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CONTINUARE IL CONFLITTO- AGITARE L’UNIVERSITA’

“il lavoro è il sabotaggio della vita:sabotiamo il lavoro”

Anche a Milano come in tutta Italia cresce sempre di più l’opposizione
alla legge 133 del 6 Agosto che aggiunge un ulteriore passo in avanti nel
processo di precarizzazione degli studenti, di privatizzazione
dell’istruzione e appiattimento dei saperi.
Essa prevede un taglio del F.F.O. (Fondo di Finanziamento Ordinario)  di un
miliardo e quattrocento milioni di euro nei prossimi cinque anni, la
possibilità delle Università di trasformarsi in fondazioni di diritto
privato e il blocco del turn over del personale al 20% (ovvero su 10
dipendenti che andranno in pensione  se ne potranno assumere solo due).

La riforma Gelmini-Tremonti dunque pur non essendo  organica e strutturale
modifica ulteriormente le linee guida dello sviluppo del sistema
universitario  che da almeno un decennio sono state intraprese per renderla
sempre più funzionale agli interessi delle imprese: per questo deve essere
bloccata senza perdere di vista quegli elementi di fondo su cui poggia da
tempo con continuità questa tendenza e che persistono oltre questi momenti
emergenziali e artificiali di attenzione sul problema. Affinché questa
lotta sia effettivamente conflittuale, duratura e non di mera difesa dello
status quo non è possibile limitarsi a inseguire rivendicazioni contro
l’aumento delle tasse o per la riaffermazione del ruolo statale nella
formazione, l’aumento dei finanziamenti pubblici e la riqualificazione del
lavoro cognitivo, ma piuttosto occorre interrogarsi sul ruolo
dell’Università nella società e sul tipo di studente che essa intende
formare, perché la revoca di un disegno di legge è senz’altro un
obiettivo da condividere ma che non può essere vincente se non supportato
da un modello alternativo e offensivo da costruire nell’immediato. Non c’è
peggiore sconfitta della caduta nel vuoto toccando il traguardo.

L’università non è mai stata neutrale; attivarsi per un suo cambiamento
significa ripensare radicalmente il mondo in cui viviamo: la separazione
dello studente dal mondo, l’idea di un insegnamento inteso come mera
trasmissione dei saperi, i corsi finalizzati all’apprendimento di nozioni
utili esclusivamente alla produzione indicano come gli atenei siano una
pedina fondamentale per il mantenimento di una posizione posizione
incontrastata di dominio e sfruttamento del capitale.
Sarebbe erroneo considerare come taluni1 un presunto disinteresse delle
imprese italiane ad investire nella formazione e della ricerca adducendo
che esse abbiano svolto da sempre un ruolo parassitario rispetto
all’investimento statale rinunciando all’innovazione, piuttosto si dovrebbe
 parlare di un forte riassestamento in cui saperi più produttivi
troveranno maggiore spazio a discapito di quelli non direttamente
implicabili nel processo mercantile. Questa paura della dismissione totale
dell’università a sé stessa è totalmente ingiustificata se non per
sostenere che le aule universitarie siano un luogo sostanzialmente libero
da rapporti di potere e interessi consistenti dove costruire presunte
“istituzioni del comune”, un’area pubblica e libera in cui sia
possibile rivendicare un salario minimo per il lavoro della cognizione.
Ma una società con dominio dello spettacolare integrato come è quella in
cui ci troviamo la merce realizza la sua colonizzazione totalitaria delle
forme di vita tramite lo sviluppo centrale del lavoro cognitivo quale
pubblicità, mezzi di comunicazione e creazioni di visioni del mondo e
percezioni che ci fanno desiderare il consumo e il sapere necessario al
funzionamento delle macchine da cui dipendiamo sempre di più. Questo
nostro essere ingranaggi indispensabili non può essere ripagato
semplicemente con il riconoscimento di un reddito senza pensare ad un
superamento di questo meccanismo ben lubrificato dalle nostre energie. Se
il nostro stesso essere coincide con un fare individuale che lo trasforma
in lavoro perchè caratterizzato dalle produzioni intangibili di ogni
relazione umana e affettiva, allora dovremmo sbarazzarci di questa
immanente attività lavorativa invece che di valorizzarla e distinguere il
vivere dal lavoro. Anche se questa forma di lavoro vivo stia nella fase
attuale superando l’importanza di quello morto e consuetudinario di
esecuzione non toglie che la sua subordinazione allontani la possibilità
di un suo utilizzo autonomo2, a meno che non si facciano i conti con quei
meccanismi che ci svuotano l’interiorità e ci condannano ad un esistenza
legata al falso bisogno.

