untori
Glosse a René Girard: Alle origini della storia: la violenza e il sacro

Il tempo è un bimbo che gioca, con le tessere di una
scacchiera: di un bimbo è il regno

(Eraclito DK 52 – Diano)

Il tempo è un fanciullo che giuoca spostando
i dadi: il regno di un fanciullo

(Giannantoni)

L’eternità è un fanciullo che gioca, muovendo
i pezzi sulla scacchiera: di un fanciullo è il regno

(Tonelli)

La vita è un fanciullo che gioca, che sposta
i pezzi sulla scacchiera: reggimento di un fanciullo

(Colli)

Alle origini della storia: la genesi della cultura

Ecco i “capisaldi” della nostra metafisica critica:

In principio è il misconoscimento (della violenza).

Noi viviamo nella finzione, della finzione e per la
finzione.

Noi veniamo dalla finzione.

Per una definizione del termine “finzione”: possiamo pensarlo
come “pre-disposizione alla modificazione immaginativa” (che è il presupposto
di ogni presupposto). Girard come pensatore di questo “archi-presupposto”
sub specie imitationis.

1/ L’UOMO E L’ANIMALE: COSTRUZIONE DI UNA MACCHINA ANTROPOGENETICA (elementi
di antropologia).

Non intendono come da sé discordando con se
stesso concordi
(Eraclito
DK 51 – Diano).

Non comprendono come, pur discordando in se
stesso, è concorde: armonia contrastante, come quella dell’arco e della lira
(Giannantoni).

Non comprendono come distinguendosi da se stesso,
con se stesso concordi
(Tonelli).

Immaginiamo di stare sulla soglia di quella configurazione del tempo
che chiamiamo storia. Che cosa troviamo sulla soglia della storia?
Troviamo un animale che ha presto di trascendere in qualche modo la propria
animalità: quello strano animale a cui siamo soliti dare il nome di uomo.

Alle origini della storia incontriamo il problema della differenziazione
dell’uomo dall’animale. Per noi, figli delle scienze umane, la differenza
tra uomo e animale è qualcosa di ovvio: si tratta di una distinzione apparentemente
evidente. E tuttavia, come ricordava Agamben in un libro recente, fino al
Settecento “i confini dell’umano sono assai più incerti e fluttuanti di quanto
appariranno nel XIX secolo” (L’aperto, p. 31). Si pensi alla difficoltà
incontrata dal grande naturalista Linneo nello stabilire la specificità dell’uomo
per distinguerlo dalle scimmie antropomorfe. Linneo confessava di non riuscire
“a trovare altro carattere che lo distingue dalle scimmie se non il fatto
che queste ultime hanno uno spazio vuoto fra i canini e gli altri denti” (ibidem).
Perciò ricorrerà all’imperativo nosce te ipsum, che verrà condensato
infine nell’aggettivo sapiens. Come dire: “l’uomo non ha nessuna identità
specifica, se non quella di potersi riconoscere … l’uomo è l’animale
che deve riconoscersi umano per esserlo
” (p. 33).

Problema della differenza tra uomo e animale è strettamente connesso (in
parte sovrapposto) con il problema della genesi della cultura, se è vero,
come è emerso dall’antropologia, che ciò che contraddistingue biologicamente
la specie umana è proprio la capacità di creare la cultura, anche se questa
viene tramandata socialmente e non per mezzo di geni. Ricordiamo a questo
proposito la celebre definizione di cultura proposta dall’antropologo
inglese Edward Burnett Tylor (1832-1917) (La cultura primitiva, 1871):
“quell’insieme complesso, quella totalità che comprende la conoscenza, le
credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità
e abitudine, acquisita dall’uomo in quanto membro di una società”.

Che cos’è l’uomo? Si citano di solito due sentenze aristoteliche, che gli
ingenui pretendono di spacciare per delle “risposte” alla nostra domanda,
quando si tratta invece di ulteriori domande. Leggiamo nella Politica:
“l’uomo è per natura animale politico”, in quanto “la natura non fa niente
senza scopo e l’uomo, solo tra gli animali, ha la parola [logon]” (Pol.
I, 2, 1253a).

