Introduzione: vivre libres ou mourir
Il nostro sogno è vivere liberi, distruggere ogni forma di potere costituito
ed ogni gerarchia che ne sono la negazione.
Per noi la libertà non può essere separata dal piacere. Siamo
però disposti a sforzi titanici per realizzare libertà e piacere.
Consapevoli che non esiste libertà nel sacrificio e nell’immolazione.
In questo senso l’esperienza più completa che oggi ci prendiamo il lusso
di vivere è quella dell’autogestione cui fa spazio l’azione diretta,
intesa come esperienza aperta, collettiva, estendibile, che se ne infischia
dei recinti tracciati dallo Stato tra legalità e illegalità.
L’occupazione degli spazi abbandonati riunisce queste prerogative ed apre la
strada, nel modo più corretto, all’autogestione. Lo sviluppo dell’autogestione
della nostra vita non è praticabile senza sovvertire l’esistente.
L’autogestione
é la forma di gestione dell’anarchia. II suo cuore pulsante.
Autogestione è la possibilità di stabilire secondo il principio
della responsabilità individuale ed il metodo dell’unanimità
(non certo quello – democratico – della maggioranza), le regole della propria
esistenza.
Autogestione per offrirsi la possibilità di riunificare sfere separate
dell’esperienza umana: pensiero e azione, attività manuale e attività
intellettuale, per riconquistare quella completezza che ci è stata sottratta
dalla specializzazione delle attività imposta dalla cultura del potere.
Perché l’autogestione è la forza prima dell’occupazione
ed è la premessa indispensabile alla sua evoluzione in senso sovversivo.
Fin dal lontano 1988 gli occupanti di El Paso scrivevano sul bollettino dei
Centri Sociali che gli occupanti si ponevano come soggetti della loro azione,
primi fruitori, primi ad averne soddisfazione.
L’occupazione parte dalla necessità di soddisfare bisogni reali
di casa – spazio espressivo – socialità – non mercificazione – estraneità
alle regole alienanti delle istituzioni.
Solo questo interesse diretto, il desiderio di concretizzare queste forti aspirazioni
negate dà la forza agli occupanti di superare le fasi repressive, di
passare di sgombero in sgombero, di denuncia in denuncia fino a riuscire ad
aprirsi uno spazio ed iniziare realmente l’autogestione collettiva. E
di sopportare le mille angherie del potere contro i posti occupati (controlli-irruzioni-nuove
denunce).
II fatto che gli occupanti rivolgano egoisticamente prima di tutto verso di
sé i risultati delle loro azioni e dell’autogestione è la
migliore garanzia di genuinità del loro discorso. Chi vorrà fare
altrettanto trova così già sperimentata una strada nuova. In questo
modo senza dover rinunciare alla lotta politica o meglio alla lotta per la distruzione
della politica, gli occupanti si negano come avanguardia militante staccata
e si propongono come primi fruitori del loro operato, mettendosi in gioco personalmente.
La bontà del loro esperimento di vita e la carica sovversiva delle loro
proposte si vedranno dagli esiti dell’autogestione dentro e fuori dagli
squatt.
Gli occupanti personalmente coinvolti, non più soltanto sul piano dell’astrazione
ideologica – come lo erano i militanti dei collettivi politici – avranno così
mille buone ragioni per combattere a fondo per la realizzazione dei progetti
autogestionari che li vedono protagonisti di un immediato miglioramento della
qualità della loro vita dovuto alla riappropriazione di spazi di libertà
sottratti dal potere.
Si realizza così il superamento completo in senso sovversivo della triste
ed anacronistica figura del militante politico-ideologico degli anni ’70
incompatibile nella dinamica dell’autogestione. E con la sua scomparsa
trovano anche vita difficile le pallide figure dei gregari e degli omo-massa
di manovra di piazza, futuri voti di sinistra. Una rottura netta con l’alienazione
politica di matrice marxista-leninista che ha prodotto i ben noti disastri degli
anni ’70 e ’80.
Uno schiaffo in faccia alla massificazione che presuppone delega e gerarchia,
divisioni di ruoli ed organizzazione rigida. Un schiaffo al quantitativo come
criterio centrale di valutazione di tutte le iniziative e le idee.
Concetto quantitativo ‘con ogni mezzo necessario’ che sta alla base della tanto
propagandata politica dell’aggregazione.
L’autogestione rinchiusa muore
L’autogestione è la premessa indispensabile per lo sviluppo di
una pratica sovversiva della socialità.
Ciò si evidenzia con forza nelle occupazioni.
Ma l’autogestione costretta tra le mura di una occupazione muore.
L’idea e la pratica sovversiva libertaria non si possono esaurire nella
conservazione di uno spazio, anche se occupato. II loro sviluppo esclude una
dimensione statica.
L’idea stessa di autogestione non è concepibile se non estesa
a tutti gli aspetti della vita e non può accettare la reclusione tra
quattro mura. L’autogestione reclusa diventa inevitabilmente autogestione
della miseria, autogestione del ghetto.
