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Contributo all’aborto di una familiarità fittizia
Contributo all’aborto di una familiarità fittizia 
di Mario Lippolis

[Quella che qui presentiamo è l’introduzione alla raccolta dei
dodici numeri del bollettino centrale dell’IS,  nella traduzione
italiana a cura dello stesso Mario Lippolis:  AA.VV.,
Internazionale Situazionista 1958-1969, Nautilus, Torino, 1994]

1952: «Deliberatamente al di là del gioco limitato
delle forme, la nuova bellezza sarà di situazione»
(G.E. Debord) (1).

1954: «La costruzione di situazioni sarà la
realizzazione continua di un gran gioco deliberatamente scelto; il passaggio
dall’uno all’altro di quegli scenari e di quei conflitti di cui i personaggi di
una tragedia morivano in ventiquattr’ore. Ma il tempo di vivere non mancherà
più»
(Internazionale lettrista) (2).
1958: «Situazione costruita: Momento della vita
concretamente e deliberatamente costruito mediante l’organizzazione collettiva
di un ambiente unitario e di un gioco di eventi.»
(Internazionale
situazionista) (3).
«La formula per
rovesciare il mondo non l’abbiamo cercata sui libri, ma girando»
(4). Con
queste parole, vent’anni dopo, Guy Debord rievoca il periodo, e il metodo, che
portarono alla formazione dell’Internazionale Situazionista. Allusione, certo,
alla «deriva», inaugurata elaborando
in senso ludico-costruttivo e sperimentale un aspetto centrale del modo di
vivere apparso nel quartiere-labirinto di Parigi «dove il punto culminante del tempo era stato scoperto». Ma, più in
generale, allusione al principio di tutti gli essenziali viaggi di scoperta,
intrapresi – in un’epoca «in cui troviamo
così pressanti l’obbligo e la quasi impossibilità di raggiungere, di condurre
un’azione collettiva totalmente innovatrice»
(5) – da alcune persone «di così commovente incapacità», ma
altrettanto inesorabilmente decise a mettere in pratica il detto di Hölderlin: «Se occorre, spezzeremo le nostre lire
infelici e faremo ciò che gli artisti non han fatto altro che sognare!»
(6).
Base di partenza di questi viaggi e di queste
scoperte, la «prodigiosa inattività»
installatasi nel dopoguerra nel quartiere attorno a Saint-Germain-des-Prés,
dove, assieme ai reduci di molti eserciti che si erano appena disputato il
continente, si erano dati convegno i segni precursori del crollo di una
civiltà(7): là dove, dunque, il vuoto prodotto dal gorgo del suo inabissamento
era la prima evidenza vissuta e poteva costituirsi un gruppo umano fondato «sul rifiuto deliberato di ciò che è
universalmente ammesso; e sul disprezzo completo di quello che potrà seguirne»
(8).
Walter Benjamin ha chiarito la differenza profonda tra inattività ed ozio della società
borghese, ha mostrato come la «pigrizia
eroica»
della prima, «fatta di
conoscitori e amatori»
(9), lasci il posto al tempo superficialmente libero dal lavoro capitalistico, ma in
profondità segnato e come predisposto ad esso
, del secondo: tempo di ozio
che è all’origine tanto della produzione artistica della moderna bohème, quanto dell’industria
dell’illusione per il consumo «culturale» che la soppianterà.
Si potrebbe dire che i gruppi da cui prese origine
l’Internazionale Situazionista derivarono il loro vantaggio strategico
dall’aver compiuto, in una fase decisiva di quella trasformazione, il percorso
inverso, con grande tempismo e determinazione: portandovi quella prodigiosa inattività, essi distrussero dall’interno
molti degli aspetti connaturati al lavoro alienato dell’ozio produttivo di
forme di espressione e di rappresentazione estetico-culturale dell’impotenza
della vita pratica
, che il sistema si avviava a mettere direttamente e
massicciamente al proprio servizio; ma, proprio per questo, ne salvarono l’istanza liberamente
inventiva, sperimentale, ludico-costruttiva
, di «provocazione a quel gioco
che è la presenza umana»(10), trasferendola
direttamente sul piano della vita quotidiana
che recalcitra ad essere tale
– cioè privata anzitutto di vita storica – dove il vuoto e l’inattività
potevano subire una trasmutazione in premessa,
ricerca, abbozzo allusivo di un’attività superiore per tutti, non specialistica
né gerarchizzata
.
Questo «buco positivo», prodotto nel delicato tessuto
in formazione delle nuove forme di condizionamento distruttivo dell’attività
umana, di necrotizzazione e sterilizzazione della creatività, permise
all’Internazionale Situazionista di essere non, come tra il nuovo servitorame
intellettuale qualcuno interessatamente vaneggia, il pioniere dell’affermazione
sociale – perfettamente illusoria – dell’odierno pseudolavoro «creativo», ma la
prima forma collettiva e organizzata di
un’astensione positiva dal lavoro «produttore» di spettacolo
. Come avrebbe
potuto altrimenti, dieci anni dopo, essere l’unico gruppo preesistente che
entrasse in risonanza fin dai prodromi con la
più grande astensione dal lavoro, selvaggia e sostanzialmente senza
rivendicazioni
, della storia?