“Ora gli altri animali vivono essenzialmente guidati da natura,
taluni, ma entro limiti ristretti, anche dall’abitudine, e l’uomo pure dalla
ragione perché egli solo possiede la ragione: di conseguenza in lui questi
tre fattori devono consonare l’uno con l’altro. Spesso gli uomini agiscono
contro le abitudini e la natura proprio in forza della ragione, se sono convinti
che sia preferibile agire diversamente” (Pol. VII, 13, 1332b).

Già, l’uomo è l’animale che ha il linguaggio. Ma se un
bambino non sente parlare, non parla, come testimoniato dagli enfants sauvages
che vennero ritrovati nel Settecento. “Nel punto in cui le scienze dell’uomo
cominciano a delineare i contorni della sua facies, gli enfants
sauvages
, che appaiono sempre più spesso ai limiti dei villaggi d’Europa,
sono i messaggeri dell’inumanità dell’uomo, i testimoni della sua fragile
identità e della sua mancanza di un volto proprio. E la passione con cui gli
uomini dell’Ancien régime, di fronte a questi esseri muti e incerti, provano
a riconoscersi in essi e a “umanizzarli” mostra fino a che punto essi siano
coscienti della precarietà dell’umano” (L’aperto, p. 36).

In breve, “non esiste una cosa come una natura umana indipendentemente
dalla cultura” (Geertz, Interpretazione di culture, p. 63); ne consegue
che “senza uomini certamente non c’è cultura; ma allo stesso modo, e cosa
più importante, senza cultura non ci sarebbero uomini” (ibidem, p.64).

Per capire in che cosa consista la specificità dell’umano dobbiamo forse
porre la domanda non nei termini definitori tradizionali (che cos’è l’uomo),
bensì in modo meno astratto: in virtù di che cosa l’uomo diviene uomo,
si riconosce uomo e quindi afferma la propria diversità dall’animale? Scrive
Aristotele nella Poetica: “L’uomo si differenzia dagli altri animali
in quanto è il più adatto all’imitazione”.

Astrazioni filosofiche

Girard denuncia con chiarezza i limiti della concezione astratta
che Platone e Aristotele avevano della mimesis. Platone assegna all’imitazione
un ruolo decisivo all’interno della sua teoria politica, ma insiste unilateralmente
(e astrattamente) sul nesso tra imitazione e rappresentazione, trascurando completamente
il nesso imitazione/ appropriazione, ovvero il senso acquisitivo (e non
solo rappresentativo) della mimesis! “È Platone che ha determinato una
volta per tutte la problematica culturale dell’imitazione ed è una problematica
mutila, amputata di una dimensione essenziale, la dimensione acquisitiva che
è anche la dimensione conflittuale” (Choses 23).

Il segreto dell’umano va ricercato nell’eccezionale capacità mimetica/imitativa
dell’uomo. Il giovane Nietzsche ha sviluppato questa intuizione in un saggio
mirabile: Su verità e menzogna in senso extramorale (del 1874).

Sulla scia di Nietzsche e soprattutto di Flaubert, Jules de Gaultier ha individuato
il contrassegno dell’umano nella facoltà di credersi diversi da ciò che
si è
. Possiamo mettere in relazione questa concezione con la proposta
dell’antropologo tedesco Arnold Gehlen (1904-1976) di considerare l’uomo come
“essere incompiuto”, fallibile, esposto al rischio del futuro e quindi bisognoso
di strutturarsi, di disciplinarsi. L’insieme di strutture che rispondono alla
incompletezza umana è costituito dalla cultura, che ha la funzione di una
“seconda natura” (cfr. anche la categoria della Entlastung/esonero
come funzione specificamente umana che permette di allontanarsi dall’immediata
pressione delle pulsioni e di mantenere le cose a distanza mediante l’uso
di simboli. Cfr. Immunitas, p. 122 ss.).

Che cosa imita e come imita l’uomo? Vediamo di capirci: o presupponiamo la
mimesi come un dato originario, oppure tentiamo di chiarirne il funzionamento.

