untori
Un circondo per viverci dentro

Note sulla società
industriale e la sua ecologia


Il bosco e il villaggio

"Un circondo per
viverci dentro", così un ragazzino definiva l’ambiente in un tema
proposto a varie classi delle scuole elementari di Rovereto e dintorni. È una
delle definizioni più belle che conosco. Bisogna partire, infatti, proprio da
questo: guardarsi attorno. Che quanto ci circonda non sia fatto per
"viverci dentro" salta agli occhi. Ci si può sopravvivere, e sempre
più a scapito di milioni di persone – ecco tutto.

Nelle note che seguono
cercherò di mettere in luce alcuni rapporti fra la progressiva perdita di
autonomia individuale e sociale, la devastazione ambientale e l’acuirsi della
repressione. Questo non per aggiornare l’infinito catalogo degli orrori e
delle lamentazioni, bensì per riflettere su alcune possibilità. Una volta
tanto, partirò da un "per" e non da un "contro".

Cos’è un
"circondo per viverci dentro"? Direi un luogo in cui si intreccia con
arte il piacere della solitudine e quello dell’incontro, mentre sappiamo per
esperienza che la società industriale distrugge entrambi. Con un’efficace
espressione, Günther Anders definiva i cittadini contemporanei degli
"eremiti di massa", sempre più atomizzati nei loro rapporti e sempre
più massificati nelle attività, nei gusti, negli spostamenti. Una solitudine
piena è altrettanto difficile di un incontro realmente reciproco e senza
mediazioni. Se pensiamo la natura selvaggia come luogo della solitudine e il
borgo abitato come luogo dell’incontro, un "circondo per viverci
dentro" è uno scambio ininterrotto fra il bosco e il villaggio, un
passaggio continuo e senza violenze fra l’uno e l’altro. È la possibilità
di partire dai propri simili per farvi poi ritorno – di più, è la presenza
costante allo sguardo di una tale possibilità. Partire in cerca di nuovi
pensieri, di nuovi spaesamenti, di nuove paure, anche. Il bosco che diventa
campagna, la campagna che diventa giardino, il giardino che diventa piazza,
strada, casa. Ma un "circondo per viverci dentro" è soprattutto un’umanità
che sa attraversare ed abitare questi spazi, che sa padroneggiarne gli usi, i
costumi, le tecniche.

La nostra autonomia è
un rapporto incessante fra ciò che è pre-individuale e ciò che è
individuale. Pre-individuale è tutto quello che è comune e generico, come le
facoltà biologiche della specie umana, la lingua e i rapporti sociali che
troviamo quando nasciamo. Individuale è ciò che strappiamo con la nostra
azione. Noi diventiamo individui attraverso il nostro modo di entrare in
relazione con la natura e con la storia. In questo senso, solitudine e incontro,
bosco e villaggio sono una soglia tra il passato e il presente. Così come l’etica
individuale nasce e si staglia in una dimensione collettiva (il concetto di ethos
rinvia non a caso al luogo in cui si vive, agli usi e ai costumi), gli spazi di
vita sono l’incontro tra le generazioni e la loro arte di abitare. La
società industriale, invece, rende sempre più impossibile la coabitazione dei
diversi usi e costumi, così come abolisce ogni scambio armonioso fra le
differenti tecniche elaborate nel corso della storia, distruggendo in questo
modo la creatività di base delle comunità.

Insomma, un
"circondo per viverci dentro" è un luogo in cui l’"arte di
pronunciare grandi discorsi e di realizzare grandi gesta" (per riprendere
la splendida definizione di politica che si trova in Omero) risponde a due
esigenze fondamentali:

– che l’attività
non si separi dalla sua rappresentazione;

– che le tecniche
impiegate non siano irreversibili.