Il fatto, a malapena credibile nell’attuale temperie,
è che i gruppi che sarebbero stati all’origine dell’I.S. avevano deciso fin
dall’inizio che avrebbero «lavorato» davvero solo «alla instaurazione cosciente e collettiva di una nuova civiltà»(11)
,che avesse alla base un’idea di
felicità ben diversa da quella
, prevalente fin dai tempi di Saint Just, dell’abbondanza di mezzi di sopravvivenza;
idea che, comune alle destre e alle sinistre, è responsabile dei fallimenti
della rivoluzione e «ha disfatto il
movimento operaio dei paesi industrializzati»
(12).
Solo quell’idea avrebbe potuto costituire il fulcro
di un progetto rivoluzionario, la stella polare di ogni insurrezione che
concernesse i viventi, «anche se» – proprio perché – essi l’avevano «conosciuta
perdente»(13): l’abbandono e lo scacco
tanto dei tentativi di instaurare la libertà da parte dei movimenti
rivoluzionari nella società e nella cultura dei primi decenni del secolo,
quanto dei tentativi dei primi anni di vita dell’individuo di vivere pienamente
nella serietà del gioco e della creatività senza tempo morto, quale comune
riscatto reclamavano?
La ricerca di una «partecipazione
immediata ad una abbondanza di passioni della vita, attraverso il cambiamento
di momenti deperibili deliberatamente predisposti»
(14): ecco ciò che
guidava le sperimentazioni convergenti
nell’uso e nel rimodellamento del tempo e dello spazio urbani, in funzione di
una società senza classi
, dei delegati (Bernstein e Debord per
l’Internazionale lettrista, Rumney per il Comitato psicogeografico di Londra,
Jorn, Pinot Gallizio, Olmo, Simondo e Verrone per il Movimento Internazionale
per un Bauhaus Immaginista) che il 28 luglio 1957 si ritrovarono a Cosio
d’Arroscia per fondare l’Internazionale Situazionista.
«Avevamo alla
fine incontrato l’oggetto della nostra ricerca? Bisogna credere che l’avessimo
almeno fugacemente intravisto; perché è comunque lampante che da quel momento
ci siamo trovati in grado di comprendere la vita falsa alla luce della vera, e
possessori di un ben strano potere di seduzione: perché nessuno ci ha da allora
avvicinato senza volerci seguire; e dunque avevamo posto mano sul segreto di
dividere ciò che è unito. Quel che avevamo compreso, noi non siamo andati a
dirlo alla televisione. Non abbiamo aspirato ai sussidi della ricerca
scientifica, né agli elogi degli intellettuali da giornale. Noi abbiamo portato
olio là dov’era il fuoco»
(15).
Dove avrebbero trovato il fuoco coloro che si proponevano di realizzare l’arte, oltre
che la filosofia, sul terreno di una vita quotidiana che si ribella ad essere
definitivamente colonizzata
(16) e
non si riconosce nella prosecuzione fittizia di quelle istanze nella cultura
spettacolarizzata?
Già un’ottantina di anni era passata da quando F.
Nietzsche si era domandato con inquietudine a quali effetti avrebbe portato la
repressione, da parte della «pseudocultura
del presente»
(17), di bisogni come quelli che «nel tumultuoso periodo della gioventù» nascono «dalla scoperta dell’ambiguità
dell’esistenza»
, in cui «quasi tutti
gli avvenimenti personali si rispecchiano in una duplice luce, come
esemplificazioni di una realtà quotidiana e al tempo stesso come
esemplificazioni di un problema eterno»
e spingono dunque ad una ricerca
istintiva che nel suo principio è identica a quelle che hanno presieduto
all’arte e alla filosofia. E così descriveva la miseria che da quella
repressione risulta:
«Nessuno dei
giovani più nobilmente dotati è rimasto estraneo a quel bisogno incessante,
logorante, imbarazzante e snervante di cultura: nel tempo in cui è
apparentemente l’unica persona libera in una realtà di impiegati e di
servitori, egli paga quella grandiosa illusione di libertà con tormenti e dubbi
che si rinnovano continuamente. Egli sente di non poter guidare sé stesso, di
non poter aiutare sé stesso: si affaccia allora senza speranze nel mondo
quotidiano e nel lavoro quotidiano. La più banale operosità lo circonda e le
sue membra si afflosciano fiaccamente (…). Lo terrorizza il pensiero di
precipitare così presto in una ristretta e misera specializzazione e cerca ora
di afferrarsi a colonne e punti di appoggio, per non venir trascinato su quella
strada. Invano. Questi appoggi vengono meno, perché i suoi appigli erano falsi
ed egli aveva afferrato fragili canne»
.