Per una critica dell’individualismo
moderno
(e romantico) e del principium individuationis. Eraclito:
individualismo è idiotismo di massa (frammento DK 2: perciò bisogna seguire
ciò che è comune: il logos è comune, ma i più vivono come avendo ciascuno
una propria mente). “L’individualità del più individuo in apparenza non è
mai più problematica che nel momento in cui crede di imporsi e verificarsi
meglio, nell’opposizione violenta a un altro che, in fin dei conti,
si rivela sempre essere lo stesso” (VS 281). Ma si veda anche la tesi
lacaniana del primato dell’ordine simbolico: “Tutti gli esseri umani partecipano
all’universo dei simboli, vi sono inclusi e lo subiscono molto più che non
lo costituiscano, ne sono molto più i supporti che gli agenti” (da Gli
scritti tecnici di Freud
). Come “ciò che parla”, l’inconscio non può fare
a meno di assumere la forma di un discorso o di un messaggio proveniente da
altrove, il “discorso dell’Altro”. L’Altro coincide con l’ordine simbolico,
l’intersoggettività, ma anche la Madre, il Padre: insomma l’Altro coincide
con la struttura dell’alterità che ha forme diverse a seconda dei contesti.
“L’uomo è parlato”. “Penso dove non sono, dunque sono dove non penso”.

2/ DESIDERIO MIMETICO E VIOLENZA

Il conflitto è padre di tutte le cose e di
tutte è re: e gli uni fece dei, gli altri uomini: gli uni servi, gli altri
liberi
(Eraclito DK 53 –
Diano)
.

Polemos di tutte le cose è padre, di tutto
poi è re; e gli uni manifesta come dèi, gli altri invece come uomini; gli
uni fa esistere come schiavi, gli altri invece come liberi
(Colli).

Frammento 85: Contro il desiderio è difficile combattere: a prezzo dell’anima acquista
ciò che vuole
(Tonelli).
Contro la brama della passione è arduo combattere:
qualsiasi cosa voglia, difatti, essa è disposta a pagarla con l’anima
(Colli).

Frammento 43: Occore spegnere la superbia, più della vampa che incendia (Tonelli).

È merito di René Girard l’aver delineato una antropologia fondamentale incentrata
sul meccanismo mimetico: con questa espressione ci riferiremo d’ora
in poi ad un processo articolato in diversi momenti. Il punto di partenza
è il desiderio mimetico, che si trasforma quindi in rivalità mimetica, arriva
ad un momento di culmine nella crisi mimetica e si risolve infine attraverso
il capro espiatorio.

Attraverso la lettura dei grandi romanzieri europei (da Cervantes a Proust
passando per Stendhal, Flaubert e Dostoevskij), Girard giunge alla scoperta
del carattere mimetico del desiderio.

“All’origine di un desiderio vi è sempre, diciamo, lo spettacolo
di un altro desiderio, reale o illusorio che sia” (Menzogna p. 92).

“Non esiste desiderio autentico, e ogni desiderio è mediato
da altri” (Origine p. 30).

“Essendo, per sua natura, il desiderio sempre imitativo,
il soggetto desidererà lo stesso oggetto posseduto o desiderato dal suo modello”
(Origine della cultura, p. 31-32).

A riprova di questa tesi si pensi al decalogo biblico, in particolare all’ultimo
comandamento: “Non desiderare la casa del tuo prossimo, non desiderare la
moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue,
né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo” (Es 20,
17). Nota in proposito Girard: “Il desiderio è già definito in termini mimetici
nei dieci comandamenti” (Origine 35).

L’uomo è l’animale che imita il desiderio altrui, assumendo
l’altro come modello. Inevitabilmente il modello si trasformerà in
ostacolo, e quindi il rapporto tra soggetto e modello non potrà che
configurarsi come rapporto conflittuale: come rivalità mimetica.

Rivalità mimetica significa conflitto. Il conflitto genera violenza e la
violenza è contagiosa. Il contagio della violenza dilaga ovunque, si propaga
con una forza irresistibile, sfugge ad ogni controllo da parte dell’uomo.
Il contagio della violenza si autoalimenta e trascina la comunità verso il
proprio annientamento. A meno che non si riesca a trovare un rimedio efficace,
un antidoto al contagio micidiale della violenza.

“Bisogna porre il mimetico e la violenza all’origine di tutto”
(Choses 29).

“La mimesi di appropriazione è all’origine di tutto […]
Non c’è divieto che non si riduca al conflitto mimetico” (Choses 33).

“I divieti e i riti si possono tutti ricondurre al conflitto
mimetico” (Choses 38).

