untori
introduzione
Categories: Genova G8

Anche soltanto per vedere bisogna riuscire a
togliersi dagli occhi la sabbia che di continuo vi sparge il presente.

Hugo Von Hofmannsthal

 

Sabbia. Ecco cosa offusca la nostra vista,
facendoci vivere in una fantasmagoria in cui tutto sembra vivo e nulla è reale.
Ci perdiamo in un rapido alternarsi di immagini stranamente vivide e attraenti,
facendoci trasportare dal loro potere ipnotico. Quella che dobbiamo raccontare
non è forse una storia di fantasmi, di ombre scambiate per prede, di specchi
deformanti considerati occhiali della verità? E lo è stata fin dall’inizio.

Pensiamo al neoliberismo contro cui
lanciano i propri strali le anime belle della sinistra. Anziché criticare l’organizzazione
sociale che riduce l’essere umano a merce e pone l’universo e la vita agli
ordini dell’economia, ci si lamenta per un dettaglio della sua politica. In
sé il neoliberismo non fa altro che abbattere le frontiere nazionali per
facilitare l’espansione planetaria del mercato. Battersi per mantenere queste
frontiere significa battersi per un capitalismo su scala ridotta, un capitalismo
locale, possibilmente dal volto umano, dove la classe dominante indigena non
venga scavalcata da quella transnazionale. Come a dire, abbasso le
multinazionali straniere perché fanno chiudere le piccole e medie imprese
nostrane. È solo questo che desideriamo, consumare merci prodotte sotto casa?

E che dire dei vertici dei potenti della
Terra? Appuntamenti mediatici, in cui nulla di concreto viene stabilito giacché
chi vi partecipa si limita a formalizzare e a rendere pubbliche decisioni già
prese altrove. Il loro susseguirsi nello spazio e nel tempo è solo l’ipocrita
risposta alle domande di trasparenza e di eguaglianza che si alzano da più
parti. Come se, incontrandosi spesso e dappertutto, i «nostri» rappresentanti
intendano dimostrare che non esiste nessuna politica prestabilita, nessun centro
direttivo, che tutto è sempre aperto: basta mettersi in fila, farsi avanti e
discutere civilmente. Laddove è noto da tempo che non è più questione di se,
ma solo di quando e come.

La stessa evanescenza affligge anche i
controvertici, in tutte le loro manifestazioni. Dopo lo spettacolo dell’esercizio
del potere, non poteva mancare lo spettacolo della contestazione al potere —
magari sotto forma di invasione della «zona rossa». A questo ameno attivismo
militante si dedicano i vari racket cattolici o di sinistra che seguono gli
spostamenti dei capi di governo e dei loro ministri come il cane segue il
proprio padrone, cercando in tutti i modi di attirarne l’attenzione. Come se
il dominio non fosse espressione dei rapporti sociali ma dipendesse dalla
volontà di otto uomini di Stato, su cui occorre per questo esercitare una certa
pressione. Come se bastasse sedere a quel tavolo, o farci finire sopra la
relazione giusta, per porre fine allo sfruttamento e all’insensatezza dell’esistenza
umana.

E un fantasma è stato anche il Black Bloc,
una volta finito nelle mani della rappresentazione mediatica. Nato su
ispirazione delle lotte degli anni Settanta in Germania e venuto alla ribalta a
Seattle nel 1999, è stato reimportato qui in Europa e presentato come ultimo
grido in materia di radicalità. Ma, se negli Stati Uniti i rivoltosi
nerovestiti avevano costituito in effetti una frattura nella tradizione locale
della pacifica contestazione radical-chic, qui in Europa sono diventati, grazie
ai media, una moda, una parodia, frutto di quella odiosa abitudine di catalogare
ed etichettare per meglio controllare, nonché un fatto di folclore — con
tanto di tamburini e sbandieratori che si sono esibiti per la gioia dei
teleobiettivi di tutto il mondo. Una certa atletica tattica di strada non può
che suscitare simpatia, ma se viene presentata come progetto radicale sovversivo
non possiamo fare a meno di avvertirne la miseria.

Ad ogni modo la lanterna magica da cui
ridondano tutte queste immagini, sgargianti nella loro inconsistenza, si trovava
qui in Italia tre anni fa in occasione del G8 e dalle sue proiezioni non ci si
aspettava granché, tanto il canovaccio sembrava scontato. Se non fosse stato
che… a furia di rappresentarla, simularla, demonizzarla, la rivolta si è
scatenata davvero per le strade di Genova, quel venerdì 20 di luglio. Una
rivolta furiosa che ha saputo resistere per ore alle cariche della repressione,
ma che ha ceduto in fretta sotto i colpi del chiacchiericcio mediatico, del
commento sociologico, del distinguo militante, dell’inquisizione poliziesca.
Sepolta sotto una montagna di sabbia, la sabbia del presente.