Tra i falsi appigli e le fragili canne, un altro
attento nemico della società, che vuole «allevarsi
quanto prima è possibile utili impiegati, e assicurarsi della loro
incondizionata arrendevolezza»
(18), Siegfried Kracauer, annoverava, quasi
cinquant’anni dopo,
«una giovane
intellettualità radicale che attacca il capitalismo in riviste e libri, in una
maniera piuttosto violenta e uniforme. Ad uno sguardo superficiale essa appare
come un serio avversario di tutte le forze che, diversamente da essa, non
cercano di ottenere immediatamente un ordinamento razionale della società
umana. E tuttavia, anche se la sua protesta può essere autentica e spesso anche
feconda, è però troppo facile. Perché di solito si leva contro casi estremi: la
guerra, i madornali errori della giustizia, i tumulti di maggio… senza
considerare la vita normale nel suo inappariscente errore. Non è spinta al gesto della ribellione dalla stessa struttura di questa
esistenza, ma solo ed unicamente da alcune delle sue emanazioni più visibili. E
quindi non tocca interamente il nucleo della realtà data, si limita ai simboli
;
stigmatizza certe degenerazioni vistose e dimentica la serie dei piccoli eventi
di cui si compone la nostra vita sociale normale e di cui quelle degenerazioni
debbono essere considerate come il risultato. Il radicalismo di questi radicali
avrebbe un peso maggiore se penetrasse veramente nella struttura della realtà,
invece di prendere le sue disposizioni dal piano nobile. Come può cambiare la
vita quotidiana, se non la prendono in considerazione neanche coloro che
avrebbero il compito di sommuoverla?»
(19).
Come due coordinate in negativo, queste profetiche
pagine consentono di situare con esattezza, e quasi ne modellano il calco
vuoto, il bacino di influenza dell’Internazionale Situazionista, esse svelano
il perché della forza di infiltrazione – che qualcuno ha paragonato a quella
dell’acqua pesante – di un gruppo così esiguo numericamente, ma che aveva fatto
del qualitativo che scinde «il nucleo
della realtà data»,
la sua force de
frappe
, specie a fronte dello sviluppo quantitativamente considerevole di
una «nuova sinistra» intellettuale di rumorosa quanto inconsistente faciloneria
militante, così simile a quella descritta da Kracauer.
*
«Durante tutti
gli anni che seguirono, vennero individui di venti paesi per entrare in questa
oscura cospirazione dalle esigenze illimitate. Quanti viaggi frettolosi! Quante
lunghe dispute! Quanti incontri clandestini in tutti i porti d’Europa!
«Così fu
tracciato il programma che meglio poteva colpire di
suspicione completa l’insieme della vita sociale: classi e specializzazioni, lavoro e
divertimento, merce e urbanismo, ideologia e Stato, noi abbiamo dimostrato che
tutto era da buttare
. E un simile programma non conteneva nessun’altra
promessa che quella di un’autonomia senza
freni e senza regole
. (…) Esisteva sì allora qualche individuo che si
trovava d’accordo con maggiore e minor conseguenza, sull’una o sull’altra di
queste critiche, ma per riconoscerle tutte non c’era nessuno; e tanto meno per
saperle formulare, e aggiornare. È per questo che nessun altro tentativo
rivoluzionario di questo periodo ha avuto la minima influenza sulla
trasformazione del mondo»
(20).
Ecco perché la trasformazione del mondo che è seguita
ai tentativi rivoluzionari di venticinque anni or sono – che ha come intima ratio quella di renderli non solo
definitivamente irripetibili, ma finanche inconcepibili – fa sì che l’I.S. resti, specie in Italia, in massima
parte sconosciuta
, proprio mentre curiosamente si direbbe che «i
situazionisti» siano in qualche modo famosi. Tanto che noi, giovani di
venticinque anni fa che in quel tempo, certo più permeabile di questo, contro
le difficoltà frapposte dall’ottusità ostile e dalla sottovalutazione
irridente, cercammo di far conoscere – cioè di mettere in pratica, là dove ci
trovavamo e autonomamente – quelle idee, se non conoscessimo le mascherine non
crederemmo letteralmente ai nostri occhi. Mentre allora i fedeli delle varie
menzogne burocratiche concorrenti, dallo stalinismo più o meno togliattizzato al
maoismo più o meno destalinizzato, passando per il populismo più o meno
operaista, cercavano di metterci a tacere come provocatori e invocavano, a
seconda dei rapporti di forza, la chiave inglese o la polizia, oggi non passa
giorno senza che programmisti televisivi, pubblicitari, opinionisti,
intrattenitori, esperti in «tematiche giovanili» e professori della
neouniversità – e non di rado si tratta delle stesse persone di allora salite
sul carro che credono vincitore – facciano mostra di conoscere, usare, approvare
addirittura l’apporto situazionista, e perfino dichiarino di esser stati tali
in gioventù.
«Credono di
poter parlare facendo dimenticare da dove essi parlano, loro, gli inquilini mal
installati del territorio dell’approvazione?»
chiedeva beffardamente G.
Debord negli anni iniziali di questo losco «successo»(21). Anche senza aver
fatto dimenticare da dove parlano, fatto sta che da allora è diventato
impossibile parlare da qualsiasi altro posto, e anche solo far sapere che,
mentre loro parlano, come recita la novella di Pirandello, «c’è qualcuno che
ride».
