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PERCHÉ QUEL LUGLIO TORNI AD ESSERE UNA MINACCIA
Categories: Genova G8



Sul
processo ai ribelli di Genova

Il
2 marzo 2004 si è aperto a Genova il processo contro venticinque manifestanti
accusati di «devastazione e saccheggio» per la rivolta contro il G8 del luglio
2001. Ed è solo l’inizio, un banco di prova in vista di operazioni
giudiziarie forse ancora più vaste. Si tratta di un processo, in tutti i sensi,
esemplare: per il tipo di accusa (che
ha ben pochi precedenti nella storia italiana, e che prevede diversi anni di
carcere), per il modo in cui il potere ha preparato il terreno ai giochi e alla
vendetta di tribunale, per come l’intera faccenda illustra gli ostacoli che
ogni movimento collettivo di liberazione individuale ha di fronte, nei palazzi
come nelle piazze.

Anticipato
da venti arresti ordinati dalla procura di Cosenza nel novembre del 2002, e da
altri ventitre disposti poco dopo da quella di Genova, questo processo vuole
dare a tutti un chiaro messaggio: la sommossa genovese avrà i suoi capri
espiatori. Che la posta in gioco oltrepassi la stessa rivolta di luglio per
proiettare la propria ombra funesta sul futuro, è piuttosto evidente. Come
esempio, si può prendere l’iniziativa, promossa nel gennaio del 2003 sempre
dalla procura di Genova, di acquistare uno spazio sul quotidiano ligure Il
secolo XIX
per pubblicare il fotogramma- — realizzato da una telecamera
posta in strada — di due manifestanti al fine di identificarli. In
quell’occasione fa di nuovo la sua comparsa pubblica il reato di «compartecipazione
psichica»: in sostanza lo Stato afferma che per incorrere nei favori della
repressione non è necessario partecipare direttamente ad azioni di rivolta, ma
è sufficiente essere presenti là dove hanno luogo senza impedire che altri le
compiano; in breve, senza trasformarsi in poliziotti. Aggiungiamo che agli
arrestati di Cosenza era stata rivolta in modo esplicito e con alcuni successi
quella che in seguito diventerà una costante quanto indecente profferta: l’«abiura
della violenza» in cambio della scarcerazione — e avremo un quadro ancora più
preciso. Sotto accusa ormai non è questa o quell’azione, questo o quel
sabotaggio, bensì l’atteggiamento verso le istituzioni e, più in generale,
il rifiuto stesso del presente ordine sociale e della vita da sudditi che
impone. Collaboratori o nemici: è questo l’ultimatum che lo Stato lancia a
chiunque.

 

È
anche in tal senso che va letta la martellante propaganda che i vari Ministeri
della Paura stanno orchestrando attorno al concetto di “terrorismo”.
Soprattutto dopo l’attacco alle Torri Gemelle, il manifestante che spacca
vetrine viene equiparato al rivoluzionario che abbatte un uomo di Stato, e
quest’ultimo al kamikaze che si fa saltare in aria su di un autobus affollato.
Grazie a questa confusione interessata il dominio ha cercato di nascondere il
senso delle giornate genovesi: da un lato, una sommossa sociale che ha coinvolto
migliaia di individui disposti a rovesciare l’ordine del denaro e dei
manganelli, dall’altra uno Stato che ha gettato la maschera rivelando così il
proprio volto assassino. Per chi da quel luglio non ha voluto trarre alcuna
lezione, cosa potremmo aggiungere che il potere non abbia ampiamente dimostrato
pestando ed uccidendo in piazza, umiliando e torturando nel chiuso delle sue
caserme? Cosa potremmo aggiungere sull’inanità di chi chiede Verità e
Giustizia ai tribunali, come se da lati opposti della barricata potessero
esistere una verità e una giustizia in comune? Non sono forse stati espliciti
il governo, i dirigenti e i magistrati assolvendo e promuovendo, come sempre,
gli assassini e i torturatori in divisa?

Così
come gli apparati di controllo sezionano quartieri e città con le lo-ro
barriere e i loro check-point, le loro telecamere ed i loro squadroni, allo
stesso modo gli inquisitori sezionano gli eventi con le loro inchieste e i loro
codici. I pubblici ministeri Canepa e Canciani — due neospecialisti nella
caccia ai ribelli — stanno solo perfezionando l’opera cominciata con la
militarizzazione di Genova e continuata attraverso le cariche, il piombo
assassino di piazza Alimonda, l’irruzione alla Diaz, le torture a Bolzaneto e
nelle altre caserme, gli arresti e le espulsioni dei giorni come dei mesi
successivi. Relativamente alle indagini, un ruolo di primo piano lo ha svolto il
pubblico ministero Silvio Franz, famoso insabbiatore di scandali di regime,
grazie all’aiuto di un’accolita di periti notoriamente legati agli ambienti
dell’arma e neofascisti.