Aggrapparsi alle briciole cadute dal banchetto dei potenti quando c’è
tutto da riconquistare è un discorso di meschina conservazione che ci
è estraneo, che è congeniale invece ai piani di controllo e di
recupero del potere.
Le esperienze dei centri sociali e delle case occupate degli anni ’80
in Italia e le esperienze internazionali, ci danno un quadro chiaro della triste
fine toccata alle realtà autogestite che si sono chiuse su se stesse.
Le tappe percorse nell’autospegnimento sono ricorrenti: gran scarsità
di attività rivolte verso l’esterno. Soprattutto nessuna attività
politica. Qualunque attività politica, vissuta come inizio di corruzione,
viene demonizzata e identificata – non con tutti i torti – come inutile attività
sacrificale.
Ci si specializza a calcare altre gabbie: quella della creatività ‘artistica’-artigianale,
l’autocostruzione, l’autoproduzione, il lavoro collettivo o il divertimento:
sesso, droga, rock’n’roll.
La caratteristica e la specializzazione degli autogestori in una o in alcune
di queste attività separate dal resto del vissuta che non viene affrontato
se non, quando ci si sbatte il muso, individualmente.
Fra le prime forme ’politiche’ a cadere è l’assemblea:
un’inutile perdita di tempo. Superflua in aggruppamenti di pochi individui,
strumentalizzabile da loquaci capetti, mai esauriente a causa dei suoi stessi
limiti, l’assemblea rimane uno strumento di confronto e decisione collettiva
non sostituibile negli squat popolosi e ricchi di iniziative. é infatti
indispensabile ai capi in formazione evitare troppi confronti, specialmente
collettivi, per poter imporre le loro iniziative come fatto compiuto.
I gregari, da parte loro, sono ben lieti di non dover perdere tempo in un frustrante
luogo, dove si esprimono altri, che li vede sempre muti e passivi.
La delega si sviluppa come naturale modo di rapportarsi, con essa la calunnia
e il mugugno come valvole di sfogo del malcontento.
Con la chiusura delle attività rivolte all’esterno prevale lo spirito
di banda, naturalmente gerarchico. E la divisione dei ruoli secondo questa gerarchia.
Si creano così capi e sottocapi e semplici comparse. Veri capi che decidono
senza neanche consultare gli altri ma che ‘annusano’ l’aria che tira. L’applicazione
delle decisioni dei capi tocca a sottocapi rintracciabili nel gruppo dei fedelissimi
che ruota attorno al capo.
Anche in situazioni di sovraffollamento prevale il rapporta amicale – qua siamo
tutti amici – che porta come conseguenza la formazione quasi immediata di rapporti
mafiosi. Non c’è più infatti un accordo comune cui ogni
individuo aderisce perché l’ha scelto liberamente discutendone
con gli altri e approvandolo secondo il metodo dell’unanimità. Ma tutta
è ammesso da chi è amico dell’Amico, nulla da chi cade in disgrazia
o è considerato esterno alla banda. Si perpetrano privilegi (miserabili)
e soprusi, senza nessuna possibilità di far valere le proprie ragioni
in un momento di confronto collettivo che non esiste più. Gli unici modi
per farsi valere sono la forza e l’intrigo.
Esplodono all’interno dello squat tutte le tensioni individuali accumulate
all’esterno e sul posto. Non vi è più nessuna possibilità
di rovesciarle fuori, da dove provengono, mancando attività ed azioni
rivolte fuori.
Se sopravvivono attività per l’esterno si tratta di cose ‘tranquille’:
produzioni artigianali scadenti e superflue, sottoservizi sociali erogati con
un entusiasmo paragonabile solo a quello dei parastatali, prevalentemente spettacolini.
Tutto viene fatto pagare, non per alimentare nuove iniziative d’autogestione,
ma per mantenere i gestori dell”autogestione’. Costante impoverimento d’idee
che non hanno più confronto se non nel privato. Ritrovo solo su attività
rituali, risalenti all’epoca in cui nel gruppo c’era un feeling,
ripetute stancamente. Evidente permanenza nello squat per incapacità
di crearsi altre, più ambite, opportunità e non per scelta.
Tendenza, col passar del tempo, a privatizzare tutti gli spazi ed adattare
quelli che non
servono per abitazione a simpatiche botteghe con le quali si cerca di sbarcare
il lunario. Trasformazione del posto occupato in un’immensa bottega degradata
su cui vorrebbero vivere tutti gli occupanti, coltivando l’illusione di
sottrarsi al confronto con il resto del mondo.
A questo punto non si può neanche parlare di autogestione della sfiga
ma solo di sfiga.
All’interno dell’occupazione si sono riprodotti, scimmiottati malamente,
tutti i meccanismi dell’alienazione, e dell’autoritarismo, dello
sfruttamento e del semplice conformismo, da cui si sfuggiva occupando.
Lo squatter, prima rinuncia all’azione diretta, appagato da quella che
l’ha portato alla conquista del posto. Credendo di poter vivere nell’isola
felice rinuncia man mano all’autogestione. Ma lo squatt perdendo l’autogestione
perde il suo spirito, la sua identità. Non è che la spazzatura
dello stato delle cose.