Ecco, possiamo dire che la soglia di ominizzazione (non “la nascita dell’essere
umano”, ma il divenire umano dell’animale uomo), la nascita della cultura
(di ogni cultura) coincide con l’invenzione di un dispositivo efficace capace
di far uscire la comunità dalla crisi mimetica.

“Bisognerebbe riconoscere che il misconoscimento è in ogni dove,
che la violenza è dappertutto, che essa non è vinta per il semplice fatto
che noi ne individuiamo più o meno bene il gioco” (VS 281).

3/ IL SACRIFICIO COME DISPOSITIVO ORIGINARIO

L’Origine ama nascondersi (Eraclito, fr. 123 – Tonelli).

Notazione su Girard: per lui vale quel che si dice in una parabola del rabbino
che anche in paradiso passa il suo tempo a studiare…ma adesso capisce quello
che legge. Ecco: alla luce dell’ipotesi di Girard finalmente la tradizione
millenaria della civiltà umana risulta pienamente comprensibile!

Che cos’è la cultura? La cultura è l’insieme dei dispositivi che regolano
(disciplinano) i processi mimetici che rendono possibile la vita umana: i
divieti, i riti, i miti, la religione.

L’ipotesi di Freud. In un libro
pubblicato nel 1913, con il titolo Totem e tabù, Freud tenta di fare
luce intorno alla genesi del totemismo inteso come il sistema simbolico, il
modello culturale più antico di cui si abbia conoscenza. Per indagare le origini
del totemismo è necessario focalizzare l’attenzione su quel divieto originario
che segna il passaggio dalla natura alla cultura: la proibizione dell’incesto
con la conseguente istituzione della esogamia. (Sulla proibizione dell’incesto
come momento fondamentale nel passaggio da natura a cultura cfr. Lévi-Strauss,
Les structures élémentaires de la parenté, 1949). Secondo Freud il
totemismo deriva dalla divinizzazione del Padre da parte dei figli, ovvero
dei fratelli che lo assassinarono. A causa del senso di colpa seguito all’assassinio
del Padre-padrone, i figli inoltre si vietano le madri e le donne del proprio
gruppo, istituendo l’esogamia attraverso l’interdizione dell’incesto.

La critica di Girard a Freud

Secondo Girard
è certamente corretto ravvisare l’origine del totemismo (e quindi della religione)
in una violenza unanime che si scarica in un assassinio collettivo.

“Freud fa una formidabile scoperta; per primo egli afferma
che ogni pratica rituale, ogni significato mitico ha la sua origine in un’uccisione
reale” (VS 277).

Ma questo evento originario non va ricondotto, seguendo dogmaticamente lo
schema edipico, al contesto familiare e quindi alla ambivalenza dei rapporti
tra il figlio e il padre. Freud intuisce la verità, ma la misconosce e la
occulta al tempo stesso, in quanto seppellisce tale intuizione sotto l’assunzione
dogmatica del complesso edipico.

“L’ostacolo principale è innanzitutto il significato paterno
che viene a contaminare la scoperta essenziale, e che trasforma l’uccisione
collettiva in parricidio” (VS 290).

Insomma, l’accento va spostato dal conflitto con il Padre alla rivalità tra
fratelli nemici. Il punto essenziale non è l’invidia nei confronti del Padre
(il che implica tutta una serie di presupposti psicanalitici intorno all’ambivalenza,
alle pulsioni, alle rimozioni e poi al senso di colpa ecc.). Il punto essenziale
è la rivalità mimetica tra fratelli alimentata in particolare dal desiderio
sessuale, che inevitabilmente finisce per rivolgersi sulle donne più vicine:

“Non perché siano intrinsecamente più desiderabili, le ‘madri’
e le ‘sorelle’ provocano la rivalità: è semplicemente perché ci sono. Il desiderio
non ha più alcun oggetto privilegiato” (VS 291).

Evidentemente, a questo punto, se riusciamo a liberarci da quella idealizzazione
della figura paterna che pregiudicò la ricerca freudiana, possiamo dire con
Girard: “tutto accade, ormai, come se non vi fosse mai stato un padre
(VS 292).