La struttura universitaria non è vittima della crisi globale dell’economia
ma essa stessa è a tutti gli effetti parte decisiva e centrale di questo
corso nel quale è pronta ad immedesimarsi in ogni momento: dal punto di
vista teorico e pratico occorre dispiegare percorsi che vadano a
demistificare e attaccare quei meccanismi di mercificazione della
conoscenza che colpiscono direttamente la condizione dello studente, e il
ruolo dei saperi scientifici e umanistici perché la loro indipendenza
sarà raggiunta solo se sapranno liberarsi e non integrarsi con la
produzione, sia essa sociale, cooperativa o neoliberista mettendo in atto
un percorso che non sprofondi in pretese e richieste di miti sociali come
il reddito sociale garantito in un quadro di esaltazione del ruolo del
lavoro, ma che si dispieghi in vera riappropriazione.

L’università-esamificio, emblema della fabbrica sociale in cui siamo
immersi, impone ritmi da catena di montaggio in modo tale da favorire un
forte processo di selezione e pure una maggiore estraneità dello studente
che deve scegliere se impegnarsi a tempo pieno nello studio o lasciarsi
catturare dalla condizione di lavoratore-studente in cui è in ogni caso
già condannato: se in passato il percorso universitario portava alla
costituzione ed al ricambio dell’elitès politica, oggi come obiettivo
principale pone la plasmazione di soggetti inebetiti dalla mancanza di
qualsivoglia spirito critico o metodo di analisi indipendente , presupposto
del dilagare dell’immediata passività ed accettazione di cui anche
l’istituzione universitaria si serve.

Nel campo del sapere scientifico è ad esempio sempre più lampante ed
insopportabile lo stretto legame della ricerca alle necessità lucrative
delle multinazionali soprattutto negli ambiti farmacologico e
biotecnologico dove emerge la logica dello specialismo dei ricercatori che
si trasforma in autoritarismo quando si vogliono confinare tra le mura dei
laboratori temi riguardanti la profonda mutazione dell’esistente. I poli
universitari insieme ad aziende, multinazionali ed associazioni del settore
si prestano a legittimare scientificamente, sostenere e dove sia necessario
fornire giustificazioni etiche al controllo totale sul vivente vegetale ed
animale oltre che sull’ambiente.

L’Università degli Studi, come messo in luce  dall’azione dell’ALF (Animal
Liberation Front) nel Dipartimento di Farmacologia nell’Aprile 2006 pratica
crudeli esperimenti di vivisezione su topi transgenici, cavie e cani che
venivano torturati da anni in un contesto di presunta neutralità morale,
sperimentazioni violente come queste nascondono la tendenza generale alla
appropriazione dei corpi resi oggetti da una falsa differenza rispetto alla
specie dominante, la quale però costutisce il successivo passo di
applicazione di questo principio di base.

