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KRISIS quando la montagna partorisce un topolino
Gli scritti del gruppo KRISIS, costituito attorno al sociologo Robert
Kurz, editore in Germania dell’omonima rivista, erano poco noti in
Italia. Questa lacuna è ormai colmata dalla pubblicazione del Manifesto contro il lavoro (DeriveApprodi, 2003).

La critica della morale del lavoro, nel pensiero di sinistra, dà un
tono ed una freschezza a un testo in cui KRISIS tenta di caratterizzare
l’attuale situazione del capitalismo. Per loro si tratta innanzitutto
di smontare le ricette riformiste che pretendono di correggere i
misfatti del capitalismo da casinò: le nostalgie keynesiane, le
rivendicazioni d’un salario sociale, o ancora la tassa Tobin-Attac. Per
Kurz ed i suoi amici, la speculazione è la conseguenza della crisi
degli investimenti e non il contrario: «lo stesso criterio della
redditività, con tutti i suoi presupposti nella società del lavoro,
deve essere considerato obsoleto» (p. 44-45). KRISIS si differenzia
così dai progetti delle varie correnti socialiste che hanno creduto di
fare delle rivendicazioni quantitative, delle lotte economiche e
sindacali, la leva dell’emancipazione sociale. Questo processo
d’integrazione è oggi seguito dall’esplosione del mondo operaio;
terreno sul quale «la sinistra classica è arrivata al capolinea» (p.
51). Per questo motivo, nei suoi progetti di rifondazione, «invece di
una rottura categoriale, si fa strada una nostalgia socialdemocratica e
keynesiana» (p. 52). KRISIS sottolinea la natura statale dei progetti
di salario sociale e di reddito garantito, confermando in questo altre
critiche.

Fin qui, niente di nuovo sotto il sole! Per quanto
riguarda la critica del riformismo moderno, KRISIS ripete — con un
pronunciato gusto per la sufficienza — quanto è stato già scritto.
Esempio tipico assai diffuso, a leggerli sembra che la critica al
capitalismo contemporaneo sia iniziata il giorno in cui loro si sono
messi a riflettere. Ma tranne alcuni riferimenti al «situazionismo» e
alle correnti della sinistra italiana, alcune formule che richiamano Il diritto alla pigrizia
di Paul Lafargue (mai citato), si spazza via tutto senza distinzioni e
si getta il peggio come il meglio nella pattumiera della storia, alla
rinfusa. Pertanto non ci stupirà di vedere il movimento operaio ridotto
al sindacalismo, semplice elemento «acceleratore della società del
lavoro». Fatto significativo, si cercherà invano in questo Manifesto
la minima allusione alle rotture rivoluzionarie del XX secolo od un
solo riferimento alle correnti rivoluzionarie del marxismo e
dell’anarchismo.

Un’idea centrale costituisce l’ossatura delle
analisi di KRISIS: il capitalismo è un sistema il cui scopo è «la
società del lavoro», «La storia della modernità è storia
dell’imposizione del lavoro» (p. 26), «il lavoro è un fine in sé,
proprio perché realizza la valorizzazione del capitale: l’infinita
moltiplicazione del denaro grazie al denaro stesso. Il lavoro è la
forma di attività di questa assurda tautologia» (p. 18). Mai questo
vettore-lavoro viene definito come rapporto sociale, storico, né viene
caratterizzato in maniera specifica come lavoro alienato, salariato1.
Ora, è lo spossessamento del lavoratore della propria attività che gli
toglie il controllo della propria vita. È l’attività umana divenuta
merce a fondare le separazioni. In KRISIS la nozione di profitto è
assente, il concetto di sfruttamento conta poco nella «macchina
autoreferenziale del capitalismo» (p. 8).

La valorizzazione
borghese del lavoro è posta al centro del funzionamento del sistema il
cui scopo sarebbe di far lavorare gli individui! Questo discorso — che
rovescia la morale religiosa che vede nel lavoro la vocazione naturale
dell’uomo — abbonda di formule moralizzatrici: «principio cinico»,
«sistema delirante», «legge del sacrificio umano», «crociata in nome
dell’idolo lavoro», o ancora «meglio avere un lavoro “qualsiasi”
piuttosto che non averne nessuno è ormai diventata una professione di
fede imposta a tutti» (p. 6). Ora, se il proletario si intestardisce a
cercare lavoro non è perché non può fare altrimenti, essendo la vendita
della sua forza lavorativa il suo solo mezzo di sopravvivenza?