Sta
a chi non ha dimenticato quella contagiosa rivolta che ha conquistato le strade,
a chi non vuole far seccare nell’animo il sangue versato per mano degli
sgherri dello Stato, fornire alla solidarietà verso i manifestanti sotto
processo tutte le armi di cui ha bisogno. Questo è il senso delle modeste note
che seguono.

A
dispetto delle innumerevoli controinchieste che hanno finito per complicare,
attraverso il totalitarismo del frammento,
ciò che era fin troppo evidente; a dispetto delle chiacchiere con cui gli
specialisti hanno coperto quella sommossa e delle calunnie con cui la canea
politica l’ha infangata, vogliamo ripercorrere, per rimetterla in gioco, una
storia minacciosa.

 

Appuntamenti
segreti

Esiste un appuntamento misterioso tra
le generazioni che sono state e la nostra.

Walter
Benjamin

Qualche
giorno prima del G8, alcuni genovesi si recano da un falegname del centro
storico del capoluogo ligure con la richiesta di farsi preparare dei pezzi
di legno montabili a mo’ di aste. Il vecchio artigiano coglie al volo le
intenzioni di questi insoliti clienti e racconta cosa usavano loro,
quelli della sua generazione, negli scontri con la polizia. La memoria
corre alla rivolta del luglio Sessanta, ai ragazzi dalle maglie a strisce,
alla Genova dei quartieri popolari. Il vecchio spiega che, per
fronteggiare le cariche della celere, gli insorti si servivano dello
stoccafisso lasciato ad asciugare all’esterno delle numerose pescherie
dei carrugi. I venditori lo passavano ai ribelli, ma non prima di averlo
immerso nelle vasche d’acqua per renderlo resistente ed efficace. Le vie
del centro storico non sono più le stesse, così i nostri se ne partono
con le loro aste smontabili. Questi legni saranno comunque, di lì a
qualche giorno, una sorta di testimone fra due generazioni di
incontrollati e di facinorosi.

Venerdì
20 luglio 2001, dopo che centinaia di rivoltosi hanno liberato alcuni
quartieri da quella normalità capitalista che è il più freddo dei
gelidi mostri, un supermercato si trasforma in un banchetto collettivo e
gratuito. Per qualche ora ribelli e abitanti della zona si servono
liberamente e mangiano, scherzano e discutono. Persino un giornalista,
pagato per servire con i suoi teleobiettivi come altri servono con i loro
manganelli, viene fotografato da un suo collega mentre se ne esce con due
confezioni di mozzarella.

Perché
queste mozzarelle incontrassero quegli stoccafissi, in un «balzo di tigre
nel passato», c’è voluta una sommossa sociale che sostituisse il tempo
della rivolta al tempo storico. Una sommossa che ha stravolto sia i piani
dei Signori della Terra e dei loro cani da guardia, sia quelli della
contestazione mediata e mediatica.

 
 

Il
filo di una storia

 Sarà presto dimenticato quanto è
accaduto ora. Nell’aria rimane solo un vuoto, atroce ricordo. Chi fu
protetto? I pigri, i miserabili, gli strozzini. Ciò che era giovane
dovette cadere …

ma gli indegni siedono illesi nel
tepore dei loro salotti.

Ernst
Bloch

Il
vertice del G8 a Genova è stato l’occasione per un gigantesco
esperimento di controllo e di militarizzazione senza precedenti in Italia:
strade chiuse e blindate con grate alte cinque metri, l’intera
circolazione stradale ridisegnata, i tombini precauzionalmente saldati…
e non sono mancati provvedimenti più comici (via le mutande e i calzini
dai balconi!). Molti abitanti esasperati lasciarono la città, che assunse
le lugubri sembianze di un enorme campo di concentramento. Ventimila
uomini di tutti i corpi armati dello Stato confluirono nel capoluogo
ligure per pattugliarlo. Vennero istituiti posti di blocco, ordinati
sacchi dove rinchiudere eventuali morti, piazzati tiratori scelti sui
tetti e sommozzatori in acqua. Fu predisposto un autentico centro di
torture per prigionieri a Bolzaneto, la cui gestione venne assegnata ai
gentiluomini della squadra speciale antisommossa carceraria (il GOM).
Mentre il compito di garantire l’ordine pubblico fu affidato
principalmente all’Arma dei carabinieri, i quali formarono per
l’occasione i CCIR (contingenti carabinieri a intervento risolutivo),
costituiti da militari diretti da ufficiali del corpo d’élite Tuscania,
già attivi in Somalia, in Bosnia, in Albania.