È ora di cominciare a pulirsi gli occhi.

 

Dopo gli Stati Uniti, la Svizzera, la
Cecoslovacchia, la Francia, la Svezia, spettava all’Italia ospitare il raduno
dei politici più potenti del mondo e dei loro pseudo oppositori. Per il governo
Berlusconi, da poco in carica, si trattava del primo grande impegno
internazionale. Tutto doveva filare alla perfezione, nulla poteva essere
trascurato. I bellicosi proclami dei contestatori da avanspettacolo furono
enfatizzati dalla stampa assieme alla probabile minaccia del "terrorismo
internazionale". Anche se nessuno credeva davvero alle parole dell’autonominatosi
tribuno del popolo Casarini, la cui retorica pseudo guerrigliera faceva scorrere
più lacrime di risate che brividi di paura; anche se nessuno credeva sul serio
a possibili incursioni di kamikaze arabi; il clima si era fatto rovente. Il
governo, in cui per la prima volta la destra più reazionaria aveva un ruolo
predominante, probabilmente su indicazione stessa dei suoi imminenti potenti
ospiti, decise di dare una volta per tutte il buon esempio e affrontò la
questione prendendo misure marziali. Già nei vertici precedenti avevamo
assistito ad un progressivo incremento della repressione che aveva raggiunto il
culmine a Göteborg, nella "civilissima" Svezia, quando un
manifestante era stato colpito alle spalle dal fuoco della polizia. Nell’Italia
di Berlusconi, Fini e Bossi, una città come Genova è stata messa in ginocchio
attraverso una militarizzazione del territorio senza precedenti: strade chiuse e
blindate con grate alte cinque metri, l’intera circolazione stradale
ridisegnata, i tombini precauzionalmente saldati… e non sono mancati
provvedimenti più comici (via le mutande e i calzini dai balconi!). Molti
abitanti esasperati lasciarono la città, che assunse le lugubri sembianze di un
enorme campo di concentramento. Ventimila uomini di tutti i corpi armati dello
Stato confluirono nel capoluogo ligure per pattugliarlo. Vennero istituiti posti
di blocco, ordinati sacchi dove rinchiudere eventuali morti, piazzati tiratori
scelti sui tetti e sommozzatori in acqua. Fu predisposto un autentico centro di
torture per prigionieri a Bolzaneto, la cui gestione venne assegnata ai
gentiluomini della squadra speciale antisommossa carceraria (il GOM). Mentre il
compito di garantire l’ordine pubblico fu affidato principalmente all’Arma
dei carabinieri, i quali formarono per l’occasione i CCIR (contingenti
carabinieri a intervento risolutivo), costituiti da militari diretti da
ufficiali del corpo d’elite «Tuscania», già attivi in Somalia, in Bosnia,
in Albania.

Da parte dello Stato non ci preparava a
contenere una contestazione, ma ad affrontare una guerra. Non si trattava di
controllare manifestanti, bensì di fare piazza pulita di nemici. A Genova lo
Stato ha sperimentato per la prima volta in maniera così sistematica,
esplicita, diffusa, contro la propria popolazione, la logica militare che
presiede le missioni internazionali. A dimostrazione di come, in un mondo
unificato dalla religione del denaro, la linea di demarcazione fra nemici
esterni e nemici interni vada scomparendo. Dopo tutto, se la guerra viene
considerata una operazione di polizia, una operazione di polizia può ben
considerarsi una guerra.

 