L’azione diretta
Com’è noto l’atto dell’occupazione di uno stabile
è una forma dell’azione diretta: illegale – collettiva – condotta
apertamente che porta un gruppo di individui a riconquistarsi uno spazio vitale
precedentemente sottratto alla collettività dal potere.
La pratica anarchica dell’azione diretta ravviva l’autogestione
delle occupazioni esistenti conferendo al popolo degli squat la giusta dimensione
dinamica che può trasformare le occupazioni da ricettacolo di tutte le
miserie di tutti i diseredati, avanzo dello stato delle cose in esperienza dilagante
di liberazione.
Noi che coltiviamo il gusto dell’avventura ed il libero scorrere delle
passioni vediamo che solo attraverso la pratica continuata dell’azione
diretta, saltando fuori dalle quattro mura, superando con indifferenza i confini
del lecito imposti dallo Stato, riusciamo ad aprire nuovi spazi all’autogestione
della nostra vita al di là dagli squat, ed ad infondere nuova carica
alle occupazioni esistenti. Insomma a diffondere qui ed ora la pratica dell’autogestione
generalizzata.
L’etichetta dell’autogestione
Nel variegato panorama delle occupazioni in Italia spicca tutta una serie di
Centri Sociali per la loro singolare interpretazione dell’autogestione.
In questi Centri prevale nettamente l’alienazione politica sulle altre
forme di alienazione (alienazione artistica, esistenziale, produttiva). Sono
i Centri dove ancora si trascinano gli zombi della militanza sacrificale. La
loro matrice è marxista-leninista con qua e là qualche coloritura
stalinista o maoista. Qui, e solo qui, l’ideologia non è mai morta, il
tempo si è fermato, circolano barbe, eskimo, santini del Che e falci
e martello in 3D.
L’unico reale motivo per cui sono sorti è l’aggregazione
di masse su obbiettivi politici decisi dai vertici delle organizzazioni politiche
cui fanno capo. Non stupisce infatti che questi Centri non presentino che forme
larvali d’autogestione: un discorso che non si pratica. Buono però
per essere sventolato come una bandiera.
Alcuni di questi CSA spiccano per una gestione strumentale, spettacolarizzata
e centralizzata della musica. Accomodantissimi con la mercificazione ed il rock-star
system.
Se l’obbiettivo è aggregare gente, è meglio che suoni il
Gruppo famoso, ancorché puttane al servizio dei capitali di qualche grande
multinazionale discografica, verrà più gente. E che il Grande
Gruppo suoni nel Grande Centro Sociale della metropoli dove, … verrà
più gente.
Scarsa e saltuaria pratica dell’autocostruzione ed altrettanto scarsa,
saltuaria e ritardata pratica dell’autoproduzione. Autoproduzioni scimmiottate,
con notevolissimo ritardo da quelle dei libertari. Ma subito ‘ammodernate’ con
audaci snellimenti in linea con il pensiero macchiavellico-gesuitico che giustifica
ogni mezzo per raggiungere il supremo fine. Autoproduzioni ed autogestioni della
musica impantanate nel business, nella mercificazione, nella pubblicità.
Che portano il marchio sterilizzante di tutte le attività nate strumentalmente
per volontà superiore.
I CSA che fanno dell’autogestione la loro sigla non sono affatto immuni
dalla richiesta di sovvenzionamenti statali e dalla richiesta di servizi allo
Stato (ristrutturazioni, manutenzioni, forniture di materiali), per fornire
altri servizi alla collettività, s’intende. Cosi ci spieghiamo
meglio l’approccio turistico alle tematiche dell’autocostruzione.
Buona cosa sarebbe che i Centri Sociali sovvenzionati dallo Stato Italiano
uscissero dall’equivoco rendendo noto a tutti che la lettera finale della
loro sigla sta per Assistito e non per Autogestito.
Ma soprattutto in molti CSA sopravvive un sistema decisionale verticale basato
sulla gerarchia e sulla delega che nulla hanno da spartire con l’autogestione.
Questi Centri si preoccupano ben poco della diffusione della pratica autogestionaria
ma curano molto la politica ‘di partito’ predeterminata dai vertici dell’organizzazione,
dove il Centro Sociale svolge il ruolo di cinghia di trasmissione. La centralizzazione
di tutto nel Grande Centro
Sociale produce effetti devastanti di impoverimento della periferia, sicché
lo slogan 10-100-1000 occupazioni suona come una betta.
Molti CSA infine, sono più che disponibili ad una pratica autoriformista
e compromissoria con il potere divenuto, da controparte, interlocutore dal quale
bramano sicurezze, riconoscimenti, garanzie, contratti, diritti e soldi. Specialmente
se una parte istituzionale – i partiti di sinistra – li appoggia (seppure per
innominabili motivi di propaganda elettorale). Risbuca come uno spettro il mito
dell’Unità su comuni basi ideologiche. Fingendo di non sapere si
arriva a gabellare la legalizzazione – che nel resto dell’Europa occidentale
è stata la fine delle occupazioni – come una vittoria politica…
In effetti, con una buona dose di cecità, ci si può illudere
che le lotte antagoniste si possano condurre anche da Centri legalizzati, sovvenzionati,
ristrutturati, regolamentati e controllati dallo Stato.
