Permettetemi
di cominciare con qualche ovvia considerazione sul termine “metropoli”.
Esso significa in greco “città-madre” e si riferisce al rapporto fra la
polis e le sue colonie. I cittadini di una polis che partivano per
fondare una colonia erano, come si diceva, in apoikia – letteralmente
in “allontanamento dalla casa”- rispetto alla città, che, nella sua
relazione alla colonia, veniva allora chiamata metropolis ,
città-madre. Questo significato del termine è rimasto fino ai nostri
giorni per esprimere il rapporto fra il territorio della patria,
definito appunto metropolitano, e quello delle colonie.
Il termine metropoli implica quindi la massima
dis-locazione territoriale e, in ogni caso, un’essenziale disomogeneità
spaziale e politica, qual è appunto quella che definisce il rapporto
città-colonie. Ciò fa nascere ben più di un dubbio sull’idea corrente
di metropoli come tessuto urbano continuo e relativamente omogeneo.
L’isonomia spaziale e politica che definisce la polis è, almeno in via
di principio, estranea all’idea di metropoli.
In questa comunicazione mi servirò, pertanto, del
termine “metropoli” per designare qualcosa di sostanzialmente
eterogeneo rispetto a ciò che siamo abituati a chiamare chiamiamo
città. Vi propongo, cioè, di riservare il termine metropoli al nuovo
tessuto urbano che si viene formando parallelamente ai processi di
trasformazione che Michel Foucault ha definito come passaggio dal
potere territoriale dell’ Ancien régime al biopotere moderno, che è,
nella sua essenza, un potere governamentale. Ciò significa che, per
capire che cos’è una metropoli, è necessario comprendere il processo
che, a partire dal sec.XVIII, porta progressivamente il potere ad
assumere la forma di un governo degli uomini e delle cose, o, se
volete, di una “economia” (quando il termine “economia” fa la sua
apparizione nelle teorie politiche dell’illuminismo, esso significa
essenzialmente “governo”. L’esordio dell’articolo di Rousseau del 1755
sull’Economia politica nell’Enciclopedie è perfettamente chiaro in
proposito: “Prego i miei lettori “ egli scrive “di distinguere con cura
l’economia pubblica che è qui in questione e che io chiamo governo,
dall’autorità suprema, che chiamo sovranità”).
Una prima definizione che vi propongo è che la metropoli è il
dispositivo, o l’insieme dei dispositivi, che si impone sulla città
quando il potere assume la forma di un governo degli uomini. La città
cessa allora di essere, com’era nel sistema feudale e ancora
nell’Ancien régime, un’eccezione rispetto ai grandi poteri
territoriali, eccezione il cui paradigma era la “città franca”, e
diventa il luogo per eccellenza della nuova figura
economico-governamentale del potere.
Non vi è quindi crescita e sviluppo dell’antico modello
di città, ma una sorta di rottura storica e epistemologica che coincide
con l’instaurarsi di un nuovo paradigma, i cui caratteri si tratta di
analizzare. Una prima costatazione è che si assiste qui innanzitutto al
progressivo tramonto del modello della polis incentrato essenzialmente
sulla dimensione pubblica e politica. Benché la città abbia cercato di
difendere come ha potuto la sua originaria natura di organismo politico
(e questa resistenza ha prodotto ancora in tempi relativamente recenti
episodi di straordinaria intensità politica), è certo però che, nella
nuova spazializzazione metropolitana, è all’opera una tendenza
de-politicizzante, il cui esito estremo è la creazione di una zona di
assoluta indifferenza fra privato e pubblico. Questa neutralizzazione
dello spazio urbano è oggi un fatto a tal punto acquisito, che non ci
si meraviglia che le piazze e le strade delle città siano trasformate
dalle videocamere in interni di un’immensa prigione.
In Sorvegliare e punire, Michel Foucault ha provato a
definire il nuovo ordine disciplinare del potere attraverso la
convergenza di di due paradigmi, che fin allora erano rimasti distinti:
la lebbra e la peste. Vorrei servirmi di questo schema foucaldiano per
precisare la mia descrizione dello spazio urbano della modernità.
Il paradigma della lebbra è quello dell’esclusione: si
tratta di mettere i lebbrosi fuori della città, di creare una netta
divisione fra il fuori e il dentro. L’ideale è qui quello della
comunità pura, che costituisce il modello di quello che Foucault chiama
il Grand Enfermement. La peste dà luogo a un paradigma completamente
diverso. Poiché lo scoppio dell’epidemia rende impossibile escludere
gli appestati, si tratterà allora di dividere, sorvegliare e
controllare in ogni quartiere ogni strada, in ogni strada ogni casa, e
in ogni casa ogni famiglia, i cui membri sono preventivamente
registrati. Ogni strada è posta sotto l’autorità di un sindaco, che ne
ha la sorveglianza. Nel giorno stabilito, ogni famiglia deve chiudersi
nella sua casa, con proibizione di uscirne sotto pena della vita.