Da
parte dello Stato non ci si preparava a contenere una contestazione, ma ad
affrontare una guerra. Non si trattava di controllare manifestanti, bensì
di fare piazza pulita di nemici. A Genova lo Stato ha sperimentato per la
prima volta in maniera così sistematica, esplicita, diffusa, contro la
propria popolazione, la logica militare che presiede le missioni
internazionali. A dimostrazione di come, in un mondo unificato dalla
religione del denaro, la linea di demarcazione fra nemici esterni e nemici
interni vada scomparendo. A dimostrazione di come il dominio debba testare
in piccolo scenari che in futuro potrebbero essere generali. Dopo tutto,
se la guerra viene considerata un’operazione di polizia, un’operazione
di polizia può ben considerarsi una guerra.

Il
seguito dimostrerà quella che è una costante nell’espansione
tecnologica e militare: tutto ciò che viene predisposto attende solo di
venire usato.

 
 

Il
campo di battaglia previsto era quello che si snodava attorno alla “zona
rossa”. È qui, sotto i cancelli e le recinzioni eretti a protezione
della sede del vertice, che si attendevano gli assalti dei manifestanti.
È qui che i capetti della contestazione mediata e mediatica hanno
chiamato a raccolta le loro truppe cammellate. È qui che si sono
concentrati anche i cani da guardia del dominio per respingere la
pressione dei sudditi scontenti venuti ad elemosinare i propri illusori
diritti. Tutto sembrava pronto. Una moltitudine di rispettosi cittadini
che grida le proprie ragioni, le forze dell’ordine assoldate per
respingerle, la scaramuccia concordata a tavolino per evocare ed
esorcizzare lo spettro dello scontro, i giornalisti accorsi da tutto il
mondo, gli applausi di coda perché alla fine tutto doveva svolgersi
tranquillamente, vertice e controvertice. Nulla di tutto ciò si è
verificato. Da parte delle istituzioni non c’era una reale intenzione di
evitare lo scontro, quanto la precisa volontà di dare una lezione
indimenticabile agli ingrati consumatori del benessere occidentale; da
parte del movimento, di una parte di esso, c’era chi preferiva essere
protagonista di una ribellione esplicita contro i cosiddetti Signori della
Terra piuttosto che fare lo spettatore o la comparsa di un’agitata
sceneggiata a beneficio dei mass media. Così, attorno alla “zona
rossa” i rivoltosi non si faranno vedere, preferendo disertare lo
scontro virtuale concordato con le istituzioni per andare a cercare lo
scontro reale, quello senza mediazioni. Pur essendosi presentati nella
città e nella data stabilite dall’agenda istituzionale, parecchie
centinaia di nemici di questo mondo, assai diversi fra loro, senza capi né
gregari, senza testa né coda, andranno dove non erano attesi. Anziché
lanciarsi a testa bassa verso un supposto cuore del dominio preferiranno
muoversi altrove, ben sapendo che il dominio non possiede alcun cuore
perché si trova dappertutto. Gli spazi fisici dove si pratica il culto
del denaro, dove aleggia il fetore della merce, dove si ode la menzogna
del commercio — e non i meri “simboli” del capitalismo, come preteso
dalla sinistra vulgata degli adoratori dell’esistente — conosceranno
la critica pratica dell’azione: la banche saranno prese d’assalto, i
supermercati saccheggiati, le concessionarie incendiate.

  

Si
può amare una città, si possono riconoscere le sue case e le sue strade
nelle proprie più remote o più care memorie; ma solo nell’ora della
rivolta la città è sentita veramente come la propria città: […]
propria, poiché spazio circoscritto in cui il tempo storico è sospeso e
in cui ogni atto vale di per se stesso, nelle sue conseguenze
assolutamente immediate. Ci si appropria di una città fuggendo o
avanzando nell’alternarsi delle cariche, molto più che giocando da
bambini per le sue strade o passeggiandovi più tardi con una ragazza.
Nell’ora della rivolta non si è più soli nella città.