Quella che sicuramente non si può sviluppare in simili condizioni è
l’autogestione.
L’autogestione richiede la massima libertà per poter crescere.
E l’autogestione praticata dagli occupanti è l’unica base
coerente per uno sviluppo della sovversione fuori e dentro dagli squat.
La spettacolarizzazione
Dalla loro nascita fino a pochi mesi fa, le gesta degli spazi occupati in Italia
sono sempre state censurate dalla grande informazione asservita (stampa, radio,
TV). La loro spettacolarizzazione veniva diffusa solo per produrre servizi riempitivi
e di colore controculturale o come episodi di cronaca nera. L’immagine
dello squatter gettata in pasto alle masse oscillava dal variopinto giovine
punk al ‘terrorista’ in erba, autonomo o anarchico. Su tutti il sospetto di
essere solo dei drogati.
Quando gli occupanti con le loro azioni mettevano in crisi qualche aspetto
dello stato di fatto allora si ricorreva alla seconda immagine, poco rassicurante,
di eredi degli estremisti picchiatori degli anni ’70, pazzi arrabbiati,
completamente isolati dal contesto civile. Altrimenti, d’estate compariva qualche
servizio di colore su questi strani ragazzi che non vogliono saperne di lavorare,
si bucano le orecchie, si tatuare come animali ed ascoltano il rock. Sempre
aperta, con iniziale stupore degli stessi occupanti, la rubrica degli spettacoli
sulla grande stampa.
La democratica apertura agli aspetti spettacolari-culturali degli spazi sociali
è un dato che fa riflettere.
Attraverso la grande stampa, gli spazi sociali hanno potuto presentare alle
grandi masse la faccia spettacolare-assistenziale vedendo sistematicamente censurata
o travisata tutto il resto. Una mutilazione significativa e non casuale nell’immaginario
collettivo.
Questa situazione è rimasta immutata per anni. Ma le cose cambiano.
Da qualche tempo, e precisamente da quando il CSA Leoncavallo è stato
messo sotto sgombero, abbiamo assistito al disgelo di grandi e meno grandi organi
di manipolazione del consenso in mano alla sinistra istituzionale, nei confronti
della sinistra estrema, prevalentemente Autonomia, presente nei CSA.
Due esempi: i servizi fiume sui bravi ragazzi del Leonka su RAI3, il Manifesto
che si trasforma in tribuna dell’Autonomia sulla questione dei Centri
Sociali.
Cos’è successo?
Da una parte la sinistra istituzionale, PDS, Rifondazione, Rete, Verdi, ha
deciso di iniziare la sua campagna elettorale contro la Lega vittoriosa a Milano
utilizzando lo sgombero del Leoncavallo.
Si tratta di un caso esemplare di opportunismo politico degli ex-PCI che nell’89,
al governo della città insieme al compagno Craxi, avevano sgomberato
militarmente e raso al suolo gran parte del Leoncavallo. Ma il ghiotto spunto
antileghista ha fatto si che mutasse improvvisamente la valutazione politica
sui Centri Sociali.
Da parta dell’Autonomia, che dirige il Leoncavallo, si affianca alla
scelta di salvare ‘con ogni mezzo necessario’ il più antico e rinomato
Centro Sociale d’Italia, l’evidente decisione – a livelli di vertice
– di ricercare una qualche legittimazione dallo Stato.
A Milano come a Roma l’Autonomia cerca la forza politica necessaria per
strappare un qualche riconoscimento allo Stato. Ma questa forza non c’è
ed è necessario stringere alleanze e formare schieramenti.
Ed ecco risbucare un antico arnese che vien fuori ciclicamente quando l’estrema
sinistra è in crisi di idee e progetti. L’alleanza su basi ideologiche
con la sinistra istituzionale.
A Roma l’abbraccio osceno porta i CSA a raccogliere firme per la legalizzazione
insieme all’ARCI ed ai boy-scout e ad appoggiare Rutelli in campagna elettorale.
Ma è a Milano che il ‘Fronte popolare’ unito attorno al Leoncavallo trova
la sua espressione più compiuta nello spettacolo. Interviste, tavole
rotonde, servizi interminabili, cortei, presidi, contropresidi, artisti, saltimbanchi,
pagliacci, martiri, premi Oscar, intellettuali progressisti, ghisa e poliziotti,
paginoni di giornali e mamme preoccupate. Fiction e realtà si miscelano
e tutto quanto fa spettacolo, che tutto tramuta in spettacolo.
E con la spettacolarizzazione passa la sterilizzazione.
Tutto succede in un grande spettacolo, e lo spettacolo domina la vita.