“Il padre non spiega nulla: per spiegare tutto, bisogna sbarazzarsi
del padre, mostrare che la formidabile impressione fatta sulla comunità dall’uccisione
collettiva non è legata all’identità della vittima ma al fatto che tale vittima
è unificatrice, all’unanimità ritrovata contro tale vittima e intorno a essa”
(VS 294).

Ricapitolando: il desiderio mimetico genera conflitto, in quanto il soggetto
e il modello entrano in un rapporto di rivalità mimetica. Tale rivalità è
contagiosa e rischia di travolgere l’intera comunità in una spirale di reciprocità
violenza o di violenza reciproca. “A questo punto è necessario fermare la
crisi e salvare la comunità dall’autodistruzione. La forma di riappacificazione
più efficace è far convergere la furia collettiva su di una sola vittima scelta
a caso: il capro espiatorio” (Origine, p.36). “Funzione del sacrificio
è quella di placare le violenze intestine, di impedire lo scoppio dei conflitti”
(VS 30). Come è noto, “il sacrificio è una violenza senza rischio di vendetta”
(VS 29).

Troviamo innumerevoli conferme all’ipotesi di Girard:

* nei riti: il rito è messinscena della crisi mimetica, violazione
controllata dei divieti, in modo da trasformare la violenza (ad esempio quella
violenza estrema che è l’uccisione di un nemico o la morte di un membro della
tribù) da malefica in benefica. “I riti consistono nel trasformare, paradossalmente,
in atto di collaborazione sociale la disgregazione conflittuale della comunità”
(Choses 37). In altre parole, il rituale è l’altra faccia del divieto,
del tabù: il divieto, per scongiurare una nuova crisi, ordina di astenersi da
ogni mimetismo, da ogni contatto con gli antagonisti di poco prima, da ogni
gesto di appropriazione di oggetti che sono serviti da pretesto alla rivalità;
l’imperativo del rituale invece consiste nel rifare l’evento miracoloso che
ha posto fine alla crisi, immolando nuove vittime sostituite alla vittima originaria.

Notiamo di passaggio che l’arte arcaica (la danza, il canto,
il teatro) si è sviluppata proprio dai riti (ad es. la tragedia greca nasce
dal culto dionisiaco).

Si vedano i culti totemici descritti da Freud (e anche i riti descritti
nel II capitolo di Totem e tabù, riguardanti i nemici, i signori e
i morti). I riti funebri hanno lo scopo di purificare i vivi dal contagio
della violenza malefica, posto che la morte è la peggiore violenza che possa
subire un essere vivente. “Quali che siano le cause e le circostanze della
sua morte, colui che muore si trova sempre, di fronte all’intera comunità,
in un rapporto analogo a quello della vittima espiatoria” (VS 354). E la morte
della  vittima espiatoria rende possibile la rinascita alla fecondità di un
ordine culturale nuovo o rinnovato.

L’aspetto che più ci interessa è il nesso tra rito e sacrificio: la conclusione
dei riti consiste generalmente nella immolazione di una vittima animale o
umana, dove “all’opposizione di ciascuno contro ciascuno subentra bruscamente
l’opposizione di tutti contro uno” (Choses 41).

I riti relativi alla regalità, al potere sovrano vanno anch’essi ricondotti
al sacrificio e al meccanismo vittimario: le regole della “intronizzazione
regale” mirano a fare del re una vittima capace di incanalare l’antagonismo
mimetico. “Il re inizialmente è solo una vittima la cui immolazione è rinviata”
(72-73). Di qui il carattere sacro del re: il monarca non è altro che
la vittima non ancora sacrificata (mentre nella divinità riconosciamo la divinizzazione
della vittima già sacrificata, già espulsa fuori della comunità). 

Circa la prossimità tra homo sacer e sovrano cfr. Agamben, Homo
sacer
, II parte.

* nei miti: mito di
Dioniso

* nella tragedia: Edipo
re
, Baccanti,

* nella filosofia: la
condanna a morte di Socrate da parte del tribunale di Atene.

* nella Bibbia: peculiarità
dell’ebraismo è di avere rovesciato il misconoscimento sacrificale denunciando
l’innocenza delle vittime espiatorie, assumendo in certo modo il punto di vista
della vittima. I Vangeli radicalizzano questa demistificazione, che culmina
con la passione e la crocifissione di Gesù.