Furio
Jesi

Dopo
il passaggio dei rivoltosi, a cui non di rado si unirono ragazzi dei
quartieri e curiosi, nulla era più come prima. Le auto, da scatole mobili
che trasportano i lavoratori alla loro condanna quotidiana, diventarono
giocattoli con cui divertirsi e barricate con cui fermare la polizia. Le
sirene pubblicitarie che avviliscono lo spirito e mercificano i corpi
furono messe a tacere. Gli occhi elettronici vennero accecati. I
giornalisti vennero allontanati. I saccheggi trasformarono le merci da
pagare in beni gratuiti da condividere. Attraverso scritte colorate le
mura si liberarono del loro sconfortante grigiore. Le strade, i cantieri,
i palazzi furono usati come arsenali. L’urbanistica, modellata sulle
esigenze dell’economia e perfezionata dagli imperativi del controllo, si
sciolse sotto il fuoco della sommossa. Ben presto l’impossibile diventò
possibile: il carcere di Marassi, in buona parte svuotato per lasciare
spazio ad eventuali arrestati, venne attaccato. Stessa sorte toccò ad una
caserma dei carabinieri. Da parte loro, gli uomini in divisa dispiegarono
tutta la violenza di cui erano capaci. Chi ha accusato i rivoltosi
nerovestiti di aver provocato la repressione farebbe meglio a prender atto
che l’operato di polizia e carabinieri era già stato previsto ed
organizzato, come forma preventiva di dissuasione nei confronti di tutti.
Non fu affatto il risultato di un eccesso di zelo, di troppo nervosismo o
di inesperienza, ma fu il vero volto del terrorismo di Stato che si scatenò
senza freni, lanciando a folle velocità i suoi veicoli blindati contro i
manifestanti inermi. Fu proprio questo a determinare il dilagare
generalizzato della rivolta. Proprio ciò che avrebbe dovuto fermarla,
l’intervento poliziesco, finì per alimentarla. Nel giro di poco tempo,
migliaia di manifestanti fino a quel momento pacifici si unirono ai
rivoltosi e iniziarono a battersi contro la sbirraglia, lanciandosi in una
guerriglia disperata. Fra gli stessi militanti dei racket politici i cui
capi invitavano alla calma, alla moderazione e alla non-violenza, ci
furono molte insubordinazioni.

La
stessa ideologia della disobbedienza conobbe i suoi primi disobbedienti.
Dopo poco più di un’ora dalla partenza del loro corteo, i buoni
propositi delle Tute Bianche s’infrangevano. Se nell’incrociare la
prima carcassa d’auto bruciata, i leader delle tutine esortavano ancora
i giornalisti al loro seguito a non confonderli con i “violenti”, se i
fumi che si alzavano in lontananza erano ancora abbastanza distanti da
poter essere ignorati, la carica dei carabinieri in via Tolemaide mise
fine alla simulazione. Nonostante le contrattazioni precedenti, questa
volta niente spettacolo: gli sbirri caricavano sul serio! Sordi agli
appelli dei loro capetti che li invitavano a desistere, a non reagire,
molti Disobbedienti iniziarono a battersi contro gli uomini in divisa, con
l’aiuto di altri manifestanti accorsi per fronteggiare chi li stava
attaccando. Per alcune ore non ci furono più violenti o non-violenti,
uomini o donne, socialdemocratici o anarchici, militanti o gente comune,
geometri o disoccupati, ma solo individui in rivolta contro i cani da
guardia dell’esistente e la vita che viene imposta. Fu durante questi
scontri che venne abbattuto Carlo Giuliani. Non era un “black bloc”.
Non era un anarchico. Non era un provocatore. Non era un infiltrato. Era
solo un giovane che aveva reagito alla violenza dello Stato. Non uno dei
pochi, ma uno dei tanti.