II Centro Sociale che aveva scelto come mezzo per difendersi le molotov nell’89
ora sceglie di difendersi con i TG dei suoi sgomberatori. E le condizioni sono
durissime. Due mesi di spettacolo Leoncavallo lo chiudono in un vicolo cieco
definito via via dai compagni della sinistra istituzionale. II Centro trasloca
provvisoriamente all’estrema periferia sottoscrivendo condizioni molto limitative
qualora fossero applicate.
E quando il Leonka sgarra uscendo dal copione concordato con la sinistra partitica
e succede qualcosa che non piace ai compagni padroni dell’informazione,
arrivano le bacchettate prima ed il silenzio della censura dopo.
Intanto per mesi è passata su tutte le TV e tutti i giornali l’immagine
sconsolante imposta come prototipo del Centro Sociale. Quella che piace ai partiti,
Centri Sociali come luogo di erogazione di servizi per emarginati, extracomunitari
di colore, luogo del reinserimento dei casi pietosi, luogo del ‘tempo libero’,
degli sfigati, contenitore e riproduttore di sottocultura giovanile, centro
d’aggregazione di tensioni che evidentemente vi si sublimano, nobilitato
solo dal fatto d’essere di sinistra e di costituire, in definitiva, un
serbatoio di voti e di quadri per i partiti di sinistra.
In sostanza Centro Sociale come luogo assistito e supplementare della riproduzione
del conformismo e della normalizzazione attraverso la somministrazione di servizi
di cui è carente lo Stato rivolto a quei soggetti marginali che moltiplicandosi
nelle grandi città potrebbero divenire un problema per l’ordine
pubblico.
Questo, forse, l’aspetto più inquietante della spettacolarizzazione
attuato da tutta la sinistra unita sul Leoncavallo.
La legalizzazione all’estero
Nonostante la diversità di evoluzione e di storia delle occupazioni
del Nord Europa, alcune osservazioni sono possibili, soprattutto sul rapporto
intercorso tra il "movimento" degli squatter ed il potere.
La legalizzazione, uno dei più efficaci rimedi contro i disturbi della
sovversione, è stata utilizzata, soprattutto dai regimi social-democratici,
per smorzare le spinte più radicali e apertamente sovversive.
Già anni fa il piano TREVI, congeniato da vari ministri degli Interni
della CEE contro ogni sovversione sociale, consigliava due strade per risolvere
il problema degli squat: l’intervento diretto della forza pubblica oppure
il ricorso a "…processi graduali di legalizzazione / integrazione"
(da Um. Nova, 28/11/93).
Ecco in breve alcuni dei fenomeni che la legalizzazione ha prodotto nelle grandi
città europee, Amburgo, Berlino, Ginevra, Parigi, Zurigo:
Separazione negli intenti e soprattutto nella pratica fra squatter e legalizzati.
Le case legalizzate, normalmente, non danno la solidarietà a quelle illegali
minacciate di sgombero.
Una volta conquistato l’alloggio e il proprio spazio vitale attraverso
un contratto con il proprietario, la tensione degli ex-occupanti si smorza,
questi si vedono meno sovente alle manifestazioni e alle lotte, il ménage
domestico prende il sopravvento sulla voglia di agire.
A Berlino e Amburgo nel movimento di occupazioni dei primi anni ’80 gli
squat illegali si sono via via ridotti di numero fino a scomparire, congiuntamente
anche le lotte più radicali si diradano.
I contratti vincolano gli occupanti.
Le case sotto contratto vengono ristrutturata secondo accordi con il proprietario,
graffiti e facciate vengono ridipinti, il proprietario esige il pagamento di
un affitto. Lo squatter si trasforma da potenziale sovversivo a normalissimo
affittuario assistito.
Nasce il business alternativo.
Da Berlino a Ginevra sono molti i Centri Sociali legalizzati che pagano i loro
baristi, chi attacchina i manifesti, il cassiere che stacca i biglietti.
Business della musica, dello spettacolo, delle feste: anche nei locali più
alternativi gruppi teatrali, cinefili e musicali, chiedono sovvenzionamenti
al Comune calpestando allegramente per un pugno di soldi i principi elementari
di indipendenza, autofinanziamento ed autogestione, pur mantenendo l’etichetta
alternativa. Inoltre non è raro che accettino di pagare le varie gabelle
che lo Stato impone su musica e spettacolo.
Isolamento dei discorsi più radicali.
Iniziative ed azioni, manifestazioni e lotte vengono proposte ad un movimento
già appagato dall’illusione di aver strappato qualche metro quadrato
ai pescecani. Nella pratica dell’azione diretta il movimento infatti si
esprime in scadenze fisse e spettacolarizzate; un esempio eclatante è
il rito sportivo del Primo Maggio berlinese.
Ad Amburgo, nonostante la rinomata radicalità delle azioni di Hafenstrasse,
gli squat sono tutti legalizzati. Chi occupa viene sgomberato in 24 are. Alcuni
squatter sono arrivati ad affrontare il problema abitativo vivendo in roulotte.
