parlamento sventolano, rammenta, a coloro che trovano ancora piacere
nel riflettere e non si sono rassegnati alla contemplazione pensosa del
nulla che inghiotte infaticabilmente ogni umana vicenda, il noto
paradosso della protezione su cui prosperano dai tempi più lontani le
mafie grandi e piccole.
a proporle la mia protezione. Lei, in cambio di questo mio servizio, mi
corrisponderà…”
"Mi scusi se la interrompo, ma io non ho mai avuto bisogno di
protezione, e poi da chi dovreste proteggermi? E come fareste a
difendermi?".
"Non ha capito. È da me che lei si deve proteggere. Ed è per questo che
la mia protezione è affidabile: perché sono insieme la minaccia e la
difesa.”
In realtà, non è neppure vero che la mafia protegge, perché, una volta
che si disveli, pagando, di essere indifesi e incapaci di farsi valere,
a che pro consegnare la merce promessa? In ogni caso non ci si trova
più nella condizione di reagire.
Allo stesso identico modo si conducono i governi che, in quanto garanti
del presente stato di cose, stanno all’origine della radicale
insicurezza in cui languono i singoli e le loro deprimenti
aggregazioni, mentre si presentano come unico possibile usbergo contro
questa stessa insicurezza.
Il poliziotto – che del governo è la proiezione quotidiana sul
territorio – mentre ti minaccia realmente, ti rassicura idealmente: a
condizione beninteso, che tu sia completamente alienato, separato dalla
tua attività e separato e contrapposto rispetto a chi ti sta a fianco e
condivide la tua sciagurata condizione. Ma è davvero difficile sfuggire
a una tale alienazione, dal momento che ciascuno è costretto a
concentrarsi forsennatamente sugli affari propri, minacciati
dall’inflazione, dalla precarietà, dagli adempimenti, dalle tasse,
dalla disoccupazione; nello stesso tempo è scoraggiato in qualunque
forma di presenza politica, o anche solo di riflessione sulla propria
condizione; è posto in concorrenza con tutti coloro che incontra, siano
essi colleghi, datori di lavoro, dipendenti, vicini, parenti,
sconosciuti, stranieri; è obbligato a misurare e ad essere misurato
utilizzando un equivalente onnipotente, il danaro, di cui dispone in
misura infinitesima, stretto fra debiti certi e inesorabili e crediti
modesti, incerti e malsicuri; si ritrova sprovvisto di qualunque
identità collettiva, e minacciato nelle basi della propria stessa
identità personale, dal momento che il passato viene sempre più spesso
rimaneggiato e reso nebuloso, e il futuro si prospetta come un accumulo
di sole minacce.
Il risultato è quello di una crescente affezione dell’infelice
cittadino per il proprio aguzzino, che in sostanza rimane l’ultimo e
l’unico ad interessarsi di lui. In quali condizioni può versare
qualcuno cui il postino recapita solo multe, e che per strada viene
fermato unicamente dai vigili, e la cui identità interessa solamente i
carabinieri dei posti di blocco?
La più banale osservazione psicologica ci indica come i bambini
maltrattati si affidino fra i due genitori preferibilmente a quello che
li maltratta piuttosto che a quello che permette che siano maltrattati.
Nessuno dei due vuole loro bene, ma uno dà segno di riconoscerli,
l’altro neppure quello. La condizione del proletario che è sempre stato
maltrattato, va divenendo sempre più quella di un minorenne: sradicato
dalla comunità nella quale egli poteva trovare calore e al tempo stesso
conquistare visibilità e prestigio, costretto a confrontarsi con un
mondo di cui gli sfuggono sia i fondamenti sia soprattutto gli
strumenti (per una competizione su base mondiale, risultano tutti,
anche i non poverissimi, comunque del tutto inadeguati: il prezzo del
vivere è praticamente troppo caro per tutti, un’esperienza, questa, che
nel passato si associava quasi soltanto ai periodi delle grandi guerre,
periodi nei quali si era disposti a qualunque sacrificio, meglio se
altrui, per pervenire alla pace). Di conseguenza, occorre riconoscere
che l’insicurezza è una condizione effettivamente diffusa e fondata,
specie fra quei ceti condannati al quantitativo che fanno la fortuna
degli empori e dei partiti di massa.