Il campo di battaglia previsto era quello che
si snodava attorno alla «zona rossa». È qui, sotto i cancelli e le
staccionate eretti a protezione della sede del vertice, che si attendevano gli
assalti dei manifestanti. È qui che i capetti della contestazione mediata e
mediatica hanno chiamato a raccolta le loro truppe cammellate. È qui che si
sono concentrati anche i cani da guardia del dominio per respingere la pressione
dei sudditi scontenti venuti ad elemosinare i propri illusori diritti. Tutto
sembrava pronto. Una moltitudine di rispettosi cittadini che grida le proprie
ragioni, le forze dell’ordine assoldate per respingerle, la scaramuccia
concordata a tavolino per evocare ed esorcizzare lo spettro dello scontro, i
giornalisti accorsi da tutto il mondo, gli applausi finali perché alla fine
tutto doveva svolgersi tranquillamente, vertice e controvertice. Nulla di tutto
ciò si è verificato. Da parte delle istituzioni non c’era una reale
intenzione di evitare lo scontro, quanto la precisa volontà di dare una lezione
indimenticabile agli ingrati consumatori del benessere occidentale; da parte del
movimento, di una parte di esso, c’era chi preferiva essere protagonista di
una ribellione esplicita contro i cosiddetti Signori della Terra piuttosto che
fare lo spettatore o la comparsa di un’agitata sceneggiata a beneficio dei
mass media. Così, attorno alla «zona rossa» i rivoltosi non si faranno
vedere, preferendo disertare lo scontro virtuale concordato con le istituzioni
per andare a cercare lo scontro reale, quello senza mediazioni. Parecchie
centinaia di nemici di questo mondo, assai diversi fra loro, senza capi né
gregari, senza testa né coda, decisero di rifiutare l’appuntamento
prestabilito con la politica per recarsi a quello al buio con i propri desideri.
Pur essendosi presentati nella città e nella data stabilite dall’agenda
istituzionale, andranno dove non erano attesi. Anziché lanciarsi a testa bassa
verso un supposto cuore del dominio preferiranno muoversi altrove, ben sapendo
che il dominio non possiede alcun cuore perché si trova dappertutto. Gli spazi
fisici dove si pratica il culto del denaro, dove aleggia il fetore della merce,
dove si ode la menzogna del commercio — e non i meri «simboli» del
capitalismo, come preteso dalla sinistra vulgata degli adoratori dell’esistente
— subiranno la critica pratica dell’azione: le banche saranno prese d’assalto,
i supermercati saccheggiati, i negozi attaccati.


  

  


Si può amare una città, si possono
riconoscere le sue case e le sue strade nelle proprie più remote o più care
memorie; ma solo nell’ora della rivolta la città è sentita veramente come la
propria città:[…] propria,
poiché spazio circoscritto in cui il tempo storico è sospeso e in cui ogni
atto vale di per se stesso, nelle sue conseguenze assolutamente immediate. Ci si
appropria di una città fuggendo o avanzando nell’alternarsi delle cariche,
molto più che giocando da bambini per le sue strade o passeggiandovi più tardi
con una ragazza. Nell’ora della rivolta non si è più soli nella città.

Furio Jesi

 

