rapporto. Esso si definisce spinozianamente
come ciò che è in altro e per altro concepito. Questa alterità, tuttavia,
non sussiste se non nel rapporto in cui il modo vi riferisce, è essa stessa
immanente alla relazione. La desostanzializzazione modale coincide con l’affermazione
della costitutiva relazionalità dell’ente.

2)      Ogni rapporto è un rapporto di rapporti. Ogni relazione
è multirelazionale. In questo senso, la nozione modale esprime, nello
stesso tempo, la finitezza dell’ente e l’infinità intensiva che lo costituisce
e lo pone. Si tratta non solo del cattivo infinito di un interminabile differimento
del rinvio, ma soprattutto del suo carattere inclusivo nella relazione finita.
Che tutta la vita accada in ogni punto della vita è l’infinità
inclusa nella prospettiva modale.

3)   Il modo, in quanto relazionalità, esprime un’esteriorità
assoluta
. O, meglio, è espressione in quanto esteriorità assoluta,
in quanto esposizione integrale. Fuori, senza dentro. Esso non ha alcuna
interiorità propria, non ha alcuna proprietà.

4)   Al contempo, esso è intensività, interiorità assoluta.
Dentro, senza fuori.

5)   Il modo, in quanto esteriorità assoluta, è frammentazione.
Partes extra partes.

6)   La multirelazionalità disegna anzitutto una circostanzialità.
Ogni modo ha il suo mondo circostanziale, segnato da inclinazioni e declinazioni
prospettiche.

7)      Nella circostanzialità, il rapporto si definisce quindi
sempre come affetto. L’affetto è l’evento della contingenza, la tonalità
emotiva dell’incontro, il suo disporsi secondo polarizzazioni di attrazione
e repulsione, compatibilità e incompatibilità, affinità e ostilità: in breve,
di simpatia e antipatia.

8)      L’affetto nomina la potenza nella sua dimensione energetica.
Ogni potenza è energetica (energeia) in quanto dinamica (dynamis):
si attualizza in sé in quanto è diveniente. Nel divenire modale, si tratta
sempre di un divenir-forza del modo, di linee di accrescimento e di diminuzione
della potenza.

9)      Eveniente, insorgente, contingente, sempre in fieri,
ogni modo è del e nel divenire.

10)      Pratico, poietico, sperimentale, progettuale, ogni
modo si effettua nel come del suo fare.

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