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Contro la scuola e l’università

– Prolegomeni ad una critica pratica del carcere scolastico –

 

 

Va innanzitutto chiarito che queste note non hanno
alcuna pretesa di esaustività. Scritte in forma sintetica e apodittica, esse
non sono che un canovaccio, un programma di lavoro che dovrà essere
necessariamente sviluppato, approfondito e sottoposto a verifica.

Il punto di partenza del nostro discorso è la banale
constatazione che la scuola – al
pari del lavoro, della famiglia, dei centri di distribuzione e consumo, delle
prigioni, degli ospedali etc., così come di ciascuna delle ideologie che ne
giustificano l’esistenza – è elemento
integrante
di quell’immenso carcere
a cielo aperto che va sotto il nome di società
. Per "società"
intendiamo una totalità complessa di attività e di relazioni inter-umane, che,
in quanto separate dagli individui – dai loro desideri e aspirazioni – si erge
innanzi ad essi come un potere estraneo, vieppiù incomprensibile e
incontrollabile. (Fatto, questo, che ha come conseguenza non secondaria e certo
non meno nefasta di altre, il proliferare di esperti di ogni tipo – politici, preti, sindacalisti, medici,
sbirri, scienziati, giornalisti etc. – che millantano questa comprensione e
capacità di controllo, e ai quali veniamo invitatati a rivolgerci, per
risolvere i nostri problemi e placare le nostre inquietudini).

 

Le istituzioni preposte alla formazione sono dunque,
innanzitutto, luoghi di disciplinamento
e di definizione dei ruoli e delle gerarchie sociali
.

 

Nelle scuole e nelle università, esseri umani in
giovanissima età, prima obbligati dalla famiglia e dallo Stato, poi
eventualmente per "scelta" – sempre e comunque previa la rinuncia a vivere e godere qui ed ora,
in nome di un futuro che riserverà loro soltanto alienazione e sfruttamento –
sono sottoposti ad un’attività insensata
e coatta
, all’autoritarismo degli insegnanti (che, volenti o nolenti, si
devono adeguare ai crismi connaturati al loro ruolo), all’umiliazione di prove,
esami, voti etc. Sono, in altre parole, privati
di ogni residua vitalità e autonomia individuale
.

 

Là dove non arriva la famiglia, arriva la scuola…

 

La stessa noia, coazione, e senso di umiliazione,
d’altronde, li si può ritrovare negli insegnanti, sebbene le ragioni reali
della loro insoddisfazione – la non-vita
scolastica e sociale
– vengano per lo più rivestite di una serie di
lagnanze e razionalizzazioni ormai consunte dal troppo uso: "i ragazzi non
si impegnano", "la scuola non funziona", "le famiglie non
collaborano", "le nuove generazioni sono inebetite dalla
televisione", etc. Tutte affermazioni che capita spesso di sentir
pronunciare, ma che nella loro superficialità non si avvicinano nemmeno al
nocciolo della questione.

 

Questo orrore, del resto, non è fine a sé stesso.
Esso ha come scopo quello di educare i
bambini e i giovani al lavoro, all’obbedienza, alla rassegnazione
;
trasformarli in produttori-consumatori efficienti e competitivi; insomma, produrre in serie degli automi
perfettamente asserviti, dei cittadini
.

 

Quando il dominio del capitale, per bocca dei suoi
lacchè, afferma la necessità di una modernizzazione
della scuola
, parla essenzialmente di questo: affinare i mezzi per la realizzazione di tale  disegno totalitario – l’utopia capitalista – in quanto il suo inveramento si rivela, alla
prova dei fatti, problematico e
contraddittorio
. Basti pensare alle crescenti difficoltà che il sistema
incontra nel mantenere l’ordine nei ranghi; difficoltà che pure, almeno per il
momento, non si traducono in una critica effettiva dell’esistente, ma si manifestano
soltanto in forme irrazionalmente distruttive e autodistruttive e, in quanto
tali, facilmente recuperabili e detournabili in una legittimazione dei processi
di ristrutturazione in atto. Questa constatazione, che è generalizzabile
all’intera società, trova nell’ambito specifico della formazione
un’esemplificazione nel cosiddetto bullismo, negli atti vandalici, nelle
esplosioni di violenza apparentemente ingiustificate e in altri fenomeni meno
visibili, che testimoniano di un’indisciplina diffusa. Che del resto si può
evincere, in negativo, dall’introduzione nelle scuole di tecniche di controllo
sempre più sofisticate (ad esempio la possibilità, per i genitori, di accedere
a registri elettronici pubblicati su web, che forniscono un quadro delle assenze
e del rendimento scolastico dei figli).