Nel loro procedere, con il passare delle ore e
il montare della rivolta, i flussi dei rivoltosi si trasformavano quanto a
composizione (passanti e curiosi si univano ad essi) trasformando l’ambiente
circostante. Dopo il loro passaggio, nulla era più come prima. Le auto, da
scatole mobili che trasportano i lavoratori alla loro condanna quotidiana,
diventarono giocattoli con cui divertirsi e barricate con cui fermare la
polizia. Le sirene pubblicitarie furono mese a tacere. Gli occhi elettronici
vennero accecati. I giornalisti vennero allontanati. I saccheggi trasformarono
le merci da pagare appannaggio di pochi in beni gratuiti a disposizione di
tutti. Attraverso scritte colorate le mura si liberarono del loro sconfortante
grigiore. Le strade, i cantieri, i palazzi furono usati come arsenali. L’urbanistica,
modellata sulle esigenze dell’economia e perfezionata dagli imperativi del
controllo, si sciolse sotto il fuoco della sommossa. In tutti questi atti i
rivoltosi ritrovarono l’autentica abbondanza, quella che non viene né
contemplata in astratto, né scambiata contro l’umiliazione del lavoro. Molte
volte si scontrarono con le forze dell’ordine, non di rado seppero evitarle.
Come sempre accade in ogni momento di rottura con l’esistente, l’euforia
cominciò a dilagare ed il buon senso smise d’essere moneta corrente. Ben
presto l’impossibile diventò possibile: il carcere di Marassi, in buona parte
svuotato per lasciare spazio ad eventuali arrestati, venne attaccato. Stessa
sorte toccò ad una caserma dei carabinieri. Da parte loro, gli uomini in divisa
dispiegarono tutta la violenza di cui erano capaci. Chi ha accusato i rivoltosi
nerovestiti di aver provocato la repressione farebbe meglio a prendere atto che fin
dall’inizio
le cariche furono indiscriminate e travolsero chiunque,
coinvolgendo spesso e volentieri pacifici manifestanti. Ciò significa che l’operato
di polizia e carabinieri era già stato previsto ed organizzato, come forma
preventiva di dissuasione nei confronti di tutti. Non fu affatto il risultato di
un eccesso di zelo, di troppo nervosismo o di inesperienza, ma fu il vero volto
del terrorismo di Stato che si scatenò senza freni, lanciando a folle velocità
i suoi veicoli blindati contro i manifestanti inermi. Sotto un diluvio di
lacrimogeni sparati perfino dagli elicotteri, le strade cominciarono a coprirsi
del sangue di centinaia e centinaia di manifestanti. Fu proprio questo a
determinare il dilagare generalizzato della rivolta. Fino a quel momento le
devastazioni dei rivoltosi non erano andate molto più in là di quanto già
accaduto nelle occasioni precedenti, la prevista azione diretta ad opera di
qualche centinaio di compagni che approfittavano della situazione. Ma proprio
ciò che avrebbe dovuto fermarla, l’intervento poliziesco, finì per
alimentarla. La brutalità degli uomini in divisa portò infatti ad una
sollevazione generale. Nel giro di poco tempo, migliaia di manifestanti fino a
quel momento pacifici si unirono ai rivoltosi e iniziarono a battersi contro la
sbirraglia. Armati solo della loro rabbia si lanciarono in una guerriglia
disperata. Fra gli stessi militanti dei racket politici i cui capi invitavano
alla calma, alla moderazione e alla non-violenza, ci furono molte
insubordinazioni. L’ideologia della disobbedienza conobbe i suoi primi
disobbedienti. Di fronte alla ferocia della repressione, non c’era ordine di
partito che potesse tenere. Gli scontri con le forze dell’ordine si
moltiplicarono, dappertutto giungevano manifestanti non solo nerovestiti pronti
a scagliarsi contro la sbirraglia, e fu durante uno di questi scontri che venne
abbattuto Carlo Giuliani. Non era un «black bloc». Non era un anarchico. Non
era un provocatore. Non era un infiltrato. Era solo un giovane che aveva reagito
alla violenza dello Stato. Non uno dei pochi, ma uno dei tanti. Ed è bene
chiarire questo aspetto. Nei giorni successivi, tutti i politici in carriera che
infestano il movimento presero inizialmente le distanze da quanto accaduto,
accusando i rivoltosi di essere un pugno di "provocatori" e
"infiltrati" che con le loro azioni avevano sabotato intenzionalmente
un grande appuntamento pacifico, facendo perdere un’occasione storica per
essere ascoltati. Tutta la canea socialdemocratica — la stessa che fino ad
allora aveva sollevato tanta polvere e rumore e che per questo credeva d’essere
il carro della storia — riversò loro addosso un mare di calunnie, rinverdendo
la vecchia tradizione stalinista della "caccia agli untorelli". Fu
questo un modo di sfogare il proprio rancore contro chi aveva deciso di sfuggire
al loro controllo, rivelando a tutti la falsità della loro pretesa
autorevolezza. E fu un modo di chiudere gli occhi di fronte alla fine del loro
progetto politico, la cui vanagloriosa inconsistenza è apparsa alla fine di
quelle giornate in tutta la sua miseria, cercando pateticamente di rilanciarlo.

In realtà i rivoltosi che a Genova si
batterono contro le forze del vecchio mondo furono davvero numerosi. Anarchici,
ma non solo. Nerovestiti, ma non solo. Stranieri, ma non solo. Il sapore della
libertà non conosce limiti, etichette, uniformi o confini. E chi tanto si è
indignato che centinaia di compagni si fossero recati a Genova con l’intenzione
di scatenare una sommossa, dandosi un minimo di preparazione in tal senso e
cercando di evitare la trappola dello scontro diretto con la polizia, dovrebbe
riflettere maggiormente su chi ha eccitato gli animi per mesi promettendo
assalti e invasioni senza avere l’intenzione di realizzarli, senza curarsi
minimamente delle possibili conseguenze, su chi ha alzato al cielo le bianche
mani della non-violenza, in segno di resa e non di dignità, contribuendo a
mandare allo sbaraglio migliaia di manifestanti inermi.

 

 

Non sia alcuno che muova una alterazione in
una città, per credere poi, o fermarla a sua posta, o regolarla a suo modo.