L’Università degli Studi ha recentemente sostenuto ed ospitato, il
Nanobioforum 2008 sottolineando ulteriormente in quali meccanismi sia
apertamente integrata: la brevettabilità e la manipolazione del vivente
che spiana la strada del controllo delle fondamenta genetiche di ogni
essere per poterlo rendere commerciabile. Ci si prepara al trasferimento di
geni tra specie senza alcuna affinità considerando gli organismi viventi e
le strutture che li costituiscono e ne regolano l’esistenza da milioni di
anni come elementi a cui la scienza e la tecnologia possa attingere come da
una scatola degli attrezzi e in cui le conseguenze di questo sconvolgimento
passano sempre in secondo piano rispetto alle rendite dei brevetti che per
esempio costringono contadini sudamericani a pagare le multinazionali per
seminare le loro colture.

L’Università degli Studi inoltre si è impegnata ufficialmente nel
sostenere la candidatura della città ad organizzare l’Esposizione
Universale del 2015, sempre con la collaborazione di istituzioni di ogni
livello e multinazionali. Questo evento-vetrina dietro gli ingenti
investimenti in immagine e di comunicazione per costruire un’eticità del
progetto, nasconde una cementificazione selvaggia e una speculazione
edilizia sfrenata simbolo ancora una volta del prevalere del mercato
sull’uomo e  l’ambiente che l’ateneo propone assecondando il modello di
sviluppo neoliberista.

Nel campo delle scienze sociali, economia politica in testa, assistiamo
alla loro trasformazione in strumenti ideologici in supporto al sistema
capitalistico presentato come il solo modello razionale e l’unico possibile
in cui i sindacati e i fannulloni rallentano la concorrenzialità del
mercato in contrapposizione alle istanze conflittuali e di rivendicazione,
naturalmente incomprensibili e irrazionali. Di fronte all’acriticità
spiazzante che si respira nei programmi di studio emerge un potente mezzo
di propaganda e di legittimazione della miseria del presente.

Per questo crediamo che sia sempre più necessario unire il disagio delle
condizioni studentesche con la continua costruzione di insubordinazione e
insofferenza verso la mercificazione diffusa e l’onnipresente principio
d’efficienza. Noi non ci spendiamo per difendere l’università baronale e
le sue logiche clientelari e di cooptazione e per questo l’alleanza con i
docenti e i ricercatori non  deve essere un presupposto ma semmai un
obiettivo da raggiungere dopo la messa in discussione di quelle logiche che
spesso essi hanno sostenuto o assecondato. Ogni qual volta che le istanze
critiche degli studenti parlavano di temi tollerati, in parte condivisi o
confinanti con gli interessi delle gerarchie accademiche hanno potuto
trovare spazio se non addirittura appoggio, ma laddove  queste istanze si
sono estese alla riflessione sul sistema bancario di crediti e debiti o
della rappresentanza, al tipo di saperi, alla necessità di luoghi di
socialità, esse sono state prontamente represse con tanto di esplicita
invocazione delle forze coercitive statali da parte di quelle stesse
componenti universitarie “progressiste” che oggi chiedono a gran voce
l’unità nella lotta per un vuoto diritto allo studio affermando di voler
addirittura sostenere eventuali occupazioni.
Questo è quanto è avvenuto con gli sgomberi delle aule occupate l’anno
scorso nelle Facoltà di Scienze politiche e di Lettere e Filosofia, oltre
che con le incursioni degli studenti ai Career Day, alle presentazioni dei
corsi di laurea e dei numerosi convegni che l’università preferisce
lasciare alle aziende che ad iniziative studentesche.

Trasformare la società e cambiare l’Università sono per noi la stessa
cosa: ridere sulle macerie  degli interessi che entrambe sostengono; per
questo è indispensabile  continuare a creare una alternativa reale di
autogestione al loro interno dove dare libero spazio a forme di vita
ribelli all’annichilimento costante, creare momenti di autoformazione e
socialità come ripresa del proprio spazio-tempo e vivere le lotte non come
simboliche o finalizzate  ad un obiettivo parziale ma come liberazione da
ogni utilitarismo per costituire momenti in cui la decostruzione e la
critica radicale lascino emergere  l’esigenza di relazioni orizzontali,
piaceri e desideri che lascino sfogo all’esistenza e alla sovversione.

Milano-Ottobre 2008

 

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