1.la guerra ha luogo. Della guerra non sappiamo niente e ce lo ricordano in continuazione. Fin dalla prima infanzia la guerra, sempre una e molteplice, era nei nostri piatti, in quel che non doveva andar sprecato. Ci hanno fatto violenza in nome della nostra presunta ignoranza della guerra, come se avessimo ignorato il dolore o la malattia, o come se semplicemente questa guerra-sempre-assente fosse finita una volta e per tutte, e che bisognasse ricordarsela come ci si ricorda dei morti nelle famiglie. Con sofferenza.2.ben essere. La guerra, tutti quelli che sono nati lontano da lei nello spazio o nel tempo, sanno bene che non è terminata, la conoscono allo stato di possibile, come una minaccia che sta per realizzarsi. E quando questa esplode e si mette a bruciare in lontananza le infanzie degli altri, gli odori di cucina, le lenzuola dei letti, la loro consapevolezza si trasforma in turbamento. Il passato si è scavato una fossa nel presente e sotterra di nuovo i vivi – dice la gente, ma non è vero. Perché è proprio uno dei nomi del nostro presente, e non un racconto di giornate lontane, la guerra, lei che vive nei corpi, corre nelle istituzioni, attraversa le relazioni tra sconosciuti e associati, qui ed ora, da sempre. Più ci pretendiamo innocenti ed estranei agli eventi, più sappiamo di essere colpevoli. Colpevoli di non stare laddove si sparge il sangue, eppure in un certo qual modo è lì che siamo… Ci dicevano « voi, figli del benessere » come se ci avessero detto « voi, figli di puttana », ma chi ha invocato e costruito questo benessere fonte perpetua di guerra ? Delle volte ci siamo messi a sospettare che se la guerra è altrove anche la vita lo è.
3.riposare in pace… Della guerra sappiamo tutto così come sappiamo tutto della prigione, senza nessun bisogno di esserci stati, perché la “pace” e la “vita libera” le portano in loro, le implicano. Ed egualmente sappiamo che non ci sono innocenti nel nostro sistema, che ci sono solo rapporti di forza, e che sono i perdenti, e non i colpevoli ad essere puniti. È per questo che la guerra è diventata lo sporco lavoro degli altri: quel che siamo obbligati ad ignorare. Ad ogni angolo di strada ci pregano di dimenticarne la possibilità tanto quanto la realtà, di essere sorpresi, dalla guerra, di non essere mai i suoi complici e ci ringraziano della nostra vigilanza. Allora non ci resta altro che scegliere tra il ruolo di collaborazionisti della pace sociale o quello di partigiani del terrore. La guerra non ci riguarda più, la guardiamo e lei non ci vede, è troppo vicina. Non c’è, tra lei e noi, la distanza che esiste tra lo spettatore e la partita di calcio, in cui può ancora annidarsi il desiderio per la vittoria degli uni e la sconfitta degli altri. Essa si trova nel limbo delle cose che vorremmo abolire. Per non dover mai più prendere le parti di nessuno, né credere che le parole abbiano un peso che si risente nei corpi, o che la vita abbia un senso e che questo possa anche causarne la fine brutale.
4. …e vivere in guerra. Se non sappiamo cosa vuol dire vivere in guerra vuol dire che non sappiamo cosa sia la vita in tempo di pace. Più siamo governati, più abbiamo paura e bisogno che ci si armi al posto nostro, ed è così che la guerra continua. Gli sforzi fatti in passato par ottenere dei diritti e la libertà d’espressione non sono più per noi conoscibili come un’esperienza (di conflitto o di vittoria) ma come un risultato. Non siamo altro che gli eredi inebetiti di una fortuna impossibile da spendere, di un patrimonio archeologico che si sbriciola giorno per giorno, senza nessun valore d’uso. Queste antiche vittorie non sono nemmeno per noi dei fatti acquisiti ma delle cose già perdute, perché non sappiamo più batterci quando sono minacciate. Il divenire rivoluzionario è un processo che sembra ormai escludere la nostra partecipazione. È dimenticando l’oppressione del controllo in nome della garanzia di una protezione che ci siamo espulsi dalla nostra storia. Da allora prendiamo la lotta per la guerra e lasciamo che essa sia al tempo stesso criminalizzata e delegata ai professionisti della materia. Mentre invece la lotta è ciò che sorge ovunque dalla dismisura tra quel che i governi domandano e quel che i governati possono dare. Alla lotta si va per trovare coloro che ci accompagnano e ci rinforzano, mentre in guerra soli ci si va e soli se ne torna (perché sono sempre gli altri che muoiono.)