Niccolò Machiavelli

 

Pur essendo, com’è noto, allievi di Toni
Negri, non si può dire che Casarini e gli altri capibastone della mafia
disobbediente abbiano seguito il saggio consiglio di Machiavelli. Dopo i
«successi» mediatici ottenuti nei mesi precedenti con gli scontri concordati
con la polizia, dopo una puntuale presenza in tutte le manifestazioni
internazionali, indispensabile per farsi legittimare come punto di riferimento,
dopo un iniziale ipocrita sostegno strategico al «black bloc» (quando si va
all’estero, si sa, ogni licenza è permessa), le Tute Bianche pensavano di
raccogliere a Genova il frutto di tanto lavoro. Forti del fatto di giocare in
casa, con trattative già andate in porto col questore Colucci, pensavano che
anche questa volta sarebbe bastato offrire una valvola di sfogo virtuale alla
rabbia dei contestatori per evitare ogni forma di violenza incontrollata. In
più la loro prevista «invasione» della zona rossa, che doveva avvenire
naturalmente sotto i riflettori dei giornalisti di tutto il mondo, doveva
servire a consacrarle alla testa del movimento. Avidi teleconsumatori, anche i
Disobbedienti pensano che l’immagine conti più della cosa, che solo ciò che
compare sullo schermo esista davvero, che i media siano il luogo dove si
manifesta la realtà. Come potrebbe essere altrimenti? La loro fama è
interamente legata al numero di passaggi televisivi che riescono a strappare,
alle interviste che riescono a rilasciare, alle prime pagine che riescono ad
ottenere. E per montare un buon numero di spettacolo, capace di far alzare gli
indici di ascolto, tutto è lecito, tutto è manipolabile: dal passamontagna di
Marcos all’acqua benedetta di Don Vitaliano. Questi buffoni di corte si sono
presentati a Genova carichi di plexiglas e di speranze nelle luci della ribalta.
Ma dopo poco più di un’ora dalla partenza del corteo, i loro buoni propositi
si sono infranti. Se nell’incrociare la prima carcassa d’auto bruciata, i
leader delle tutine esortavano ancora i giornalisti al loro seguito a non
confonderli con i "violenti", se i fumi che si alzavano in lontananza
erano ancora abbastanza distanti da poter essere ignorati, la carica dei
carabinieri in via Tolemaide mise fine alla simulazione. Perché, questa volta,
gli sbirri caricavano sul serio! Sordi agli appelli dei loro capetti che li
invitavano a desistere, a non reagire, molti Disobbedienti iniziarono a battersi
contro gli uomini in divisa, con l’aiuto di altri manifestanti accorsi per
fronteggiare chi li stava attaccando. È proprio riconoscendo nel momento dell’attacco
il nemico comune che i rivoltosi si riconoscono immediatamente fra di loro,
rompendo l’isolamento della "folla solitaria", poiché la rottura
con la noia e l’angoscia della sopravvivenza ha il merito di svelare gli
individui a se stessi e agli altri. Poco importa quali motivi contingenti
abbiano prodotto una simile situazione. Resta il fatto che quel venerdì 20
luglio per alcune ore non ci furono più violenti o non-violenti, uomini o
donne, socialdemocratici o anarchici, militanti o gente comune, geometri o
disoccupati, ma solo individui in rivolta contro i cani da guardia dell’esistente
e la vita che viene imposta.

Il giorno successivo, sabato 21 luglio, i
calcoli politici e la paura presero il sopravvento sulla rabbia. I vari racket
politici militanti si organizzarono per allontanare ed esorcizzare il loro vero
nemico: tutti gli incontrollabili che avevano fatto fallire miseramente i loro
piani. A sera, come è noto, scatterà da parte di una polizia scatenata nella
sua assoluta certezza di impunità l’attacco alla scuola Diaz, sede momentanea
del Social Forum, dove tutti i presenti verranno massacrati dagli agenti
inferociti. Un’azione apparentemente incomprensibile, perché fra gli altri ha
colpito anche alcuni dei migliori alleati della polizia che per tutto il giorno
si erano distinti nella loro opera di delazione. In realtà, anche questo
episodio si inserisce perfettamente nella logica militare che aveva governato l’operato
delle forze dell’ordine. La guerra spietata ai manifestanti — oltre ai
continui rastrellamenti per le vie della città, ai pestaggi indiscriminati,
alle torture ed umiliazioni inflitte per lunghissime ore agli arrestati — non
poteva fare a meno della vendetta contro chi si era dimostrato incapace di poter
controllare la piazza come promesso. La prova di forza del governo italiano
doveva essere data fino in fondo.