Circolano soltanto i soldati, i medici e i becchini, a cui è affidato
il compito di una sorveglianza e di una registrazione permanente.
All’interno della città, le zone sono distinte e articolate secondo
l’intensità dell’epidemia, le disinfezioni e le quarantene. Mentre il
lebbroso è preso in una pratica di esclusione e di rigetto, l’appestato
è incasellato, sorvegliato, controllato e curato attraverso un sistema
complesso, in cui le differenziazioni individuali sono effetto di un
potere che si moltiplica, si articola e si suddivide. “La lebbra e la
sua separazione; la peste e le sue ripartizioni. L’una è marchiata,
l’altra, analizzata e suddivisa. Esiliare il lebbroso e arrestare la
peste non comportano lo stesso sogno politico. L’uno è quello di una
comunità pura, l’altro quello di una società disciplinata. Due maniere
di esercitare il potere sugli uomini, di controllare i loro rapporti,
di sciogliere i loro pericolosi intrecci”.
Secondo Foucault, il potere politico della modernità
risulta dalla convergenza e dalla sovrapposizione di questi due
paradigmi. Si tratta di trattare i lebbrosi come appestati e gli
appestati come lebbrosi, di proiettare lo spazio articolato e
distribuito delle discipline sullo spazio semplice dell’internamento,
di individualizzare gli esclusi e di servirsi dei processi di
individualizzazione per determinare le esclusioni. Il risultato è la
sovrapposizione sulle opposizioni binarie secche (del tipo:
inclusione/esclusione; sano/malato; normale/anormale) di una serie di
ripartizioni differenziali, di stretegie e di dispositivi volte a
soggettivare, a individualizzare e controllare i soggetti.
Se applichiamo questo duplice paradigma allo spazio
urbano, abbiamo un primo schema per la comprensione del nuovo spazio
metropolitano dell’occidente. Si tratta di uno schema complesso, al cui
interno i dispositivi semplici di esclusione e divisione (del tipo
“lebbra”) convivono con un’articolazione complessa degli spazi e dei
loro abitanti (del tipo “peste”), al fine di produrre un governo
globale degli uomini e delle cose.
L’esperimento forse più esemplare ed estremo di un tale governo globale
dello spazio urbano è avvenuto a Genova nel luglio 2001 in occasione
del G8. Un’ ordinanza prefettizia distingue nella città zone
differenziati: 1) zone rosse di massima sorveglianza, dove, con qualche
limitata eccezione, vige il divieto di accesso e di sosta veicolare e i
cittadini residenti sono registrati; 2) zone gialle , nella quale sono
vietate le pubbliche manifestazioni, il volantinaggio, il transito e la
sosta in prossimità di certi luoghi ed edifici.
Con una successiva ordinanza, vengono classificati in
blocchi distinti (rosa, giallo, blu e nero) secondo la presunta
pericolosità i manifestanti. Dispositivi tradizionali di esclusione,
come i cancelli , i muri e i marchi colorati (il giallo è il marchio
degli appestati, oltre che quello degli ebrei) si trasformano in
dispositivi più complessi, volti a controllare i flussi e ad articolare
e distinguere gli individui.
L’esempio di Genova durante il G8 è, naturalmente,
eccezionale; ma l’esperienza insegna che è a partire dalla situazione
eccezionale che si sperimentano e mettono in opera i dispostivi di
governo che diventeranno normali. Alessandro Petti, in un libro recente
( Arcipelaghi e enclave ) ha mostrato che esperimenti di controllo
globale dello spazio, basati sulla frammentazione, sul controllo dei
flussi e sulla creazione di spazi di eccezione, si verificano non solo
nelle città e nei villaggi in Israele e nei territori occupati, ma
anche nei nuovi progetti di urbanistica di lusso off-shore, come The
world o The Palm Island a Dubai, i cui architetti speriamo che un
giorno saranno sottoposti a processo come i medici di Auschwitz.
La metropoli è, dunque lo spazio che risulta da questa
serie complessa di dispositivi di controllo e di governo. Ma ogni
dispositivo implica necessariamente un processo di soggettivazione, e
ogni processo di soggettivazione implica una possibile resistenza, un
possibile corpo a corpo col dispositivo in cui l’ individuo è stato
catturato o si è lasciato catturare. Per questo, se si vuole
comprendere una metropoli, accanto all’analisi dei dispostivi di
controllo, di distribuzione e di governo degli spazi, è necessario
conoscere e indagare i processi di soggettivazione che questi
dispositivi necessariamente producono. È perché una tale conoscenza
manca o è insufficiente, che i conflitti metropolitani appaiono oggi
così enigmatici. Poiché la possibilità e l’esito di tali conflitti
dipenderà, in ultima analisi, dalla capacità di intervenire sui
processi di soggettivazione non meno che sui dispostivi, per portare
alla luce quell’Ingovernabile che è l’inizio e, in sieme, il punto di
fuga di ogni politica.