In ogni caso, oltre a far credere a datori di lavoro
ed «utenti» che nulla, neppure le esperienze più perigliose, eterodosse e meno
catalogabili, sfugge alla loro competenza del tutto presuntiva ed autocertificata
di esperti improvvisati, il messaggio principale che tante vaghe citazioni e
tanti riconoscimenti, per lo più compunti quanto circospetti, comunicano ai
consumatori della parola pubblica monopolizzata è: «I situazionisti sono, per
noi addetti ai lavori, un punto di riferimento abituale, anche se non abbiamo
ritenuto di dovervi abituare i nostri utenti; sono dei classici insomma, così
universalmente noti nella nostra repubblica particolare, così sviscerati,
discussi, giudicati per il loro valore e per i loro limiti, e così bene
assimilati a suo tempo, da poter essere poi tranquillamente riposti – secondo i
rispettivi settori di competenza: tendenze artistiche, filosofiche, politiche,
massmediologiche, giovanili, eccetera – sugli scaffali più alti e meno
accessibili, lontano dalle attuali preoccupazioni, di cui sono al più dei
precorritori. I nostri odierni discorsi ne tengono già conto, ma vanno al di
là, molto oltre; parlarne direttamente è cosa ormai per eruditi, per filologi;
al grosso pubblico basti quel che ne diciamo noi».
Mentre i classici della cultura prespettacolare
poterono per lungo tempo essere conosciuti prima di venire resi incomprensibili
e di essere disinnescati dalla notorietà di sintesi – quando minacciavano di
reagire in modo incontrollato con la vita quotidiana proletarizzata messa a
nudo -, i situazionisti avrebbero così il dubbio privilegio di essere tra i
primi «classici» decretati dalla cultura puramente spettacolare iuxta propria principia, cioè dei classici sostanzialmente segreti da sempre,
per definizione negati alla conoscenza effettiva del pubblico e riservati agli
specialisti: all’inizio ostentatamente ignorati e taciuti, poi falsificati e
resi incomprensibili
(22), e infine
rivestiti d’autorità di una notorietà ufficiale ripugnante, confusionista e
compromettente
.
«Un successo
ufficiale non può essere tributato che a forme di restrizione umana»
,
constatava alla vigilia dell’avventura situazionista un partecipante che per la
sua incoerenza ci ha fatto dimenticare il suo nome: gli specialisti attuali
dell’organizzazione dell’apparenza lo sanno bene per esperienza personale e
credono, tributando ai situazionisti questo successo ufficiale che li
coinvolgerebbe nella loro ignominia, finalmente giunta e definitivamente stabilizzata
l’epoca in cui potersi vendicare dell’esistenza di qualcosa come
l’Internazionale Situazionista e del moto storico cui essa si legò. Era già
noto da tempo che ciò che è familiare non per questo è anche conosciuto, e che
anzi la familiarità può disincentivare la conoscenza proprio in quanto la dia
per acquisita. Ma ci voleva l’attuale
società per produrre industrialmente un effetto di familiarità artificiale al
preciso scopo di impedire la conoscenza
. L’astuzia nel nascondere La lettera rubata del personaggio di
E.A. Poe, collocandola nel luogo più visibile e scontato, è stata
opportunamente messa a frutto e sviluppata dal proliferare di tecniche di guida
dello sguardo: metterla continuamente proprio sotto il naso di ciascuno è il
modo più sicuro perché nessuno, assuefatto e annoiato dall’mpressione di
conoscerla già, la veda veramente, né tanto meno pensi di leggerla.
Nonostante l’I.S., molti han dovuto così attendere
fatti come la guerra del Golfo per accorgersi che la familiarità equivoca che
il sordido «villaggio globale» procurava con azioni e persone fatte rientrare
nel suo cerchio di luce, era inversamente proporzionale alla conoscenza che ne
consentiva, ma se ne sono già dimenticati, sopraffatti da altre urgenti
familiarizzazioni.
L’effetto di familiarizzare gli spettatori con una
cosa come «i situazionisti» è già stato, anche se in ambiti ancora ristretti,
parzialmente raggiunto, e dunque, come tante altre, per gli spettatori
specializzati è d’obbligo fingere di conoscerla. Più che negli showmen che
mentono freddamente quando dichiarano di esser stati tali, nei businessmen della «poesia» che fanno
finta di poterne annoverare qualcuno nei loro lottizzati allestimenti(23) , nei
vecchi gauchistes riciclati che
vorrebbero farli credere semplici precursori delle loro tardive trovate sul
«postindustriale» e il «postmoderno»(24), l’«odore
specifico dello spettacolo»
lo si può avvertire nella «falsificazione ingenua» e nell’«approvazione
incompetente»
(25) di sinceri militanti a corto di militanza, convinti che
«i situazionisti» siano diventati per lo più, nel frattempo, dei pubblicitari,
di benintenzionati professori che li amalgamano ai Lyotard, Baudrillard e altri
consimili apologeti delle tendenze più «attuali», di adepti delle «subculture
giovanili» che li arruolano tra gli specialisti di non si sa quale «guerriglia
mediatica», di speranzosi «artisti» che si iscrivono, ignari, alla loro
«corrente», di intemporali anarchici che li cooptano nelle loro rivolte
cartacee.