Chiariamo
questo punto. Nei giorni successivi, tutti i politici in carriera che
infestano il movimento presero inizialmente le distanze da quanto
accaduto, accusando i rivoltosi di essere un pugno di “provocatori” e
“infiltrati” che con le loro azioni avevano sabotato intenzionalmente
un grande appuntamento pacifico, facendo perdere un’occasione storica
per essere ascoltati. Tutta la canea socialdemocratica — la stessa che
fino ad allora aveva sollevato tanta polvere e rumore e che per questo
credeva d’essere il carro della storia — riversò loro addosso un mare
di calunnie, rinverdendo la vecchia tradizione stalinista della “caccia
agli untorelli”. Fu questo un modo di sfogare il proprio rancore contro
chi aveva deciso di sfuggire al loro controllo, rivelando a tutti la
falsità della loro pretesa autorevolezza. E fu un modo di chiudere gli
occhi di fronte alla fine del loro progetto politico, la cui vanagloriosa
inconsistenza è apparsa alla fine di quelle giornate in tutta la sua
miseria, cercando pateticamente di rilanciarlo. Chi tanto si è indignato
che centinaia di compagni si fossero recati a Genova con l’intenzione di
scatenare una sommossa, dandosi un minimo di preparazione in tal senso e
cercando di evitare la trappola dello scontro diretto con la polizia,
dovrebbe riflettere maggiormente su chi ha eccitato gli animi per mesi
promettendo assalti e invasioni senza avere l’intenzione di realizzarli,
senza curarsi minimamente delle possibili conseguenze, su chi ha alzato al
cielo le bianche mani della non-violenza, in segno di resa e non di dignità,
contribuendo a mandare allo sbaraglio migliaia di manifestanti inermi. E
magari porsi alcune domande: si può essere davvero “non-violenti” e
collaborare con lo Stato, massima espressione della violenza? Chi può
scagliare l’anatema contro coloro che a Genova hanno fatto strage di
vetrine? Forse chi ha fatto strage di ossa, di teste e di denti? Forse chi
si indigna per le aiuole calpestate e poi considera normali i morti sul
lavoro? Oppure chi vuole invadere la “zona rossa” del privilegio
partendo dalla “zona grigia” del collaborazionismo? Se chi attacca una
banca è un provocatore infiltrato, come si può definire chi consiglia un
ministro, discute con un parlamentare, contratta con un questore? Quel
venerdì ha fornito qualche risposta.

Sabato
21 luglio, i calcoli politici e la paura presero il sopravvento sulla
rabbia. I vari racket politici militanti si organizzarono per allontanare
ed esorcizzare il loro vero nemico: tutti gli incontrollabili che avevano
fatto fallire miseramente i loro piani. A sera, come è noto, scatterà da
parte di una polizia scatenata nella sua assoluta certezza di impunità
l’attacco alla scuola Diaz, sede momentanea del Social Forum, dove tutti
i presenti verranno massacrati dagli agenti inferociti. Un’azione
apparentemente incomprensibile, perché fra gli altri ha colpito anche
alcuni dei migliori alleati della polizia che per tutto il giorno si erano
distinti nella loro opera di delazione. In realtà, anche questo episodio
si inserisce perfettamente nella logica militare che aveva governato
l’operato delle forze dell’ordine. La prova di forza del governo
italiano doveva essere data fino in
fondo
.

 

Un
assordante brusio

Chiunque abbia qualcosa da dire, si
faccia avanti e taccia.

Karl
Kraus
 

Finita
la rivolta, è iniziato il suo commentario da parte di giornalisti,
specialisti, periti. E più aumentavano le testimonianze e le
interpretazioni di quanto avvenuto, più diminuiva la sua cristallina
chiarezza. La rivolta di Genova, nella sua viva totalità, è stata
sezionata e smembrata in tante piccole particelle. Tutto è stato
sbriciolato e ridotto in polvere affinché nulla si potesse più vedere.
Naturalmente questa poderosa opera di mistificazione è stata condotta nel
nome della verità. La stessa verità che molti aspettano e pretendono si
faccia largo nelle aule dei tribunali.

Eppure,
tutti sanno cosa è veramente accaduto. È inciso in maniera indelebile
nella memoria e nella carne di migliaia di manifestanti presenti. E
proprio Genova ha dimostrato l’assoluta inutilità pratica, sovente la
pericolosità, di macchine fotografiche e videocamere. A parte la polizia,
che ne ha tratto profitto identificando e denunciando molti rivoltosi,
compito che le è stato facilitato dall’onnipresenza di portatori di
teleobiettivi, e a parte i giornalisti, che hanno incassato lo stipendio
per il lavoro svolto, a cosa sono servite tutte quelle riprese? A che pro
mostrare a tutto il mondo che il vicecapo della Digos di Genova,
Alessandro Perugini, ha sferrato un calcio in pieno volto ad un ragazzo
steso a terra immobilizzato dai suoi colleghi? Forse che costui, colto sul
fatto, è stato poi messo in condizione di non ripetere più la sua
impresa? Un tribunale lo ha condannato, è stato espulso dalla polizia e
sostituito con un poliziotto beneducato e rispettoso della Costituzione?
Niente affatto, anzi, con umorismo piuttosto macabro lo Stato ha nominato
il signor Perugini rappresentante per l’Italia di una campagna
internazionale contro la tortura nel mondo.