Cosa
caratterizza la crisi della «società del lavoro» secondo KRISIS? Ecco
degli elementi di risposta: «Con la terza rivoluzione industriale della
microelettronica, il lavoro si scontra con il suo limite storico
assoluto» (p. 35). Più precisamente, «per la prima volta il lavoro che
viene cancellato con la razionalizzazione è maggiore di quello che può
essere riassorbito grazie all’espansione dei mercati» (p. 36). Ne
consegue che, in una società che «mai era stata una società del lavoro
(…) il lavoro è stato reso superfluo. Proprio nel momento della sua
morte, il lavoro getta la maschera e si rivela come una potenza
totalitaria» (p. 6)2. KRISIS sembra dimenticare che questa necessità di
innalzare costantemente la produttività del lavoro, di sostituire il
lavoro vivo con le macchine, è intrinseca al processo di produzione del
capitale. In periodo di crisi, tutta la forza lavoro non trova
acquirenti sul mercato e l’apparente superfluità del lavoro ne è solo
la conseguenza. Trarne una interpretazione di tipo «catastrofista»
rappresenta una mistificazione, significa riprendere l’approccio
millenarista, presentare le contraddizioni attuali del capitalismo come
insuperabili. Lungo tutta la sua storia, il capitalismo ha potuto
ristabilire, a prezzo della barbarie, nuove condizioni di produzione di
profitto, creare nuovi mercati, facendosi perpetuare. Il capitalismo va
male, ma non affonderà da solo, ci vorrà l’intervento di forze sociali
decise a inscrivere nei fatti un progetto emancipatore. Questo è il
solo limite «assoluto» del sistema.

KRISIS associa la «rottura
con la categoria del “lavoro”» ad un progetto di «ri-solidarizzazione».
Questo deve concretizzarsi in «nuove forme di organizzazione sociale
(libere associazioni, Consigli) (che) controllino le condizioni di
riproduzione a livello sociale complessivo» (p. 57). Dopo aver
assimilato proletariato-soggetto storico, sciopero e integrazione
sindacale al movimento operaio riformista, KRISIS ha l’ambizione di
porre le basi di una «nuova teoria della trasformazione sociale». Da
questa emerge il proposito di un’autorganizzazione attorno ad una
«lotta per un fondo di tempo sociale autonomo». Su questo tema, la
lettura del Manifesto merita
di essere completata dalla lettura di altri testi del gruppo3. Ed è a
questo punto che una fitta nebbia cala sulla città!

Il settore
detto della «economia sociale» (ONG e associazioni) è definito come
«forma embrionale di una riproduzione emancipatrice e non-mercantile»,
che si tratta di «radicalizzare e unificare nella prospettiva di un
superamento del sistema produttore di merci». Un altro asse della lotta
vi viene associato: «la paralisi del sistema nervoso della riproduzione
capitalista», ad opera degli scioperi dei camionisti e gli scontri
degli ecologisti contro il trasporto di materie radioattive. Infine,
squat nidi autonomi, occupazioni di terre nei paesi poveri, sono
suscettibili di organizzare una «riproduzione autonoma» e contenere in
germe l’esigenza di una produzione non-capitalista. Le nicchie
alternative in seno alla società, le zone autonome temporanee,
rifiutate in teoria nel Manifesto,
vengono ripescate nella pratica. Qualsiasi insubordinazione è
sovversiva? Come potranno questi «embrioni» superare il sistema? Ci può
essere un superamento senza rottura? Ecco alcune domande che KRISIS non
pone. Qui come altrove, l’abbandono delle categorie di classe avviene a
beneficio di una sorta di «fronte alternativo» prossimo all’attivismo
cittadinista.

Corporativismo oblige,
KRISIS non dimentica che «c’è bisogno di un nuovo spazio di libertà
mentale, affinché l’impensabile possa diventare pensabile… Soltanto
una critica del lavoro espressamente formulata e un dibattito teoretico
adeguato possono creare quella nuova contro-opinione pubblica che
rappresenta il presupposto irrinunciabile per la costituzione di un
concreto movimento sociale contro il lavoro» (p. 54-55). Eccoci
ritornati al vecchio schema sul ruolo degli intellettuali nella
elaborazione della coscienza. Se «pensare l’impensabile» significa
questo, le risposte di KRISIS sono tutte deludenti e pretenziose quanto
i progetti dei neo-riformisti criticati. Le invettive di «riformatori
fai-da-te» e «teorici analfabeti» che gli autori di KRISIS indirizzano
ai difensori del salario sociale rischiano di rivoltarsi contro di
loro. L’avvertimento elogiativo degli editori francesi — che
classificano il Manifesto in terza posizione nella hit-parade della radicalità, dopo Il manifesto del partito comunista e Della miseria nell’ambiente studentesco — non ha eco.
La montagna ha partorito un topolino.

1.
Qui come altrove, la confusione mantenuta fra le nozioni di «lavoro»,
di «attività umana» e di «lavoro salariato», produttore di merci per
altri (il capitalista), conforta coloro per cui l’attività umana non
potrà che riprodurre il lavoro alienato odierno.
2. Il Manifesto
riprende qui, a modo suo, l’idea della «fine del lavoro», diffusa da
anni in alcuni ambiti detti «radicali» e dove alcuni spingono le
conclusioni fino ad affermare la scomparsa delle classi sociali e
quindi della lotta di classe.
3. “Antiökonomie und antipolitik”,
Robert Kurz, rivistaKrisis, n. 19, 1997. Le citazioni senza riferimento
sono tratte da questo testo.

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