Al medesimo effetto deve concorrere un’altra
caratteristica «stranezza»: mentre i «situazionisti» sembrano così noti come
pluralità, di fatto nessuno nomina, al riguardo, gli apporti di Chtcheglov, di
Jorn, di Gallizio, di Constant, di Vaneigem e nei circuiti dell’informazione
ogni pulsazione del macchinario rimette sempre in circolo il nome del solo
Debord. Non però per il ruolo eminente da lui giocato nell’operazione storica
di suscitare e indirizzare l’Internazionale Situazionista, che anzi è messo in
ombra, ma nel tentativo, invero poco convinto oltre che poco convincente, di presentarlo come una vedette tra le altre dell’intellettualità «teorica» di servizio(26): si
lascia intendere, in altre parole, che, per quanto bizzarramente ombroso e
riservato, egli sarebbe un esemplare fra gli altri della fauna che striscia da
un giornale a una TV, che si arrampica da un talk show ad una cattedra, senza far mancare i suoi consigli a
qualche uomo di partito o di sindacato, e che magari pretende di elaborare nel
frattempo la critica dello stato di cose presente, con le sovvenzioni o su
commissione diretta dello Stato. Poiché però nessuno lo ha mai visto o
incontrato in simili luoghi e compagnie, è logico che questa mossetta obbligata
non sortisca grande effetto e che di conseguenza, per chi è fuori della cerchia
ristretta degli addetti ai lavori di alcune specializzazioni – non tutte
culturali o politiche -, la sua stessa esistenza resti un’immagine sfocata, una
semplice ipotesi sgradevole, e non solo nel cinema.
Il fatto è che fra i truccatori di cadaveri della
cultura moderna («La morte ti fa bella!»),
il «grande ispiratore segreto dell’arte
mondiale per una decina d’anni»
, come scrisse Asger Jorn(27), «non è mal conosciuto; è conosciuto come il
male»
. «Non esistono “geni
misconosciuti”, innovatori naturalmente mal conosciuti. Esistono solo coloro
che rifiutano di essere persone conosciute a condizione di sottoporsi al
trucco, in patente disaccordo con ciò che sono in verità. Coloro che non
vogliono lasciarsi manipolare per apparire in pubblico del tutto
irriconoscibili, e per ciò stesso alienati, ridotti allo stato di strumenti
ostili alla propria causa, o impotenti, nella grande commedia umana»
. Da
quando poi, con la fine dell’I.S., Debord si è trovato ad agire e a parlare
solo in prima persona e a dover gestire una notorietà allargata, anche se
«clandestina e cattiva», la sua prima operazione, dichiaratamente, è stata
quella di dimostrare che si poteva farlo fuori e contro tutte le usanze
dominanti in materia. «È noto che questa
società firma una sorta di pace con i suoi nemici più dichiarati, quando fa
loro un posto nel suo spettacolo. Ma io sono precisamente, in questi tempi, il
solo che abbia qualche celebrità, clandestina e cattiva, e che non si sia
riusciti a far apparire su questa scena della rinuncia.»
E «io
troverei altrettanto volgare divenire un’autorità nella contestazione della
società che divenirlo in questa società stessa
»(28).
Si comprenderà perciò facilmente quale improbo lavoro
richieda il confondere le tracce, il citare, ad esempio, gli scritti apparsi
nella veste – apparentemente rassicurante – di semplici Commentari ad una società dello spettacolo che si può lasciar
credere teorizzata da altri e in senso men che radicalmente distruttivo,
badando però a tacere accuratamente la poco promettente stesura di un «rapporto sul proprio tempo» (parole,
azioni, scelte concrete) iniziata col primo volume di Panégyrique; oppure il presentare come antesignano e alfiere dello
strato dei «piccoli agenti specializzati»
nei servizi al sistema produttivo di «gestione,
controllo, manutenzione, ricerca, insegnamento, propaganda, distrazione e
pseudocritica»,
proprio l’autore di una dantesca descrizione della loro
condizione che dovrebbe essere sufficiente, da sola, a spingerli a suicidi di
massa o a jacquerie sanguinose, se
non fossero per lo più «dei salariati
poveri che si credono proprietari, degli ignoranti mistificati che si credono
istruiti, e dei morti che credono di votare»
(29).
*
È dunque proprio per risparmiare a noi tutti
l’impatto ambientale di un «lavoro mentale» di tal fatta; per provocare un po’
di disoccupazione creatrice nei ranghi di ricercatori che, come è stato detto,
si negherebbero come tali – interrompendo il flusso dei finanziamenti – se
trovassero davvero qualcosa, e che pongono perciò dei problemi solo per poterne
trovare degli altri, esattamente come si fabbrica un’automobile solo per
sostituirla con un’altra; è per questi motivi che ci è sembrato un atto dovuto
di disinfestazione elementare tradurre e pubblicare, senza tagli, aggiunte,
commenti e apparati parassitari qualsivoglia, i dodici numeri di Internazionale
Situazionista, in cui è depositata la traccia di per sé eloquente di
un’iniziativa senza eguali in questo mezzo secolo. E, aggiungo – solo per
completare la demoralizzazione di quelli che rimpiangeranno una così bella
occasione di carriera perduta e di quelli che vorrebbero tanto ma non possono
mai fare analoghi gesti di «amore del mondo» – un simile gesto naturalmente non
ci avrebbe attratto tanto se non fosse stato completamente gratuito e privo di
qualunque sovvenzione dall’alto.