Una delle
caratteristiche essenziali dell’attuale società è che in essa assistiamo ad
un scarto crescente fra l’attività che svolgiamo e la nostra capacità di
rappresentarci le conseguenze di tale attività. A causa dell’estrema
parcellizzazione e specializzazione del lavoro, a causa di un gigantesco
apparato tecnologico che ci fa ogni giorno più ignoranti circa gli strumenti
che usiamo (incapaci come siamo, individualmente, di capirne la natura, di
padroneggiarne la produzione, di riparane i guasti), non abbiamo coscienza della
portata dei nostri gesti. Ecco perché il prodotto del nostro agire ci può
essere tranquillamente falsificato e artificialmente ricostruito. Tanto per fare
un esempio, qualcuno notava che è più facile – in termini di
riflesso reale dell’azione sulla coscienza – bombardare una popolazione
intera che non uccidere una singola persona. Una popolazione bombardata è solo
qualche lucetta su di uno schermo, mentre una persona uccisa è un realtà di
cui la coscienza avverte tutto il peso. Ecco perché l’attuale società riesce
a far sopportare una quotidiana carneficina scientificamente organizzata:
perché rende sempre più opaca la relazione fra i gesti e le loro conseguenze.
Dalla speculazione finanziaria alla produzione militare, dalle necrotecnologie
al nucleare, ciascuno troverà da sé gli esempi.

Un "circondo per
viverci dentro" è un luogo in cui l’attività non si separa dalla sua
rappresentazione (sia questa intesa in senso politico, come delega, in senso
mediatico, come sistema di immagini da contemplare passivamente, oppure in senso
mentale, come offuscamento della coscienza).

Un’altra
caratteristica decisiva dell’attuale società è che essa ha sottratto le
tecniche (di produrre, di costruire, di scambiare) ad ogni dimensione locale e
comunitaria, allontanandole in una megamacchina le cui conseguenze sono
sempre più irreversibili. Dalle scorie nucleari alle mutazioni genetiche, la
tecno-scienza ha perso ogni carattere sperimentale – dunque reversibile –
perché i suoi esperimenti hanno già il mondo come laboratorio – e non
c’è alcun mondo di riserva.

Un "circondo per
viverci dentro" è un luogo in cui la questione dell’efficacia tecnica è
sempre subordinata a considerazioni etiche e sociali, in cui si può tornare
indietro quando una strada porta all’impoverimento dei rapporti umani, alla
specializzazione gerarchica, al potere. Solo un’ideologia totalitaria
legittima come scientifico tutto ciò che è tecnicamente realizzabile,
imprigionando così il divenire umano in una successione meccanica senza fine.
Un progresso degno di questo nome – nei costumi, nella mentalità, nei
rapporti sociali – va cercato contro questa marcia forzata.

Una ruota di
scorta

L’ecologia di Stato
– di cui il vertice di COP9 a Milano rappresenta un bel concentrato – è
solo la ruota di scorta della società industriale. Anzi, essa è sempre più la
gestione poliziesca delle "risorse ambientali". Senza mai
mettere in discussione la dipendenza generalizzata dalle materie e dalle
tecnologie più inquinanti, cerca di "moralizzare" i cittadini
atomizzati sottoponendoli ad ulteriori controlli e vessazioni. Visto che questa
società non sa più dove mettere i propri rifiuti (in senso stretto e lato),
andiamo a frugare nella spazzatura di ogni famiglia e puniamo gli spreconi…

Un fulgido esempio di
questo ecologismo è la proposta fatta da Legambiente in merito alle nuove
energie per bloccare i gas serra. Per tutta la durata del vertice, inviando con
il telefono cellulare due sms da un euro l’uno si contribuisce non solo a
diffondere il cancro, ma anche – bontà delle compagnie della telefonia mobile
– ad acquistare una centrale eolica nello Swaziland, in Africa. Se talvolta
questi ambientalisti di corte lanciano allarmi catastrofisti (sull’ozono, sui
ghiacciai, sulla scarsità dell’acqua) è solo per spingere ancora di più i
civilizzati attorno alle istituzioni e ai loro pretesi esperti. Per farla breve,
quest’ecologia è la soluzione statale a problemi statali, la soluzione
capitalista a problemi capitalisti.