* nel diritto e nella
politica moderna: riferimento all’istituto della sacratio
nell’interpretazione di Agamben.

Misconoscimento.

L’ipotesi di Girard ci costringe a ripensare la storia in termini di misconoscimento
della funzione del religioso e del meccanismo vittimario.

“La presenza del religioso all’origine di tutte le società
umane è un fatto indubitabile e fondamentale. Di tutte le istituzioni sociali,
il religioso è la sola cui la scienza non sia mai riuscita ad attribuire un
oggetto reale, un’autentica funzione. Noi quindi affermiamo che il religioso
ha come oggetto il meccanismo della vittima espiatoria; la sua funzione consiste
nel perpetuare o nel rinnovare gli effetti di quel meccanismo, ossia nel mantenere
la violenza fuori dalla comunità” (VS 134-35).

Il sacro è la violenza, ma se il religioso adora la
violenza è sempre in quanto essa passa per apportatrice di pace; il religioso
è tutto orientato verso la pace ma i mezzi di questa pace non sono mai privi
di violenza sacrificale (Choses 50).

“Il meccanismo della vittima espiatoria deve ormai apparirci
come essenzialmente responsabile del fatto che esiste quella cosa che si chiama
umanità. Sappiamo, ormai, che nella vita animale la violenza è fornita di
freni individuali. Gli animali di una stessa specie non lottano mai a morte;
il vincitore risparmia il vinto. La specie umana è priva di tale protezione.
Al meccanismo biologico individuale viene a sostituirsi il meccanismo collettivo
e culturale della vittima espiatoria. Non vi è società senza religione perché
senza religione non sarebbe possibile nessuna società” (VS 304).

“La tesi qui difesa, il meccanismo della vittima espiatoria,
non è un’idea più o meno buona, è la vera origine di tutto il religioso e
dei divieti dell’incesto” (VS 298).

Ricapitolazione, corollari, conclusione

“Demone a ciascuno è il suo modo d’essere”
(Eraclito, fr. 119 – Diano).

“La propria qualità interiore, per l’uomo,
è un demone”
(Colli).

“Demone all’uomo l’indole” (Tonelli).

“L’ethos, la dimora abituale, è, per l’uomo,
ciò che lacera e divide”
(Agamben).

Trastulli di bimbi sono le credenze degli uomini
(Eraclito DK 70)

È opportuno ricapitolare il cammino che abbiamo percorso, in forma di tesi
e di corollari sui quali aprire la discussione.

A proposito di CULTURA.

In un libro del 1952 (Cultura. Una rassegna critica dei concetti e delle
definizioni
) gli antropologi statunitensi Clyde Kluckhohn (1905-1960)
e Alfred L. Kroeber (1876-1960) hanno raccolto più di duecento definizioni
diverse del concetto di cultura. La cultura come modo di vivere, eredità sociale,
astrazione derivata dal comportamento, deposito del sapere collettivo, mappa,
filtro, matrice… Per cultura intendiamo generalmente, sulla scorta di Tylor,
“l’insieme complesso che include le conoscenze, le credenze, l’arte, la morale,
il diritto e il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall’uomo
come membro di una società”, ma potremmo definirla con Róheim come “la somma
di tutte le sublimazioni, di tutti i sostituti, o formazioni reattive, che
nella società inibiscono gli impulsi o consentono loro una soddisfazione distorta”
(L’enigma della sfinge, 1934).

Clifford Geertz (n. 1926) propone una definizione della cultura
in termini semiotici come testo, ossia come un complesso di simboli
significanti che i soggetti, comunicando, interpretano contestualmente alla
situazione in cui tali simboli vengono utilizzati. La  cultura è “un sistema
regolato di significati e di simboli nei cui termini gli individui definiscono
il loro mondo, esprimono i loro sentimenti e formulano i loro giudizi” (Interpretazione
di culture
, p. 87). Nota Geertz: “Non diretto da modelli culturali – sistemi
organizzati di simboli significanti – il comportamento dell’uomo sarebbe praticamente
ingovernabile, un puro caos di azioni senza scopo e di emozioni in tumulto,
e la sua esperienza sarebbe praticamente informe. La cultura, la totalità
accumulata di questi modelli, non è un ornamento dell’esistenza umana ma la
base principale della sua specificità, una condizione essenziale per essa”
(Interpretazione di culture, p. 60).