Ristabilire
semplicemente ciò che ha veramente detto e fatto l’I.S.
è solo una delle
precondizioni – da cui non ci attendiamo mirabolanti effetti – di un suo buon
uso: siamo ben consci che «tutte le idee
sono vuote quando la grandezza non può più essere incontrata nell’esistenza di
ogni giorno»
(30); ma «è proprio
perché le nostre conoscenze sono in sé banali che possono giovare agli spiriti
che non lo sono»
(31). Il loro uso pieno, e quindi la loro correzione,
rimane sospeso alla grandezza effettiva che una contestazione che risorgesse
apertamente potrebbe imprimere all’esistenza e all’attrazione che sarebbe in
grado di esercitare sugli spiriti non banali.
Interrogandosi nel 1970 sulle ribellioni endemiche di
quegli anni, Hannah Arendt scriveva: «È
verissimo che i disordini nei ghetti e le ribellioni nelle università fanno sì
che gli individui sentono di star agendo
insieme
in maniera che raramente è loro possibile. Non sappiamo se tali
avvenimenti segnino l’avvento di qualcosa di nuovo – il «nuovo esempio»(32) –
oppure siano i sussulti mortali di una facoltà che il genere umano è in
procinto di perdere»
. L’andamento di questi anni successivi ha indotto a
chiedercelo anche noi, che a quelle ribellioni partecipammo e che allora
eravamo assolutamente certi di quale dei due corni dell’alternativa si sarebbe
di lì a poco rivelato vero. Ma, qualunque sia la risposta che le future
ribellioni daranno a questo interrogativo (che è l’unico dei mille interrogativi
di questa fine secolo che abbia davvero senso, perché tutti gli altri vi sono
subordinati), è certo che questo sommamente spiacevole intermezzo, di cui
ancora non si vede la fine, ha dimostrato che non ci sarà risposta positiva che
prescinda dalla riappropriazione del
progetto, consapevole, dichiarato ed organizzato nell’I.S. come in nessun altro
gruppo umano, nel cuore del momento critico precedente
, di dare un nuovo esempio di appropriazione
della propria storia
nel senso, che la Arendt avrebbe potuto sottoscrivere, di «conoscenza e godimento degli avvenimenti
vissuti»
attraverso la «comunicazione
pratica fra coloro che si sono riconosciuti come possessori di un presente
singolare, che hanno provato la ricchezza qualitativa degli avvenimenti come
loro attività e loro stessa dimora.
»(33)
Venticinque anni fa nel nostro paese i più lucidi e i
più coraggiosi si impadronirono giocoforza soprattutto degli esiti, che
sembravano provvisori ma erano finali, dell’offensiva dell’Internazionale
Situazionista; fecero proprie le proposte immediate, insieme allo spirito ed al
tono in cui erano state formulate, in cui essa si traduceva. Dovettero
trascurarne, per il momento, le origini e il tragitto, perdendo molto, quindi,
dello spessore storico concreto della sua iniziativa e della sua direzione
sensibile, oltre ad ignorare la ricchezza dei numerosi progetti parziali che l’I.S., sotto la pressione delle
circostanze ostili, aveva via via dovuto abbandonare lungo il cammino
. Il
repentino cambiamento d’epoca che seguì alla sconfitta, l’incapacità generale a
reinventare quel progetto nei termini della nuova fase – mentre l’I.S. si
rinchiudeva in uno sterile autocompiacimento mitizzante che ne annunciava la
fine – lasciarono loro in mano quella «perfezione» di un momento trascorso
conchiusa in sé e sempre più inutilizzabile e incomunicabile come tale nelle
nuove condizioni. I conati di rivolta delle nuove generazioni degli anni ‘70 ed
‘80 poterono quindi tornare, quasi senza ostacoli, ad imboccare i vecchi sentieri ciechi, separati ed
appaiati, dell’espressione culturale e della gestione politica dell’impotenza e
della protesta contro questa impotenza
(34), forme di rassegnazione
immediata alla propria incapacità anche solo di porsi, fosse pure nella maniera
sommaria e sprovveduta del ‘68 italiano, il problema della appropriazione
totale della propria storia nella soppressione effettiva delle strutture
sociali che la impediscono. Era solo la società costituita a preoccuparsi di
materiare davvero l’anticostruzione di situazioni che impedissero per sempre
all’Europa ogni ritorno al suo passato rivoluzionario.
I sintomi attuali di sgomento incredulo, di
inesprimibile insoddisfazione e di latente rifiuto – anche se ormai quasi
acefali e afoni – di fronte all’accumularsi di disastri di ogni genere, che
discendono dal disastro generale dell’autoperpetuazione senza più oppositori di
una società che si pretende postindustriale, postmoderna ed altri innumerevoli
post, solo per non confessare che è semplicemente postuma; questi sintomi portano
naturalmente alla necessità, per il sistema di menzogne dominante e per i
«conciliatori» con esso, di «trattare» in qualche modo, per renderle
degradabili ed assimilabili dal suo tessuto necrotico, non più le false
opposizioni burocratiche legate agli infami stati «socialisti», ma le sole
critiche reali ed irriducibili che si sono manifestate e che, pur se sconfitte,
non hanno potuto essere compromesse. Ma, anche se mette in scena – diluite in dosi omeopatiche – alcune delle critiche
che gli sono state portate
, lo spettacolo oscurantista di questa notte di
fine millennio, per mantenersi, deve poi soprattutto chiamare
contraddittoriamente a raccolta i morti viventi, che i suoi precedenti
travestimenti modernisti non avevano mai seppellito, di tutte le più arcaiche
nefandezze, dai nazionalismi alle religioni, dagli etnicismi ai naturalismi di
ogni tipo. Altrettanto, ma unitariamente e senza confusione, nel «tempo-ora»
della sua irruzione, la realtà critica
avrà bisogno di tutti i germi di futuro dimenticati nel proprio passato
.