La stessa soluzione e stata adottata a Bema: Zaffaraya è un campo di
roulotte e camion alla periferia abitato da una ventina di squatter.
Le responsabilità politiche dl chi vuole la legalizzazione
Negli ultimi tempi si sono evidenziati per la loro presunta simpatia per i
Centri Sociali quasi tutti i partiti di sinistra; ciò naturalmente è
accaduto soprattutto per l’antagonismo strumentale che hanno voluto far apparire
nei confronti della Destra (il mostro di turno da combattere, dimenticando il
resto e votando a sinistra "turandosi il naso"), Destra la cui odiosa
e cristallina posizione nei confronti dei CSA è a tutti ben nota.
Non è un caso se non parlano di occupazioni ma di centri sociali: questo
termine terrificante, dal sapore di realpolitik burocratico-socialista, comprende
senza discriminazione tutti i luoghi che, nell’interpretazione istituzionale
e agli occhi della cosiddetta società civile, svolgono funzioni di pubblica
utilità: dai centri anziani alle cooperative di ceramisti, dai pronto-intervento
per tossici alle sale prova di quartiere. Tutti Centri Sociali.
Su concetti di tale ambiguità la Sinistra ha sbracato con tutti i suoi
mezzi sproloquiando di solidarietà a tutto spiano ma EVITANDO SEMPRE
DI PARLARE DI OCCUPAZIONE. Conseguentemente a questo atteggiamento le giunte
rosse hanno continuato a sgomberare ogni posto illegale non appena guadagnata
la poltrona: da Genova a Roma, in un prosieguo ideale del buon governo di sinistra
che ben conoscono tutti gli sgomberati negli ultimi 10 anni dalle giunte rosse
a Torino, Milano, Bologna, Genova etc. etc. Alla faccia dei fascisti!!
Dicevamo dunque che non a caso non si parla di occupazioni: i partiti di sinistra
(Rifondazione, PDS, Verdi, Rete) sono disposti a tollerare i C.S. solo ed esclusivamente
se questi hanno una loro funzione riconosciuta dal consorzio civile e se sono
legittimati dalla soddisfazione dei fruitori dei loro servizi, in modo da non
perdere consensi elettorali ed evitando l’accusa di tollerare situazioni
estranee all’ordine vigente o addirittura nemiche dello stesso.
In poche parole, il Potere scende a patti tollerando l’esistenza fisica
di quattro mura da lui non direttamente concesse solo a patto che i modi e gli
intenti finali provenienti dalla controparte non siano in contrasto con lo status
quo; e quindi ben vengano i servizi gratuiti e volontari che sopperiscono alle
lacune assistenziali dello Stato; ben vengano le opere sociali che se da una
parte legittimano l’esistenza dei C.S. verso il popolo, dall’altra
legittimano il Potere che le permette ed il suo buon governo con la cui collaborazione
si può migliorare il nostro modo di vita in questo stato senza mai rischiare
di metterne in pericolo l’esistenza vera e propria.
Ma incredibilmente non sono -come sarebbe logico pensare- solo i partiti del
recupero che spingono per la legalizzazione, per la pacifica convivenza, per
un rientro delle istanze di rivolta in categorie più assimilabili dal
Potere, ma anche alcune realtà specifiche dell’area che, sia pur
con le dovute riserve, chiameremo di "movimento", in particolare dell’area
della cosiddetta autonomia.
In questo caso sembra che le istanze di legalizzazione e/o conciliazione con
le istituzioni vadano di pari passo con il consolidamento delle proprie sedi,
cioè con il riconoscimento di un potere o contropotere che dir si voglia.
È una conseguenza diretta di un modo di vivere le occupazioni che poco
ha a che vedere con i propri desideri e la voglia di liberarsi, ma che deriva
da una metodologia politica che ha già mostrato tutti i propri mostruosi
fallimenti anche sul piano individuale.
Per capire a fondo quali sono le responsabilità di fronte al suddetto
movimento della legalizzazione, teniamo a mente qualche particolare:
1) Per loro il C.S. si legittima solo attraverso una fruizione di massa.
2) Messaggi, modi di comunicazione, utenza e soprattutto attività sono
stabilite in stretta relazione con l’esistenza di precise classi sociali
(le stesse che il Potere fornisce): proletari (!?!), studenti, immigrati di
colore.
3) Ogni dimensione rivoluzionaria individuale è ignorata, ovvero, la
propria vita non cambia assolutamente ma si divide fra il tempo del "privato"
ed il tempo "libero" militante.
4) Scomparsa totale anche dell’immaginario rivoluzionario: niente più
"Non credere ai media" ma "li usiamo perché il messaggio
è forte"; niente più "Per avere un futuro bisogna prima
sognarlo", perché è il momento di essere concreti, c’è
sempre una massa in piazza a cui dare indicazioni precise; niente più
"Contro la mafia dei partiti" perché non tutti i partiti sono
uguali, ci sono partiti di sinistra con amici che conosciamo che ci possono
aiutare, consigliare, difendere, sostenere, finanziare; il nemico è solo
la Destra.