 

Ma la formazione dei futuri cittadini – e questo
punto è di una certa rilevanza – non avviene soltanto inculcando nelle teste
degli studenti ideologia in quantità industriali, cosa del resto piuttosto
ovvia; ma verificando quotidianamente, nella prassi – cioè in una sorta di continua simulazione dei ruoli sociali che,
potenzialmente, ciascuno andrà in seguito a ricoprire
– il grado raggiunto
di irreggimentazione dei corpi e dei cervelli. E’ su questa base (oltre che
naturalmente su quella del reddito, che garantisce l’accesso a scuole più o
meno d’élite) che si determinano
quelle stratificazioni, legate alla carriera scolastica di ciascuno, che
andranno poi a riflettersi nelle – e a legittimare le – gerarchie in cui si articola la struttura sociale capitalista (si
pensi, ad esempio, al mercato del lavoro).

 

L’introduzione nelle università, già alcuni anni or
sono, del sistema dei crediti formativi
(tutto incentrato sul concetto quantitativo
dell’ammontare del tempo dedicato allo studio e alle attività ad esso
correlate), testimonia chiaramente, al di là dei suoi limiti intrinseci, di
come questa specifica funzione delle istituzioni formative sia diventata
preponderante (1).

 

Se è vero, quindi, che oggi la scuola e l’università
più che sapere producono ignoranza
anche dal punto di vista di un’ideologia borghese ormai in fase di avanzata
decomposizione – ciò non è dovuto ad una qualche arretratezza, a un deficit di
efficienza o all’inadeguatezza del corpo insegnante, ma risponde a una precisa
esigenza del sistema. Nella misura in cui, nella
società capitalista neomoderna ogni funzione, sia a livello della produzione
che sul piano sociale complessivo, risulta tendenzialmente svuotata di ogni
contenuto e competenza reale
e
diviene intercambiabile
(2), la quantità di nozioni con cui gli studenti vengono quotidianamente bombardati, è
sempre meno qualcosa che sia spendibile e utilizzabile al di fuori della scuola
stessa, e sempre più fine al solo processo di disciplinamento degli individui. Il loro contenuto, da questo punto di
vista, diventa allora tendenzialmente
indifferente
. La maggior parte degli impieghi, per rimanere all’esempio del
mondo del lavoro, richiedono oggi soltanto competenze di base minime (saper
leggere, scrivere, far di conto e poco più), mentre le poche abilità necessarie
alla concreta attività produttiva sono in gran parte acquisite in un processo
formativo, interno al luogo di lavoro, che viene a sovrapporsi e a confondersi
con l’attività produttiva stessa.

 

Risulta quindi a dir poco risibile la litania – che a
forza di essere ripetuta, nel corso degli ultimi quarant’anni, ha perduto ogni
significato all’orecchio stesso di coloro che continuano imperterriti a
borbottarla – della difesa del
"sapere" da una sua presunta "mercificazione"
. Al di là
delle considerazioni già sviluppate, e sorvolando sul fatto che simili
affermazioni postulano l’esistenza di un sapere 
"neutrale"- cosa di per sé palesemente falsa – che il capitale
cercherebbe di piegare a proprio vantaggio, si deve notare come questo
"sapere", nella misura in cui è coinvolto nel processo di formazione
della merce forza-lavoro e viene in essa incorporato, è già per definizione "mercificato". E questo è vero
oggi, laddove il suo ruolo è da considerarsi affatto residuale, come era vero
all’epoca in cui il suo valore d’uso (per il capitale) aveva ancora un peso
determinante.