D’altronde, già sessant’anni fa Umberto Saba in "Scorciatoie e
Raccontini" osservava che i vecchi avvertono più intensamente la paura
dei ladri, perché ciò che temono davvero è la visita della morte, che
ruberà loro la vita.
In una società incanutita e rimbambita come la presente, in cui la
vita è stata già rubata alla fonte, senza mai essere stata davvero
concessa alla maggioranza dei nostri contemporanei, è quasi inevitabile
che ci si aggrappi ai propri possessi, che sono la sola verosimile
allusione all’esistenza in vita del possessore. Chi deruba, calpesta il
proprietario, calpestando la sola parte di esso destinata a
sopravvivergli, lo deruba dell’anima, sfida l’unica fede superstite,
quella nell’economia del sacrificio. Il punto è che tutti gli
interventi in nome della sicurezza, quegli stessi interventi che gli
spossessati reclamano senza posa, aumentano e non riducono
l’insicurezza degli spossessati medesimi. Ma parallelamente aumentano
la devozione canina e abietta per i potenti, per i vincitori, per i
decisionisti, e l’odio per chi diffonde il dubbio, per chi svela i
miserabili arcani, per chi dileggia gli idoli, per chi pone senza
infingimenti gli individui di fronte alla loro condizione
disprezzabile, per chi rammenta che l’unica possibile salvezza ciascuno
la può determinare solo partendo dalle proprie forze.
Per conseguenza la recente proposta di mutilare la Legge Gozzini,
non è una contraddizione ma una parte coerente del disegno di
alienazione perfetta ad opera del totalitarismo democratico
rappresentato oggi in Italia dalla coalizione condotta dall’ignobile
Berlusconi (in maniera non dissimile ma molto più conseguente degli
ipocriti che lo hanno preceduto, i quali meglio si accomodano nel ruolo
di prefiche lagnose ed impotenti). L’aggravamento delle condizioni di
detenzione contemplato dai critici della Legge Gozzini corrisponde
infatti a diversi obiettivi, fra loro convergenti: innanzi tutto,
brutalmente rendere più aggressiva la voce dello stato, in sostanza
bastonare qualcuno semplicemente per far roteare il bastone sotto gli
occhi di tutti; in secondo luogo, sottolineare il concetto,
fondamentale in tutti i periodi di stretta autoritaria, dell’esistenza
di uno specifico strato sociale votato al delitto, verso cui nessuna
vessazione sarà mai eccessiva, diverso e separato, rispetto alla
popolazione comune, e soprattutto rispetto allo strato dei governanti,
che – trovandosi agli antipodi sociali di quello – va per definizione
riconosciuto come composto da membri stimatissimi della comunità, nei
confronti dei quali qualsiasi indagine non può che essere frutto di
maligni preconcetti; in terzo luogo, indicare l’abisso sul cui ciglio
si situano tutti coloro che si trovano in mezzo, ciglio cui si
avvicinano ogni qual volta allentano l’abbraccio con i governanti (e
qui si spiegano tutte le trasgressioni inventate dal codice a proposito
di condotte di uso corrente, quali il consumo di droghe, l’inosservanza
al codice della strada, l’inosservanza del copyright, l’evasione
fiscale).
Si tratta in pratica di un’estensione del concetto di "tolleranza
zero" e del concetto equivalente ad esso sotteso di "sudditanza
infinita". Ancora una volta il carcere si conferma come paradigma
estremo della condizione del suddito sociale: la salvezza viene
additata come conseguibile unicamente tramite un’adesione quasi fisica
alla fonte della legge, ai vertici; la relazione con tali vertici è
"personalizzata", gestita in solitudine totale e non è davvero un caso
che il sindacato degli industriali proponga di pervenire a quella
contrattazione individuale che è l’apoteosi della società senza classi,
in cui ciascuno è richiamato a giocare "sul mercato" alla pari, senza
riguardo al dettaglio che, da una parte, si paga con una frazione delle
vincite accumulate nelle precedenti partite, dall’altra con la totalità
del proprio tempo, quel tempo che è l’unico possesso di chi non
possiede nulla.