Teniamo a mente questi quattro particolari.
Inquadriamoli nel panorama nazionale, in cui si muovono almeno un centinaio
di realtà d’occupazione ma un’informazione che riflette esclusivamente
(com’è costume di ogni mass-media) le posizioni di due grandi realtà
organizzate, Roma e Milano.
E pensiamo ora a quelle che possono essere le conseguenze di accordi presi
da posti grossi in queste due città nei confronti del resto del mondo:
intanto sarà lampante che se nemmeno lì (dove ci sono le masse,
dove quindi, secondo la mentalità democratica e pecorile, ci sono le
lotte più grosse anche se insignificanti dal punto di vista politico
e rivoluzionario) si può occupare e tenere un posto senza venire a patti
coi partiti, figuriamoci nelle realtà di provincia o per quelle che -ah,
sciagura!!- hanno la colpa di non avere una massa dietro di sé!
E figuriamoci l’atteggiamento degli amministratori che, di fronte a cotanto
esempio saranno ben certi della loro invulnerabilità politica nel caso
dovessero sgomberare chi non si piegasse a tali patti; quando ci sono precedenti
così eclatanti, la carriera è al sicuro (a meno che poi non scorra
il sangue e si verifichino quindi casi ANCORA PIÙ eclatanti).
Tutta gli altri posti, quelli già nati ma soprattutto quelli nuovi,
quelli delle metropoli ma soprattutto quelli delle piccole città e di
provincia, SOPRATTUTTO QUELLI NON SCHIERATI, si troveranno di fronte ad una
repressione immediata e militare oppure all’alternativa di accettare uno
stato di fatto condizionato in senso limitativo dagli accordi presi precedentemente
da altre realtà "in alto loco", più legittimate di fronte
alle autorità.
E tutti i posti occupati che CONTINUANO A NON VOLERNE SAPERE DI DIALOGHI COL
POTERE e che si trovano a convivere con i raggruppamenti che hanno spinto per
il riconoscimento legale saranno sgomberati con la forza; gli sgomberatori saranno
legittimati in pieno nella loro opera di repressione dagli accordi presi precedentemente
nelle città dai grandi posti. Accordi che stabiliscono anche agli occhi
dell’opinione pubblica, una linea divisoria tra i buoni (chi accetta il
dialogo con le istituzioni) ed i cattivi (chi lo rifiuta).
Si chiuderà definitivamente la possibilità di realizzare nuove
occupazioni, come si può ben vedere in altri paesi d’Europa dove
la legalizzazione degli squat è in atto. Chi vorrà uno spazio
potrà inoltrare domanda all’amministrazione e attendere con fede.
Chi si ostinerà ad occupare ancora sarà immediatamente sgomberato.
La gravità delle responsabilità di chi vuole o cerca un dialogo
non necessario col Potere è amplificata dal fatto che quest’area
si presenta come un gruppo compatto che per ogni iniziativa/campagna ha indicato
una linea precisa e rigorosamente osservata da tutti i suoi affiliati, creando
schieramenti precisi nella stessa area della sinistra estrema: non a caso ci
sono situazioni di scontro e conflittualità all’interno di città
come Roma, Padova, Firenze e Milano. Le situazioni che, pur appartenendo alla
sinistra, non si allineano sono tagliate fuori da ogni considerazione ed ignorate
dall’informazione ufficiale; l’unica voce rappresentata all’esterno
è quella di chi ha deciso di rapportarsi con le istituzioni e che s’impone
come L’UNICO interlocutore esistente.
Da qui la presentazione di assemblee nazionali che si autodefiniscono come
uniche rappresentanti del cosiddetto movimento.
È altresì chiaro che se c’è chi costruisce una "linea"
univoca, esiste tutto il resto (cioè la maggior parte delle esperienze
di occupazioni) che si trova di fatto dall’altra parte, non essendosi
schierato o non volendo schierarsi. Per costoro non c’è alternativa
di fronte al fronteggiamento col Potere se non quella di confrontarsi con una
linea CHE ESSI NON HANNO CHIESTO NÉ VOLUTO ma con la quale devono per
forza fare i conti; e questa si chiama, voluta o meno, prevaricazione.
Naturalmente questa legalizzazione non sarà unica e univoca, potrà
essere un passaggio che comprende l’associazione forzata (con tanto di
statuto, presidente, tessere, etc.), la cooperativa, l’affitto simbolico
o magari non simbolico ma pagato dall’amministrazione comunale, la convivenza
con altre associazioni di ogni tipo, il rispetto delle norme antincendio, d’igiene,
agibilità e abitabilità con relativi controlli di funzionari e
sbirraglia varia. E poi ancora la SIAE, le licenze per gli alcolici, la Finanza
(cosa già proposta dai Verdi a Torino: i C.S. incassano quindi devono
scontrinare e pagare le tasse come gli altri…), etc. etc. Non saranno magari
tutte queste cose, magari non tutte in una botta sola, ma una volta aperto,
il discorso non si potrà chiudere mai più. È altrettanto
ovvio che lo Stato, già soddisfattissimo di aver creato il precedente
per affrontare e risolvere il problema, non imporrà ai Grandi C.S. delle
Grandi città delle condizioni inique che possano scatenare le reazioni
della base, ma non si farà nessuno scrupolo nell’imporle fin dall’inizio
alle realtà minori.