 

Lo stesso discorso può essere applicato al concetto
marxiano di General Intellect. Quest’ultimo, come è noto, non si riferisce
ad altro se non a quell’intelligenza collettiva, quell’insieme di saperi e
abilità creative, diffusi e per lo più informali – accumulati nelle comunità
precapitalistiche come conoscenze e pratiche tradizionali o sviluppati dai
proletari all’interno del processo di produzione – che il capitale si
appropria, gratuitamente, insieme alla forza-lavoro. Ma tale movimento di
appropriazione e di mercificazione è in realtà contraddittorio, in quanto, se
da una parte questa intelligenza collettiva viene sottomessa alla potenza
normativa della produzione capitalista, dall’altra essa costituisce lo strumento e la leva di movimenti di
sottrazione, resistenza o conflitto aperto
, talvolta anche molto radicali.
La conoscenza del processo produttivo e dei suoi segreti, ad esempio, consente
al lavoratore di colpire nel modo più efficace gli interessi materiali della
controparte, limitando al minimo le perdite (sabotaggio, blocco della
produzione, forme di sciopero non istituzionalizzate etc.). Un’insieme di
"saper fare", che permetta di non essere totalmente asserviti al
mercato rispetto alla soddisfazione dei propri bisogni, permette inoltre, a chi
ne sia in possesso, di sottrarsi quantomeno ai ricatti più odiosi del capitale
riguardo alle condizioni di lavoro e di "vita". Per questo il
capitale cerca di appropriarsi realmente,
incorporandoli nel proprio apparato
macchinico e nella propria organizzazione produttiva
, questi saperi. In
effetti, il capitale non crea nulla:
si limita a riciclare e sottomettere alle proprie esigenze di valorizzazione –
cambiandolo di segno – tutto ciò che gli pre-esiste (3).

 

Oggi, questo processo di sussunzione si è ormai
spinto talmente avanti, che è rimasto
ben poco da incorporare
. Ogni seppur minimo residuo delle conoscenze
tradizionali, almeno nei paesi a capitalismo avanzato, è scomparso
dall’orizzonte sociale (salvo essere riesumato, alla bisogna, in forma svuotata
e spettacolare, onde creare nuove illusioni e occasioni di profitto). La
megamacchina produttiva e sociale costituisce sempre più, per il singolo
individuo atomizzato e isolato, un arcano impenetrabile. Pertanto, se è vero
che in altra epoca «riappropriarsi di questa intelligenza collettiva poteva
significare un ribaltamento dei rapporti sociali», ai giorni nostri risulta
«ridicola la pretesa di ridurre quello che viene definito General Intellect alle capacità "scientifiche" o
tecnologiche di singoli o gruppi (…) e di attendersi da lì una specie di
"nuova avanguardia": queste
intelligenze sono ormai asservite alla macchina
(…) e i suoi portatori
ridotti a riproduttori, magari ad alto livello, dell’esistente»(4).

 

Non vi è
dunque alcun sapere che vada difeso dal parassitismo del capitale, per il
semplice fatto che le condizioni storiche di tale parassitismo sono venute meno
.

 

La società capitalista, nella sua forma neo-moderna e
iper-spettacolare, ha ormai perduto
qualsivoglia capacità di innovare e progredire
, sia sul piano della
produzione sia su quello della conoscenza (beninteso, il suo è sempre stato un progresso nell’alienazione),
determinando in tal modo una sorta di glaciazione
sociale
, che esclude per ora solamente quei settori che si occupano
direttamente del controllo e dell’amministrazione dei corpi (biotecnologie,
medicina, informatica etc.). Quanto agli altri settori, si possono ormai
riscontrare soltanto variazioni di
dettaglio, applicate a merci sempre più insapori, inutili e nocive
(5).

 

Va infine notato come quello che oggi viene prodotto
nelle università e  spacciato per "sapere" (definizione che
presuppone un non essere fine a sé stesso, un utilità pratica, se non immediata
quantomeno in prospettiva futura), si riduce per lo più ad una pletora di merci culturali, che una massa di
consumatori "intellettualizzati" trangugia senza il minimo senso
critico, così come la gran parte dei nostri contemporanei si appropria con
famelica bramosia di qualunque rappresentazione
spettacolare
– e della relativa merce – sia proposta loro a simulazione di una vita assente e
compensazione del nulla a cui ci si vorrebbe condannare.