La
convinzione che basti mostrare i soprusi del potere per metterlo in
ginocchio è un’illusione ideologica, meritevole di sparire come tutte
le ideologie. Chissà come sono rimasti male, quegli idealisti che credono
nella luce che sconfigge le tenebre, alla notizia che osservando i filmati
il perito della magistratura ha stabilito nientemeno che sarebbe stato un
sasso lanciato da un manifestante a deviare il proiettile che ha ucciso
Carlo Giuliani. Lo dimostrerebbe uno sbuffo biancastro comparso
repentinamente sopra la sua testa, un attimo prima della sua morte. È
proprio vero che, in una immagine, ognuno può far vedere ciò che vuole.
E in una competizione di immagini e chiacchiere, fra i media alternativi e
quelli istituzionali, è inutile nascondere che a vincere saranno sempre i
secondi.

Così
come non c’è da attendersi nessuna verità da una immagine, allo stesso
modo non possiamo aspettarci nessuna giustizia da un verdetto. Anche perché
i tribunali sono istituzioni di quello stesso Stato che ha ordinato il
massacro avvenuto a Genova. Perché mai i magistrati dovrebbero condannare
uomini che sono abitualmente al loro servizio? Sbarazziamoci del pio luogo
comune propiziatore di garanzie che pretende esista una differenza fra
Stato di diritto e Stato di fatto, come fossero due entità che è
necessario far coincidere per avere la giustizia. Lo Stato inventa il suo
diritto e lo applica e modifica come meglio crede, ben sapendo che si
tratta solo di carta straccia. I torturatori che a Bolzaneto hanno
strappato le carte di identità degli arrestati gridando «qui non avete
diritti, siete nessuno», hanno espresso senza maschere la natura dello
Stato, quello di cui sono i servi obbedienti e leali.

 

Le
illusioni di una fine

 Il coraggio dell’impossibile è la luce che rompe la nebbia,

davanti a cui cadono i terrori della
morte e il presente divien
vita.

Carlo
Michelstaedter

Delle
giornate genovesi si è ricordata soltanto la brutalità della sbirraglia.
L’aspetto gioioso di una sovversione della vita quotidiana è quasi
stato seppellito. Ma la sommossa di tre anni fa è ancora lì, minacciosa
nella sua incompiutezza. Talmente minacciosa che nel frattempo il suo
significato non è stato solo eroso dalla ragione di Stato che ha imposto
una guerra infinita, ma anche dalla calunnia, dalla mistificazione, dalla
rimozione messe in atto da tutti coloro — in uniforme o in tuta — che
dovevano garantire l’ordine e la sicurezza nelle strade genovesi, con i
risultati che ben conosciamo. Talmente minacciosa che centinaia di azioni
dirette contro il dominio (dai bancomat sabotati ai treni bloccati, dai
commissariati attaccati agli istituti di scienze della morte danneggiati,
dalle auto diplomatiche incendiate alle agenzie e alle concessionarie
italiane sfasciate) sono state compiute in tutto il mondo nelle settimane
e nei mesi dopo Genova. Talmente minacciosa, infine, che dopo la nebbia
della rappresentazione il dominio sta preparando il cemento della
carcerazione.

Contro
la vendetta di Stato, e a dispetto di chi serve davanti ai giudici
l’odiosa divisione in buoni e cattivi
già realizzata in piazza (giustificando magari gli scontri con la
sbirraglia come legittima risposta alle cariche, ma condannando le azioni
contro le strutture dello Stato e del capitale avvenute prima…), è il
senso di quella sommossa che va affermato, contro pacificatori ed
inquisitori. Perché la rivolta esploda, ben oltre gli appuntamenti
stabiliti dal potere, là dove si gioca davvero la partita: nella totalità
delle nostre vite. È quello il luogo in cui si incontreranno, insieme ai
conflitti sociali a venire, i desideri di tutti coloro che a Genova si
sono battuti con coraggio. Il luogo di un crimine chiamato libertà in cui
non esistono innocenti né colpevoli.

Allora
nessun tribunale, isolando e colpendo gli accusati, metterà i sigilli a
quelle giornate.
 

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