Finora la più bella
– e involontaria – risposta al vertice dei distruttori del pianeta l’hanno
data gli auto-ferro-tramvieri milanesi annunciando il caloroso ritorno di quel
gatto selvaggio di cui da tempo si avvertiva l’assenza. Al di là delle loro
rivendicazioni salariali, sostenute fuori da ogni messa in scena sindacale,
questi "irresponsabili", questi "criminali", questi
"terroristi urbani" (come li ha definiti il coro mediatico e politico)
hanno posto un importante problema di ecologia sociale: quello degli spostamenti
nelle metropoli. Un semplice blocco della rete dei trasporti ha paralizzato un’intera
città. I cittadini, invece di interrogarsi su quanto realmente controllano
della propria vita e della propria mobilità, hanno urlato allo scandalo,
assembrati sui marciapiedi, rinfacciandosi l’un l’altro il fatto stesso di esistere.
Non sono mancati gli ecologisti che hanno rimproverato agli scioperanti di aver
fatto aumentare l’inquinamento a causa del traffico automobilistico
supplementare (come se i ritardi o le assenze sul posto di lavoro non avessero,
in realtà, pulito un po’ l’aria…).

Una sensibilità
e il suo mondo

Ci sono state, negli
ultimi anni, alcune lotte che hanno saputo intrecciare l’esigenza dello
scontro e dell’azione diretta con la realtà e il sogno di un "circondo
per viverci dentro". Penso alle tante iniziative ed azioni in solidarietà
con Marco Camenisch. Mi sembra che queste abbiano saputo più volte superare i
limiti presenti in genere nelle mobilitazioni a sostegno di qualche detenuto
particolare, comunicando una sensibilità e il suo mondo. Mi spiego. Di
fronte alla repressione c’è spesso la tendenza quasi a sospendere le proprie
lotte per parlare di carcere e dei compagni dentro, riducendo –
involontariamente – la partita ad un conflitto fra noi e il potere. Nel caso
della solidarietà con Marco, invece, si è partiti dalla sua lotta e si è
impostata la battaglia per la sua liberazione nel senso di continuare e
rafforzare le ragioni per cui è stato arrestato: la critica pratica delle
nocività ambientali e sociali. Sappiamo per esperienza che quella resistenza
alla tirannia del progresso ha saputo parlare non solo ai compagni, ma anche ad
altri, e che alcuni montanari e pastori hanno sentito Marco come uno di loro. Lo
stesso ho notato a tratti nella campagna contro Benetton. Le iniziative contro
le multinazionali portano di frequente a trascurare il normale dispotismo
della produzione industriale per concentrarsi sugli eccessi di una certa
economia globalizzata – penso sia inutile fare esempi. Aver legato le
devastazioni ambientali provocate dalla Benetton alla vita e alla resistenza dei
Mapuche ha saputo avvicinare il problema, invece di allontanarlo in un esotismo
dalle tinte solidali. Sono piccole tracce. Che un’opposizione alle nocività
basata sull’azione diretta possa generalizzarsi lo dimostra, tuttavia, quanto
è accaduto recentemente in Basilicata. Non sto dicendo che bisogna parlare più
di ambiente e meno di carcere. Tutt’altro. Sto dicendo che è possibile porre
il problema del carcere – nei discorsi e nelle pratiche – in senso sociale,
e non partendo dalle "sfortune nostre". Il modo migliore di essere
solidali con i compagni prigionieri è radicalizzare le nostre lotte nel loro
insieme.