 

Tali merci culturali sono, in buona parte, il frutto
dell’attività di una forza-lavoro
intellettuale precarizzata e sottopagata
(dottorandi, borsisti, ricercatori
etc.) o non pagata affatto (molti studenti, di fatto, lavorano gratuitamente
per i rispettivi professori), che evidentemente non è stata risparmiata dal processo di impoverimento, parcellizzazione
e standardizzazione del lavoro
, che l’organizzazione sociale capitalista
inesorabilmente impone. Il successo delle ideologie – cui già si è accennato in
relazione alla questione del General
Intellect –
che negli ultimi quindici anni non hanno smesso di ammorbare
l’aria di certi ambienti intellettuali e "antagonisti", soprattutto
entro gli italici confini, e che pur cambiando forma e linguaggio non hanno
mutato la loro sostanza (lavoro immateriale, moltitudini, cognitariato e così
via) è spiegabile, molto banalmente, con il tentativo delle suddette figure
sociali di esorcizzare, attraverso
queste fantasmagorie, il processo di proletarizzazione e dequalificazione a cui
sono sottoposte
.

 

Dunque, che fare?

 

Appare evidente che, chiunque voglia davvero
rimettere in discussione l’attuale assetto societario, non possa attestarsi su rivendicazioni riformistiche e
sostanzialmente solidali con la dinamica capitalista
, quali la  difesa dell’"università di massa"
(ormai morta e sepolta), della scuola pubblica (che non si vede bene in che
cosa si distingua, dal punto di vista della critica rivoluzionaria, da quella
privata) o di un qualche "diritto allo studio".

 

Rifiutarsi di
rivendicare la propria stessa schiavitù e alienazione
sarebbe già un passo
avanti. Certo, nel caso del "diritto al lavoro" una simile
rivendicazione, sia pure sul piano strettamente pratico della necessità di
portare a casa la pagnotta, è ancora comprensibile; così come era
comprensibile, fino a quando questa possibilità non è stata completamente
soppressa, che lo studente si servisse della cosiddetta "università di
massa" per rimanere il più a lungo possibile lontano dalla maledizione del lavoro – ma a prezzo di
quale miseria materiale ed emotiva! (6). Assai meno accettabile è la trasposizione
di queste "rivendicazioni di diritti" sul piano ideologico. Insomma,
rimane un punto fermo il fatto che, per i proletari, il lavoro rappresenta
nient’altro che un mezzo per avere accesso ad un salario, e nulla più!

 

Nemmeno ci si può accontentare di una critica
parziale, incentrata su questa o quella singola problematica (autoritarismo,
contenuti della didattica, etc.) o sulla loro mera giustapposizione. Come già si
è visto, ogni singolo aspetto che meriti di essere criticato, si inscrive nella
funzione complessiva che la scuola e l’università rivestono all’interno della
società del capitale. Ciò che è urgente sviluppare, dunque, è una critica globale di queste istituzioni,
in quanto è dal loro carattere di sfera
separata e di elemento saldamente incastonato nel panorama dell’alienazione
universale, che discendono a cascata tutte le nocività specifiche  di cui sono crogiuolo.

 

Su di un piano più strettamente pragmatico, si tratta
di incoraggiare, ovunque sia possibile,
il rifiuto, il sabotaggio e l’insubordinazione
– nella scuola come in ogni
altro ambito della vita sociale. Offrire loro una sponda teorica e una prospettiva, affinché non rimangano
confinati all’episodio isolato e non degenerino in forme di ribellismo cieco.
Organizzare forme di sperimentazione,
in cui l’apprendimento non sia più separato dall’esperienza (comune) e dai
desideri degli individui. Sempre mantenendo ben salda la consapevolezza  che il superamento dell’orrore scolastico
rimane in ogni caso inscindibile dal superamento dell’orrore capitalistico.

 

Sogniamo un
mondo, che vogliamo ancora chiamare
comunismo, dove le persone possano imparare le une
dalle altre, nella condivisione ed elaborazione collettiva delle esperienze o
nel confronto individuale con la realtà, in ogni caso al di fuori di
qualsivoglia relazione gerarchica e autoritaria.

 

Sogniamo un
mondo dove la conoscenza sia innanzitutto uno strumento della gioia di vivere e
del libero gioco delle passioni.

 

Sogniamo un
mondo libero da tutte le galere, siano esse con o senza sbarre.

 

MORTE ALLA
SCUOLA, ALLO STATO E AL CAPITALE!

 

DIFENDERE /
DIFFONDERE LA
LIBERTA’ OVUNQUE!

                                            

 

Bologna, 3
novembre 2008

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