È noto da tempo – per chi ha voluto saperlo – fino a
che punto i tutori del primo proletariato fossero riusciti a tenergli nascosta
l’eredità cruciale della filosofia che Marx gli aveva trasmesso, riuscendo
fraudolentemente a farsi riconoscere come esecutori testamentari di quel
lascito. Oltre a riattualizzare
quell’eredità ormai perduta, l’I.S. ha dimostrato che il nuovo proletariato è
altresì l’erede dell’avventura dell’arte moderna fino al suo autodafé
.
Nonostante che gli scopritori di questa seconda eredità, sia perché ammaestrati
dall’esperienza precedente, sia per la natura stessa del lascito, abbiano preso
precauzioni molto maggiori per impedire il ripetersi di quello storno e
garantirsene la trasmissione; nonostante che gli aspiranti alla tutela del
nuovo proletariato – ai quali la società, che se la è assunta in prima persona,
lascia solo posti di infimo caporalato e di intrattenimento – versino in uno
stato di debilitazione storica rispetto alle precedenti burocrazie operaie; tuttavia,
il consapevole possesso e l’uso anche di questa seconda eredità rischia di
sfuggire al destinatario: la debilitazione storica generale, che non lo ha
risparmiato, ne è il motivo principale, ma la lotta contro il governo dei
ricordi ad opera dei falsari e dei confusionari è appunto un mezzo alla portata
di tutti per combatterla.
Mario Lippolis
febbraio 1993
Note
1. In AA.VV., Fragments de recherche d’un comportement prochain, «Internationale
lettriste» n.2, Parigi.
2. M.Bernstein, A.F.Conord, M.Dahou,
G.E.Debord, J.Fillon, Véra, G.J.Wolman,
«…une idée neuve en Europe», «Potlatch» n.7, 3 agosto 1954, Parigi.
3. Definizioni,
in «Internazionale situazionista» n.1, giugno 1958, Parigi.
4. G.
Debord, In girum imus nocte et consumimur
igni
, film, 1978, Parigi (trad. it. in Opere
cinematografiche complete 1952-1978
, Roma, 1980). Da questo film
autobiografico sono tratte anche, salvo indicazione diversa, le successive
citazioni del medesimo autore relative alla storia dell’I.S.
5. Il détournement
come negazione e come preludio
, «Internazionale situazionista» n.3,
dicembre 1959, Parigi.
6. Lettera a
Neuper
, novembre 1794.
7. Cfr. G. Debord, Panégyrique, Tome premier, 1989, Parigi.
8. G.
Debord, In girum…, op. cit.
9. W. Benjamin, Parigi,
capitale del XIX secolo
, 1986, Torino. «Amateurs
professionels
» era la definizione che Asger Jorn proponeva per sé ed i suoi
compagni di sperimentazioni. E, a proposito delle «sorprese» provocate dalla
guerra, che avevano loro fatto apparire improvvisamente gli choc delle
avanguardie come giochi puerili, racconta questo aneddoto: «Un giovane surrealista, Christian Dotremont,
che aveva passato strane giornate nei sobborghi di Dunkerque, in una taverna
vuota dove giocava a biliardo con se stesso, solo sotto i bombardamenti dell’esercito
inglese, entrando qualche anno più tardi nella sala dell’esposizione
surrealista a Parigi, poteva vedere André Breton che cercava di stupire i
visitatori dell’esposizione giocando da solo ad un tavolo da biliardo.
Era
la fine del surrealismo»
.
(Forme et structure. Sur le culte du
‘nouveau’ dans nôtre siècle
, in Pour
la forme
, Internationale Situationniste, 1958, Parigi).
10. Manifesto,
in «Internazionale Situazionista» n.4, giugno 1960, Parigi.
11. Potlatch,
in «Potlatch» n.1, 22 giugno 1954, Parigi.
12. Il crollo
degli intellettuali rivoluzionari
, in «Internazionale Situazionista» n.2,
dicembre 1958, Parigi.
13. G. Debord, Pour en finir avec le confort nihiliste, in «Internationale
lettriste » n.3, agosto 1953, Parigi.
Vibra nell’idea stessa di
felicità, fa notare W. Benjamin (op. cit.), l’idea di redenzione di ciò che è
già stato nostro e ciò dà ragione della mancanza di invidia del futuro insita
in essa.
14.
G. Debord, Tesi
sulla rivoluzione culturale
, in «Internazionale Situazionista» n.1, giugno
1958, Parigi.
15.
G. Debord, In
girum
…, op. cit.
16.