Non c’è dubbio che
si stia alzando un forte vento repressivo. Penso che la posta in gioco decisiva
sia quella di riuscire a leggere questa repressione. Le attuali
condizioni i vita e di lavoro possono essere imposte con un uso sempre più
massiccio del terrore (terrore di rimanere disoccupati, di non riuscire a pagare
gli affitti sempre più esorbitanti, terrore della polizia e del carcere). La
repressione agisce contro individui atomizzati, sempre più dipendenti da un
modo di vita in liquidazione che li sta rendendo incapaci di ogni solidarietà
materiale e ideale. È un errore astrarre gli attacchi repressivi da questa
disintegrazione progressiva del mondo – nel senso di un’esperienza
diretta della realtà e dei propri simili, fuori dalla campana di vetro
mediatica e mercantile, fuori dagli appartamenti-loculi di un’urbanistica
concentrazionaria. Saper leggere la repressione significa anche non cadere nell’illusione
che il potere ci colpisca perché siamo una reale minaccia (con tutte le
chiusure identitarie che una simile illusione comporta). Se, come diceva
qualcuno, siamo un detonatore, scopo del potere è quello di isolarci da ogni
materiale esplosivo, cioè da ogni contesto sociale di lotta. Noi dovremmo fare
– con la parola e con l’azione – l’esatto contrario.

Nell’ambiente
anti-industriale si fa spesso riferimento, giustamente, all’insurrezione
luddista contro il macchinismo (1811-1813). Se il governo inglese dovette
impiegare contro i distruttori di macchine più soldati di quelli impiegati
contro le truppe napoleoniche è perché aveva di fronte un’autentica sommossa
sociale, anonima e senza capi. Una sommossa in cui l’arma del sabotaggio –
da sempre strumento per eccellenza di lotta proletaria – portava con sé un
"circondo per viverci dentro". Che fosse all’opera una vera e
propria intelligenza sociale, lo dimostra il fatto che, durante gli
assalti ai macchinari industriali, venivano risparmiate quelle macchine che
potevano essere utilizzate, scambiate e riparate su base locale e comunitaria,
cioè fuori dal sistema della fabbrica. A dispetto delle accuse da parte di
tutti gli storici progressisti e marxisti, in quella rivolta non c’era nulla
di "cieco". Un’economia di sussistenza che faceva un largo uso delle
terre collettive si scontrava con il sistema della proprietà, un’autonomia
nell’arte di costruire le case e di produrre, all’incrocio fra borgo e
campagna, si scontrava con la deportazione nelle città. L’industrialismo ha
dovuto educare – a bastonate – le sensibilità per renderle adatte al suo
mondo, alle sue tecniche, ai suoi valori.

La repressione è il
bulldozer di un capitalismo distruttore di mondi, di una civiltà che isola le donne e gli uomini per poi socializzarli nelle proprie comunità
virtuali.

L’utopia nel
fango

Mi sembra che la
situazione attuale sia gonfia di possibilità. Se non fossimo spesso incapaci di
praticare la poesia, cioè "l’arte di fare matrimoni e divorzi illegali
fra le cose", come diceva Bacone, coglieremmo molti nessi tra situazioni
apparentemente distanti fra loro. Un esempio può essere quello già fatto
prima, dello sciopero selvaggio dei tramvieri il giorno di apertura della
conferenza sull’ambiente. Ce ne sono tanti altri. Mi piacerebbe, a questo
proposito, che si approfondisse una discussione i compagni: la guerriglia in Iraq e le
questioni che apre.

Quanto sta accadendo
laggiù conferma una verità enunciate spesso dai rivoluzionari: ciò che nessun
esercito potrebbe fare (fronteggiare e mettere in serie difficoltà la più
grande potenza militare del mondo), riesce a farlo una guerriglia sociale.
Questo suggerisce una volta di più la necessità di pensare diversamente –
anche in situazioni molto più piccole – il concetto di forza. Ma non è tanto
di questo che mi interessa parlare, anche perché abbiamo ben poche informazioni
sul ruolo che gioca nella resistenza irachena il clan legato al vecchio regime
(per quanto l’estrema diversificazione delle tecniche di attacco alle truppe
di occupazione suggerisca che è in atto uno scontro sociale non riducibile a
una guerra fra poteri). Così come do qui per scontata l’importante occasione
che abbiamo, soprattutto dopo Nassiriya, di parlare di chi sono i veri
terroristi (gli Stati e loro servi), visto l’uso propagandistico – con le
sue immediate ricadute repressive – che viene fatto dell’"allarme
terrorismo". I governanti sanno collegare fin troppo bene il Nemico esterno
(chi ostacola le aggressioni militari) al Nemico interno (chiunque esca dal coro
del consenso). Dovremmo trarne, in fretta, qualche lezione.