D’altronde è proprio l’ormai compiuta colonizzazione del tempo ad
opera del sistema delle merci e delle leggi, che ha diffuso come una
lebbra l’ossessione di salvaguardare il proprio spazio, quello spazio
che del tempo è da sempre il cascame meschino, il surrogato destinato
alle personalità servili. Precisamente come si è operato da tempo negli
Stati uniti, alla fase del trattamento personalizzato, delle
commissioni di verifica periodica del comportamento (commissioni dal
cui cospetto era impossibile uscire altrimenti che in ginocchio, come
bene illustrava George Jackson), va subentrando la riedizione
aggiornata del "delinquente per indole e per tendenza" tipico della
prima metà del Novecento, o addirittura di quelle "classi pericolose"
che, con la propria semplice esistenza testarda e nullafacente, avevano
minacciato il nascente capitalismo, al tempo delle grandi deportazioni
dei mendicanti, dei bracconieri, delle prostitute, dei vagabondi, degli
oziosi. E un contraltare perfetto alla cessazione dell’automaticità dei
benefici della Gozzini, possiamo ammirarlo nella scelta (peraltro
mirabilmente bipartisan) dell’introduzione dell’ergastolo automatico
per chi uccide qualche appartenente al livello più intenso della
domesticazione, quello che ti concede il diritto a circolare armato con
indosso le insegne della vergogna nazionale.
Detto questo, notiamo quanto sia inutile e finanche indisponente la
circolazione di taluni appelli che mirano alla difesa della Legge
Gozzini medesima, allorché si giunge alla lettura in calce del codazzo
di firme proprio di coloro che per decenni si sono impegnati nella
desertificazione di ogni possibile spazio in cui appelli del genere
avrebbero potuto essere benevolmente accolti.
Non solo i nomi di molti degli appellanti inducono al dileggio e alla
pernacchia – anche perché pesantemente lardellati da specialisti
nell’arte immonda di accarezzare le piaghe, quali preti, assistenti
sociali, politici, ravveduti e così via; ma accuratamente si evita di
ricordare quale sia stata la funzione della Gozzini per la
pacificazione e la socializzazione dei detenuti e si riprende, senza
esitazioni, la questione della sicurezza agitata dal governo,
semplicemente proponendo un’alternativa più armoniosa, più
biodegradabile, più soft, per la realizzazione del medesimo fine, la
socializzazione totalitaria, l’edificazione di un sistema di reciproco
asservimento.
È lampante che ogni sistema, anche residuale come la Gozzini, che
conduca a una riduzione del tempo trascorso dietro le sbarre, o in
un’altra delle condizioni infelici previste dall’ordinamento
penitenziario, va guardato con sfavore assai minore rispetto a
provvedimenti che viceversa prolungano questa condizione di capillare
mancanza di libertà.
Ma occorre ricordare che mai sono stati gli appelli e le
democratiche istanze a condurre alle riforme penitenziarie, persino le
più timide; ma solo la speranza di disinnescare la minaccia esercitata
da carcerati coscienti e irriducibili; e possibilmente dall’esistenza
di un movimento esterno di solidarietà con le rivolte, le evasioni, le
ritorsioni contro la vile custodia. In assenza di tutto questo, i
carcerati, precisamente come quelli che permangono in una condizione
non ancora perfettamente ristretta all’esterno delle carceri, possono
sperare unicamente nella magnanimità di chi scrive le leggi e di chi le
applica. E da un bel pezzo (certuni sospettano: da sempre) è
impossibile trovare anche un solo uomo magnanimo sullo scranno del
legislatore, del governante, del giudice. Lo strumento dell’appello è
solo un’ulteriore prova della natura nefasta e ignobile dello stato,
che riduce degli adulti, nati per essere liberi, a chiedere
rispettosamente come si faceva nella Sardegna del Settecento di
"procurare di moderare la tirannia". Allora lo si chiedeva ai lerci
baroni sabaudi, oggi ai putridi mascalzoni repubblicani. In che cosa
consisterebbe il progresso?
I Filiarmonici 10 Settembre 2008