5.il gioco della guerra. Le avanguardie storiche e la guerra: una storia d’amore neanche tanto tormentata, un flirt senza ostacoli, tranne qualche trasloco. Si poteva ancora, prima dello stato d’eccezione, prendere la posa della singolarità eccezionale, giocare coi propri amici e nemici al gioco della guerra. Ma la nostra esperienza attuale è ben altra. La guerra paradigma delle lotte tra gruppuscoli, la guerra matrice di strategie para o pseudo-militari di guerriglia immaginifica, i surrealisti, i situazionisti, i mao-dadaisti (e la lista potrebbe essere ben più lunga) vivevano in un mondo in cui le parole e l’esperienza intrattenevano un dialogo appassionante che poteva diventare scandalo, o persino essere interrotto una volta e per tutte. Erano delle guerre giocattolo, delle guerre per ricchi in spirito. Ora possiamo incorniciare e mostrare queste belle gesticolazioni e tornarcene al coprifuoco del nostro quotidiano già filmato, alle superfici saturate d’immagini pubblicitarie, alle nostre solitudini socio-economicamente integrate. E capire finalmente che il terreno del conflitto è cambiato, che dovremo inventare delle derive ah quanto più ambiziose per sfuggire alla norma ancora più tirannica delle nostre percezioni
6.visioni del mondo. Dopo aver smobilitato le nostre coscienze, ci hanno confortevolmente disteso nell’incubo di un presente illeggibile e sordomuto, in un territorio velato d’angosce. Le celle in cui sono rinchiusi e dimenticati i presunti colpevoli, le stanze spoglie con sedie e scrivania in cui si tortura perché si confessi, continuano ad esistere, anche se non sappiamo vederle: le percepiamo. I loro odori, i loro silenzi, le loro luci bianche popolano lo strato sommerso del nostro tempo quotidiano amministrato. Non sono scomparsi. La notte eterna dei telegiornali ce ne porta l’intuizione che s’insinua in noi insieme alla immagini dei teatri di guerra veri e propri. I commissariati, gli ospedali, le autostrade, le scuole, le case circondariali, i quartieri d’isolamento e le caserme, ma anche i camion, gli aerei ed i treni che se ne vanno ad esportare l’odio lontano, in nome della guerra che porta veramente questo nome, tutti ci fanno egualmente paura. Perché noi li conteniamo ed essi ci contengono.
7.coerenze. A volte nelle nostre vite ritmate dalla precarietà, intravediamo un filo di coerenza. Lo stesso filo sui cui corre la conoscenza di una guerra che non abbiamo vissuto ma i cui effetti ed affetti hanno circolato nei nostri corpi. Il filo che connette i gesti più comuni del nostro quotidiano di qui con i drammi che si consumano altrove – filo elettrico, filo paratattico, che veicola il legame fatto di assenze di legami. Eichmann allineava cifre senza essere torturato dall’idea che rappresentassero degli esseri umani spediti al macello. Di questa abitudine a partecipare al disastro senza poterlo mettere in discussione, l’arte contemporanea ha fatto il suo principio strutturante. Essa costruisce delle superfici di coesistenza tra elementi incompatibili, indaga sulle cose che non capiamo, eppure contribuisce, tanto quanto queste stesse righe, a mandare avanti la macchina. I mezzi per fermare il nostro divenire o per trasformare la nostra soggettività, guardati da questo punto di vista, non ci sembrano più accessibili. La forma della nostra vita è stata disegnata da qualcun altro: non ci resta altro che scegliere la forma dei nostri prodotti e sperare che la nostra proprietà privata ci protegga dalla guerra. Mentre la proprietà privata è essa stessa lo stato di aggregazione primario della guerra.