La situazione irachena
offre, invece, diversi spunti in merito al rapporto già accennato fra società
industriale, emergenza ecologica e repressione. Ne sottolineo un paio.

La questione del
petrolio. Molti studi commissionati dalle compagnie petroliferi sono concordi
nell’indicare entro i prossimi dieci anni l’esaurimento delle risorse di
greggio (non l’esaurimento assoluto, bensì di quella parte di petrolio
estraibile con un impiego di energia inferiore a quella ricavabile dal petrolio
estratto). La curva indicata per il gas naturale non è di molti anni più
lunga. Gli stessi studi ci informano che tutte le energie alternative (nucleare
compreso) non riuscirebbero a soddisfare nemmeno la metà dell’attuale
fabbisogno. Senza entrare qui nel dettaglio (rinvio, a questo proposito, a Le
grandi crisi ambientali globali. Un sistema in agonia, il rischio di guerra

di Alberto Di Fazio, nel volume collettivo Culture per la pace,
Manifestolibri, Roma 2003), una questione si pone. Anche non pensando che il
capitale sia sprovvisto di progetti alternativi, tenuti per il momento
opportunamente nascosti, non c’è dubbio che il problema esiste, e che mette
in luce alcuni limiti storici – se non addirittura ecologico-planetari –
della presente organizzazione sociale. Tanto per fare un esempio, pensiamo che l’odierna
agricoltura dipende al 95% dal petrolio (diserbanti, pesticidi, trattori,
industrie per fabbricare i pezzi dei macchinari e degli altri strumenti, mezzi
per assemblarli e trasportali, centrali per permettere tutto ciò, e così via).
Questa società del petrolio ha talmente generalizzato la dipendenza da
un’unica risorsa (persino l’estrazione e la distribuzione dell’acqua vi
sono subordinate, e non solo per i famosi pozzi tubolari azionati dai motori
diesel) che la scarsità di tale risorsa si sta configurando come una
catastrofe. Soluzioni alternative o meno, il salto non sarà indolore, e i
dirigenti lo sanno.

Sbaglia chi vede nella
guerra in Iraq – e questo è il secondo punto che volevo sottolineare – solo
un’occupazione militare per accaparrarsi le risorse energetiche di quella
regione (c’è anche questo, certo, come dimostra il ruolo fondamentale delle
compagnie petrolifere nel sostegno all’amministrazione Bush). Quella in corso
è una gigantesca sperimentazione politica e sociale: testare le capacità di
resistenza di intere popolazioni poste in situazioni limite, situazioni che in
futuro saranno sempre più frequenti. L’Iraq è un laboratorio (di
investimenti economici, di strategia militare, ma soprattutto di ingegneria
sociale). Il dominio – si tratti di necrotecnologie o di petrolio – sta
realizzando sempre di più una sorta di experimentum mundi: di
sperimentazione sul mondo in quanto tale. I civilizzati devono essere abituati a
tutto ciò con dosi sempre più massicce di controllo, di vessazioni, di
terrore. Negli Stati Uniti ci sono attualmente più detenuti che contadini. Di
fronte a questa realtà, gli accordi di Kyoto sono una macabra presa in giro, o,
meglio, un ultimatum che suona così: non avrai altro mondo all’infuori di me.
E qui casca il sipario di ogni ecologia che non voglia sovvertire questa
società e le sue istituzioni. Tutte le energie alternative del mondo, tutte le
coltivazioni biologiche più attente si scontrano con questo fatto: quando l’agricoltura
stessa, ormai interamente meccanizzata, non può fare a meno di un sistema di
morte, non c’è nulla da riformare. Ecco cosa ci stanno dicendo la guerra e la
guerriglia in Iraq.

Nessuna illusione. Il
"circondo per viverci dentro" che abbiamo nel cuore nascerà dal
fango, ma anche nel fango bisogna affermare sempre il modo di vita per cui ci
battiamo.

un amico di Ludd

 

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