Comunque si voglia definire la cultura, è innegabile che essa presuppone
la capacità di apprendimento dell’uomo. La cultura (gr. paidéia, lat.
humanitas) presuppone l’imitazione di modelli attraverso l’educazione
(o formazione).

Kultur e Zivilisation.
Dall’illuminismo tedesco deriva l’opposizione tra Kultur (l’espressione
della natura umana) e Zivilisation (un complesso di norme e di valori
soprattutto esteriori e convenzionali). Sia in Spengler che in Th. Mann si
ravvisa nella Zivilisation il momento culminante, ma anche irrigidito,
artificioso e prossimo alla decadenza, di un ciclo di Kultur.

The Superorganic
(1917) è il titolo dell’opera più famosa di Kroeber: la cultura, intesa come
l’insieme delle pratiche possibili esercitate dagli individui in quanto membri
di un gruppo sociale, è tale che non può essere considerata come appartenente
a o derivante da altri ordini del reale. L’ordine dei fenomeni
culturali è di natura “superorganica”, irriducibile cioè all’ordine dei fenomeni
biologici: i fenomeni culturali quindi sono spiegabili solo sulla base di
altri fenomeni culturali; appartenenti cioè allo stesso livello di intelligibilità
(il Superorganico include tutti i livelli sottostanti, biologici, fisiologici,
psicologici, ma non può essere ridotto a nessuno di questi).

* le coordinate fondamentali della
cultura ossia dello spazio antropico: desiderio, immaginazione e violenza;

* i dispositivi originari: eccezione
e oggettivazione;

* il paradigma immunitario (riferimento
a Esposito);

“Attraverso la protezione immunitaria la vita combatte ciò
che la nega, ma secondo una strategia che non è quella della contrapposizione
frontale, bensì dell’aggiramento e della neutralizzazione. Il male va contrastato
– ma non tenendolo lontano dai propri confini. Al contrario includendolo all’interno
di essi. La figura dialettica che così si delinea è quella di un’inclusione
escludente o di un’esclusione mediante inclusione. Il veleno è vinto dall’organismo
non quando è espulso al suo esterno, ma quando in qualche modo viene a far
parte di esso. Lo si diceva: più che a un’affermazione, la logica immunitaria
rimanda a una non-negazione, alla negazione di una negazione. Il negativo
non soltanto sopravvive alla sua cura, ma ne costituisce la condizione di
efficacia (Immunitas, p.10-11).

* la violenza è la “cosa” di religione
e politica; in ultima istanza religione e politica mirano sempre a placare la
violenza, a impedirle di scatenarsi;

* ripensare il desiderio al di là
del platonismo (desiderio e trascendenza): cenno al discorso di Diotima nel
Simposio;

La storia come espiazione
e l’esigenza messianica di redenzione.

Leggiamo il frammento di Anassimandro.

“Da dove infatti gli esseri hanno l’origine, ivi hanno anche
la distruzione secondo necessità: poiché essi pagano l’uno all’altro la pena
e l’espiazione dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo” (R. Laurenti).

(ex hōn dè hē génesis esti tois ousi, kaì tēn
phthoràn eis tauta ghínesthai katà tò chreōn: didónai gàr autà díkēn
kaì tísin allēlois tēs adikías katà tēn tou Chrónou táxin)

Trad. Colli: “Le cose fuori da cui è il nascimento alle cose
che sono, peraltro, sono quelle verso cui si sviluppa anche la rovina, secondo
ciò che deve essere: le cose che sono, difatti, subiscono l’una dall’altra
punizione e vendetta per la loro ingiustizia, secondo il decreto del Tempo”.

Siamo destinati a rimanere imprigionati nella storia intesa come espiazione
di una colpevolezza originaria? Oppure possiamo spezzare il cerchio magico
dell’ingiustizia, liberandoci dall’eterno ritorno della punizione e della
vendetta?

Ripensiamo alla citazione eraclitea da cui siamo partiti: Il tempo è un
bimbo che gioca, con le tessere di una scacchiera: di un bimbo è il regno
 (Eraclito DK 52 – Diano).

Comments are closed.