In questo volume il lettore potrà trovare, ad esempio,
da dove provengano le idee di «colonizzazione della sfera vitale» e di
fuoriuscita dal ventesimo secolo malamente indossato di recente da «pensatori»
con marchio di garanzia statale.
17. Che egli imputava all’atteggiamento contemplativo di fronte alla storia – allo spettacolo
della storia, potremmo dire grazie all’I.S. – della cultura storica di origine hegeliana, alla falsa autonomia «costruita sulla base argillosa dell’odierna cultura liceale», e in
definitiva agli uomini di cultura in tal modo degenerati, «spinti da un’intima disperazione ad una furia ostile nei confronti
della cultura, il cui accesso nessuno aveva voluto mostrar loro»
, fra i
quali «giornalisti e gazzettieri» non erano nemmeno peggiori. (F. Nietzsche, Sull’avvenire delle nostre scuole,
(1872), Milano, 1975).
18.
F. Nietzsche, Ivi.
19. S. Kracauer, Gli
impiegati
, (1930), Torino, 1980.
20.
G. Debord, op. cit.
21.
G. Debord, Confutazione
di tutti i giudizi, tanto ostili che elogiativi, che sono stati finora dati sul
film «La Società
dello Spettacolo»
, film, 1975 (trad. it. in Opere cinematografiche… cit.).
22. Un solo esempio valga per tutti, ma la storia
della ricezione dell’I.S., cui le traduzioni appartengono, sarebbe molto
istruttiva. Un testo chiave per la concezione dell’azione propria dell’I.S.
(L’operazione controsituazionista in vari paesi, n.8, gennaio 1963) che
afferma: «Nous n’organisons que le
détonateur, l’explosion libre devra nous échapper à jamais»
, cioè: «Noi organizziamo solo il detonatore,
l’esplosione libera dovrà sfuggirci definitivamente»
, viene tradotta
dall’«esperta» ufficiale M. Bandini (L’estetico
il politico
, Roma, 1977, p.23) con: «Noi
non organizziamo che il detonatore, l’esplosione libera non dovrà mai
sfuggirci»
! Anche se le parole successive, guarda caso dimenticate dalla
nostra esperta, non aggiungessero: «e
sfuggire a qualsiasi altro controllo»
, una sia pur superficiale scorsa ai
principali testi dell’I.S. che non fosse dettata dallo scopo di far vedere che
li si è letti, ma da quello ormai in disuso, è vero, di capirli, dovrebbe
portare chiunque, anche la persona più ottenebrata dal pensiero politico
dominante dell’ingegneria sociale, a intuire il senso.
23. Cfr. J. Fallisi, Dialogo tra due amici che non dimenticano. A proposito di situazionisti
e «situazionismo», rivolta e recupero
, Nuova Ipazia, Ragusa, 1990.
24. Cfr. R. d’Este, Quando l’oro si trasforma in carbone, in «Invarianti», n.17-18, Estate-Autunno
1991.
25.
G. Debord, op. cit.
26. «Hanno
l’aria di credere, oggi, i piccoli uomini, che io abbia preso le cose per la
teoria, che sia un costruttore di teoria, sapiente architettura che non
resterebbe più che da andare ad abitare dal momento che se ne conosca
l’indirizzo»
(G. Debord, In girum
cit.). Un’eccezione, che è intervenuta nelle more della pubblicazione del
presente volume, è rappresentata dal libro di A. Jappe, Debord, Edizioni Tracce, Pescara, 1993.
27. A.
Jorn, Guy Debord et le problème du maudit
, Prefazione a Contre
le cinéma
, Guy Debord, Institut Scandinave de Vandalisme Comparé, Aarhus,
1964.
28.
G. Debord, op. cit.
29. Ivi.
30. Ivi.
31. R. Vaneigem, Saper
vivere. Trattato ad uso delle giovani generazioni
, (1967), Genova, 1972.
32. H. Arendt si riferisce all’invocazione di un
«nuovo esempio» nel 1968 da parte del cecoslovacco Pavel Kohout affinché «i prossimi mille anni» non diventassero
l’era di «un uomo ridotto a pollo o a
topo»
dominato da un’«élite» che deriva il suo potere «dai sapienti consigli di… aiutanti intellettuali» che di fatto
credono che gli uomini nei think tanks
siano pensatori e che i computer possono pensare” (Sulla violenza, Milano, 1971).
33.
G. Debord, La
società dello spettacolo
, (1967), Firenze, 1979.
34. Come se non fosse mai esistita la dimostrazione,
data dall’I.S., della ormai radicale inadeguatezza di ogni forma culturale in
quanto mera espressione, come di ogni forma politica in quanto mera gestione,
al movimento che sorge direttamente dalla possibilità di abolire
quell’impotenza realizzando, in tutti gli aspetti dell’esistenza effettiva,
quel dialogo tra desideri, pensieri ed azioni che cultura e politica si erano
per lo più limitati a rappresentare. Per questo il movimento italiano del ‘77 non
trovò ad interpretarlo che un patetico «mao-dadaismo», somma di due
arretratezze studentesche
, che a buon diritto oggi può rivendicare la
primogenitura rispetto alle attuali debolezze di pensiero e trasversalità
dell’inazione.

 

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