8. la notte in cui tutte le singolarità sono qualunque. Il soldato semplice o il partigiano armato di qualche causa sono sempre rappresentati come esseri anonimi, carne da cannone votata al destino di polverizzarsi per una nazione o un ideale, corpi astratti, vite ad orologeria. Il cittadino medio, invece – il civile libero – è l’individuo unico e differente da ogni altro, preso in delle relazioni sociali specifiche, che dovrebbero isolarlo dal suo prossimo, magnificarlo nella sua identità irriducibile. Eppure possiamo cercare ovunque questa persona veramente umana senza incontrarla in nessuna regione del mondo del lavoro: dietro gli sportelli, nei supermercati, negli uffici interagiamo con delle singolarità intercambiabili, delle unicità insignificanti che riproducono tutte lo stesso compito, oppure si fanno espellere dal processo produttivo.
9.eccezioni. Invece. L’esperienza, per impoverita che sia, ci insegna che l’amore non aderisce ad un soggetto predefinito, che insomma quel che amiamo o ciò a cui ci leghiamo nell’altro è la sua singolarità in quanto tale, la sua singolarità qualunque, perché l’amore non ha né una causa specifica né una ragione comunicabile. Quel che amiamo nell’altro sono le relazioni sociali possibili o reali di cui è portatore, il suo potenziale di legami e di libertà che fa sì che i nostri sentimenti possano sorgere e perdurare. D’altra parte più siamo governati o inclusi in una disciplina, più siamo controllati ed isolati nella nostra performance e nel nostro comportamento. Il governo vede le masse, ma guarda solo gli individui. Misura la potenza ma si applica solo agli atti. Capiamo allora in che modo una singolarità amata è qualunque e non intercambiabile mentre invece una singolarità produttiva è isolata ed individualizzata eppure in ogni istante sostituibile. Le regole produttive dell’intercambiabilità universale fanno vacillare i nostri luoghi comuni. Il sapere che detengono gli organi di controllo sulle nostre vite fa sì che per il potere siamo tutti diventati delle eccezioni. E quando incontreremo la mano della legge, quel che farà di noi non dipenderà dalle convenzioni stabilite, ma dalla contingenza unica di questa frizione. Il nostro presente è diventato imprevedibile, ogni istante un momento potenzialmente eccezionale. È cosi che la nuova configurazione della guerra oppone il PotereIdentificante alle singolarità qualunque, obbliga gli uni alla guerriglia suicida, gli altri alla solitudine anonima circondata da oggetti. 10.le regole del gioco.Vivere in società è diventata un’esperienza nuova. E terrificante. L’umanesimo tradizionale ci assicurava che il progresso sarebbe consistito in una amministrazione migliore delle nostre vite. Ma oggi sappiamo che la disciplina che ci governa può produrre tanto delle merci quanto dei cadaveri. La percezione che abbiamo di questo nuovo stato di cose non trova nessun nome adeguato, è intessuta di immagini e di gesti ma non si fissa durevolmente nel linguaggio. Questa nuova solitudine ci ha trasformato in esseri incredibilmente contemplativi. Migliaia di dispositivi ci permettono una visualizzazione intermittente ed ipnotica del monopolio della violenza che ci governa. Il nostro contatto con le informazioni geopolitiche è aumentato ma è sempre meno intimo, ed il vocabolario, chiamato a definire ogni sorta di esteriorità, si sfilaccia. I corpi che ricevono questo fiotto di novelle dal fronte sono diventati in organizzabili. Gli sguardi si riposano da allora sugli schermi. Ricordi-schermi, immagini-schermi: la realtà-trincea fa sorgere dei nuovi bisogni di diversione. Le nostre percezioni si federano solo sporadicamente: ed è questo l’effetto più devastatore e inedito della nuova guerra. È per questa ragione che non potremo più opporci ad essa sul piano delle immagini o dell’iconoclastia (lo schermo nero non è un monocromo, dato che la pittura non ha mai preteso di informarci in diretta sullo stato del mondo.) Eppure lo spettatore non è mai stato un personaggio così influente, perché non è mai stato tanto precisamente il nome della condizione di chiunque. Il valore d’uso etico delle nostre percezioni anche se resta da negoziare e stabilire, è già presente in potenza, in attesa dei gesti che lo metteranno in circolazione. Perché in tempo di guerra non sono solo gli scambi monetari che si modificano ma è l’economia del desiderio tutta intera che è toccata dall’inflazione.
Claire Fontaine, 7/1/07