Immaginiamo
un ragazzo palestinese nato e cresciuto in un campo di deportati circondato dal
filo spinato, la cui famiglia è stata sterminata dall’esercito israeliano (con
l’aiuto di quello americano). Non ha mai avuto i sogni che ognuno di noi
coltivava quando era bambino: diventare astronauta o giocatore di calcio. Per
lui il futuro finisce dove finisce il recinto del suo ghetto, perché la mera
sopravvivenza proietta la propria ombra su tutto l’avvenire. E allora egli sogna
di diventare ‘martire’, cioè ‘testimone’, e vendicare così la propria
famiglia, se stesso e la vita che non ha mai vissuto. Si fa saltare in aria con
la propria bomba su un autobus di Gerusalemme. Siamo davvero sicuri che faccia
tutto ciò per "fanatismo"?
Non
stiamo dicendo che non esistono cricche di potere (la presente e futura classe
dominante palestinese, nel caso specifico) che sfruttano il bisogno di riscatto
con l’ideologia del sacrificio, della guerra santa, del posto in paradiso, per
arruolare nelle loro file tanti di questi ragazzi; cricche pronte a usare le
loro morti al tavolo delle trattative. Stiamo dicendo che quei ragazzi non sono
né più né meno fanatici di quelli con il cellulare e l’abbigliamento
tristemente identico che vediamo passeggiare nelle nostre strade. Come loro,
cercano il riconoscimento dei propri compagni e degli adulti. In tutte le
culture umane (nel senso di usi e costumi), la vendetta e il coraggio sono
considerati dei valori Più i torti subiti sono gravi e incancellabili, più la
spinta verso la vendetta diventa
insopprimibile. Immaginiamo allora il pensiero dei propri cari uccisi e
aggiungiamo a questo i racconti collettivi di altre atrocità, la prospettiva di
un futuro vuoto, l’ideale del ‘martire’: un qualsiasi
ragazzo vivace e con un suo senso della dignità, cosa potrà scegliere? Non è
forse questo sentimento tipicamente umano (nel senso meno retorico della parola)
che mette tutti gli spettatori e i lettori
dalla parte dell’eroe cinematografico o del bandito delle varie letterature? Non
è forse la povertà della nostra vita quotidiana che si
riflette
in quelle figure? Ad accogliere (e a soffocare) questo slancio, nel mondo
attuale si trova per lo più la menzogna della religione
e della patria. Di fronte a tutto ciò, ci si può limitare ad un appello
al dialogo, come pensano i tolleranti cittadini con il ventre sazio
e i piedi
al caldo? Chi dialogherebbe con chi gli ha ammazzato i
cari?
Ritornando
a qull’autobus. A saltare in aria insieme al nostro ragazzo non saranno i
generali, i politici e i burocrati israeliani (o
americani), bensì qualche massaia, degli operai e dei bambini. E’ terrorismo,
certo, nel senso che è una violenza cieca, indiscriminata, la stessa (nel suo
piccolo) di quella usata dagli Stati quando bombardano intere popolazioni. Ma
non può condannare simili gesti chi non condanna il terrore statale, chi non fa
niente per cambiare concretamente le condizioni sociali da cui nasce una tale
disperazione portatrice di morte; insomma, non può limitarsi allo sdegno chi
non dà un contributo qualitativo per un’altra violenza (quella contro i
veri responsabili), per un’etica vissuta come liberazione. Cosa avete fatto voi
– porebbe chiederci quel ragazzo – per impedire i massacri, le deportazioni, lo
sfruttamento spinto fin sotto la soglia di sopravvivenza?
Abbiamo
moralizzato post
festum, come sempre.
Non
ci stupiamo quando sentiamo i nostri nonni parlare con odio dei tedeschi (che
identificano con i nazisti oppressori), Né ci stupiamo di trovare in alcuni
testi pubblicati da editori rispettabili (Ricordati di cosa ti ha fatto
Amalek dell’Einaudi, ad esempio) i testamenti scritti nei ghetti ebrei in
cui si maledice per sempre il popolo tedesco e chiunque non lo ucciderà
("il tedesco buono lo uccideremo per ultimo", vi si può leggere). Non
ce ne stupiamo per tre motivi: primo, perché sappiamo che moltissimi tedeschi
(non tutti, ovviamente, e ognuno nella misura della propria obbedienza) erano
responsabili del regime hitleriano; secondo, perché intuiamo che ci vuole
davvero molta lucidità per distinguere tra tedeschi e nazisti quando, ebreo, i
bambini per strada ti fanno la lingua, le donne sghignazzano
vedendoti percuotere, un qualsiasi funzionario può inviarti in un campo di
concentramento e un macchinista che fa solo il proprio lavoro ti porta
verso la morte; terzo, perché siamo abituati ad avere una visione della
società e della storia simile a quella del Risiko (Italia contro Francia,
Inghilterra contro Giappone, America contro Afghanista, eccetera). Tanto per
rimanere nell’esempio, pochi ribelli hanno portato una visione di classe
(governati contro governanti, poveri contro ricchi) nella Resistenza, affinché
la rivoluzione sociale non fosse soffocata dalla guerra, affinché la menzogna
della patria non stritolasse il sogno di una società senza padroni, senza
denaro, senza Stato.
E
oggi? L’attacco contro le Torri gemelle e al Pentagono è stato, in senso
stretto, terroristico. Ma possiamo limitarci allo sdegno sapendo che in
Palestina (e in tanti altri Paesi del mondo) molti hanno esultato? Per non
esultare, bisogna saper distinguere il governo degli Stati Uniti (sulla cui
infamia non ci sono dubbi) dalla sua popolazione. Ma la sua popolazione ha
accettato (non tutti, ovviamente, e ognuno nella misura della propria
collaborazione) che venissero sterminati trecentomila irakeni in nome della
guerra contro Saddam Hussein (sulla cui infamia non ci sono dubbi!), oppure che
vengano ora bombardati gli afghani in nome della guerra contro Bin Laden (sulla
cui infamia, ancora una volta, siamo tutti d’accordo). La maggior parte degli
israeliani è senza dubbio favorevole (fanaticamente favorevole) alla
repressione dei palestinesi. Anzi, i più feroci anti-arabi sono proprio gli
israeliani più poveri (perché hanno paura di essere espulsi). I capitalisti
d’ogni dove, invece, s’ingrassano.
Perché
mai i palestinesi che odiano gli israeliani, gli algerini che odiano i francesi,
gli irakeni che odiano gli americani sarebbero più razzisti dei nostri nonni
che odiavano i tedeschi? Perché due pesi e due misure?
Andiamo
oltre questa ipocrisia, e rendiamoci conto che si smette di contribuire alla
guerra contro i poveri di altre nazioni solo quando si smette di fare
pace con i ricchi di casa propria. E’ nella rivolta comune che gli sfruttati si
sono riconosciuti e si riconosceranno come fratelli. Altrimenti, sarà la
guerra.
Fatichiamo
a immaginare qualcosa di più distante dalla nostra sensibilità del
fondamentalismo (islamico, cattolico o ebraico che sia)."Fanatici"
solo della libertà di esprimersi e di sperimentare al di fuori di ogni
imposizione, potremmo scorgere nel dogmatismo religioso altro che oppressione?
Ma per spezzare questo cerchio magico della sottomissione e della morte,
dobbiamo rompere ogni collaborazione con le classi dominanti e con gli Stati,
perché la guerra è il cuore di questo mondo senza cuore.