Ma anche per questo problema traspare lampantemente la consequenzialità
della politica dell’autonomia: i posti che riusciranno a colloquiare col Potere
senza perdere il posto saranno esclusivamente quelli che avranno attirato le
masse dalla loro parte ponendosi demagogicamente come avanguardia politica,
quelli quindi che avranno dalla loro parte il fattore aggregazione e quindi
voce su giornali e TV, legittimati di fronte all’opinione pubblica e alle istituzioni,
tutto secondo il dogma democratico: la maggioranza ha sempre ragione.
Se l’asse portante della lotta per le occupazioni dev’essere la
sicurezza dell’intangibilità del posto, la sicurezza del riconoscimento
del proprio status, viene a mancare tutto l’elemento psicologico di rottura
dal proprio vissuto che caratterizza una volontà rivoluzionaria.
Chi realmente cerca un cambiamento radicale non può cercare sicurezze,
in quanto l’unica sicurezza che possiamo avere è quella di conservare
la propria dignità di individui rivoltosi di fronte ad un mondo in cui
non possiamo vivere liberi, il resto è una tragica ingenuità o
un’alienante mistificazione della vita.
D’altra parte gli anarchici, non essendo, naturalmente, un movimento
e non avendo né linee né organismi centrali, vivono nel modo più
eterogeneo le proprie situazioni di occupazione e d’autogestione, lasciando
il campo libero ad ogni sperimentazione a chi vive direttamente le esperienze
sul proprio territorio, e proprio per ciò evitando accuratamente di fornire
indicazioni precise e prescrizioni ideologiche sulle modalità del caso.
I soli principi che teniamo a ribadire, non solo nei confronti degli anarchici
ma anche nei confronti di tutti coloro che aspirano ad un percorso di autogestione
diretto al sovvertimento di questo stato di cose, è che più liberi
siamo meglio è; sembra ovvio, ma non cercheremo mai dialoghi con le istituzioni
(tantomeno con partiti, né di destra né di sinistra) se non in
caso di estrema necessità. A noi sembra che le sorti delle occupazioni,
soprattutto nelle grandi città, non siano in completa balia dei favori
dei partiti e della Legge, cosa che si verifica più sovente altrove;
non possiamo che valutare un’operazione dei genere come un tentativo di
legittimazione di potere para-istituzionale che nulla ha a che vedere con l’autogestione
e con la rivolta.
Non abbiamo inoltre nessuna intenzione di far le spese di questa opportunistica
politica di revisionismo.
Qualora questo dovesse succedere sapremo a chi chiederne conto. Per questo
indichiamo a tutti fin d’ora queste fumate compromissorie con tutto il carico
di minacce che nascondono.
Per questo non ci interessa essere "tanti" quanti più possibile
se non verificando attraverso le nostre quotidiane pratiche d’azione diretta
l’affinità che ci lega ai singoli individui.
Non vagliamo trovarci in un "movimento" di club alternativi che inseguono
il sogno dello show business o che vogliono tirare a campare col mercatino dei
poveri, tantomeno con delle cellule para-istituzionali pronte ad assemblarsi
con organi di potere (ancorchè di sinistra) pur di sopravvivere per poter
adempiere ad un fantomatico ruolo di avanguardia delle masse.
II nostro scopo è la distruzione della politica, quindi non vogliamo
nessun tipo di Potere, il Potere va distrutto.
Proponiamo perciò la massima diffusione, soprattutto attraverso l’azione
diretta, delle varie esperienze di autogestione dichiaratamente rivoluzionarie
come eterogeneità operativa delle esperienze di occupazione su tutto
il territorio nazionale e INTERNAZIONALE. Sollecitiamo una serie di incontri
volti a scambiarsi informazioni ed esperienze sulle proprie metodologie alegali
e fuori dalle istituzioni che tocchino tutti i temi, individuali e collettivi,
di chi ha deciso per propria scelta – e non per miserabili necessità
– di vivere secondo principi autogestionari e di libertà.
I terni che proponiamo sono quindi quelli di chi opera attivamente e quotidianamente
nei vari campi: dall’autofinanziamento all’organizzazione di concerti
fuori dal business alternativo, all’autoproduzione, alla distribuzione,
all’autocostruzione, alle attività di supporto alle realtà
minori, alla propaganda delle nostre idee e delle nostre attività; e
tutte le sfere d’attività esterne alle occupazioni: antimilitarismo,
anticlericalismo, astensionismo, controllo sociale, critica al lavoro, altre
forme di lotta autogestionaria.
Contro l’accentramento, contro l’omogeneizzazione, contro ogni schieramento,
diffondiamo mille pratiche di liberazione.
FINE