 

Finita la rivolta, è iniziato il suo
commentario da parte di giornalisti, specialisti, periti. E più aumentavano le
testimonianze e le interpretazioni di quanto avvenuto, più diminuiva la sua
cristallina chiarezza. La rivolta di Genova, nella sua viva totalità, è stata
sezionata e smembrata in tante piccole particelle. La burocrazia del dettaglio
ha spazzato via l’immediatezza del significato.

Un esempio per tutti, l’inchiesta sulla
morte di Carlo Giuliani. Chi ha sparato? Con quale arma? Da quale distanza?
Quanti colpi? Il defender era davvero isolato rispetto agli altri carabinieri?
Ma ne siamo sicuri? Rivediamo le immagini, rimisuriamo le distanze, rileggiamo i
rapporti… una, due, tre, infinite volte, tante quanto basta per assordare le
orecchie, chiudere gli occhi, sfinire il cervello, annegare il fatto originario
nell’alta marea del più insulso opinionismo. Fare in modo che non si rifletta
più sulla morte di un giovane abbattuto durante una manifestazione di protesta,
ma che ci si concentri sulla effettiva provenienza dell’estintore che aveva in
mano. Questo stesso procedimento di banalizzazione è stato utilizzato anche per
il resto, dalle torture inflitte a Bolzaneto all’irruzione notturna alla Diaz;
tutto è stato sbriciolato e ridotto in polvere affinché nulla si potesse più
vedere. Naturalmente questa poderosa opera di mistificazione è stata condotta
nel nome della verità. La stessa verità che molti aspettano e pretendono si
faccia largo nelle aule dei tribunali. Sono piovute denunce contro i
massacratori e torturatori in divisa. Gli avvocati si sono mobilitati. Sono
stati raccolti centinaia di video che dovrebbero infine mostrare cosa sia
veramente accaduto. Sì, perché la rivolta di Genova è stato l’avvenimento
più fotografato della storia. Sbirri da una parte, mediattivisti dall’altra,
giornalisti in mezzo, tutti si sono lanciati in una folle gara per immortalare
le azioni altrui. La rappresentazione, prima di tutto. Per i posteri. Perché si
sappia. Perché qualcuno paghi. Perché la giustizia trionfi.

Eppure, tutti sanno cosa è veramente
accaduto. È inciso in maniera indelebile nella memoria e nella carne di
migliaia di manifestanti presenti. E proprio Genova ha dimostrato l’assoluta
inutilità pratica, sovente la pericolosità, di macchine fotografiche e
videocamere. A parte la polizia, che ne ha tratto profitto identificando e
denunciando molti rivoltosi, compito che le è stato facilitato dall’onnipresenza
di portatori di teleobiettivi, e a parte i giornalisti, che hanno incassato lo
stipendio per il lavoro svolto, a cosa sono servite tutte quelle riprese? A che
pro mostrare a tutto il mondo che il vicecapo della Digos di Genova, Alessandro
Perugini, ha sferrato un calcio in pieno volto ad un ragazzo steso a terra
immobilizzato dai suoi colleghi? Forse che costui, colto sul fatto, è stato poi
messo in condizione di non ripetere più la sua impresa? Un tribunale lo ha
condannato, è stato espulso dalla polizia e sostituito con un poliziotto
beneducato e rispettoso della Costituzione? Niente affatto, anzi, con umorismo
piuttosto macabro lo Stato ha nominato il signor Perugini rappresentante per l’Italia
di una campagna internazionale contro la tortura nel mondo.

La convinzione che basti mostrare i soprusi
del potere per metterlo in ginocchio è un’illusione ideologica, meritevole di
sparire come tutte le ideologie. Erede diretto della vecchia controinformazione,
il moderno mediattivismo coltiva una cieca fiducia più nelle virtù
taumaturgiche dell’immagine che in quelle della parola. Ma entrambi si basano
sul presupposto che, una volta rivelata la verità dei fatti, le menzogne della
propaganda saranno infine messe a tacere. Chissà come sono rimasti male, quei
poveri idealisti che credono nella luce che sconfigge le tenebre, alla notizia
che osservando i filmati il perito della magistratura ha stabilito nientemeno
che sarebbe stato un sasso lanciato da un manifestante a deviare il proiettile
che ha ucciso Carlo Giuliani. Lo dimostrerebbe uno sbuffo biancastro comparso
repentinamente sopra la sua testa, un attimo prima della sua morte. È proprio
vero che, in una immagine, ognuno può far vedere ciò che vuole. E in una
competizione di immagini e chiacchiere, fra i media alternativi e quelli
istituzionali, è inutile nascondere che a vincere saranno sempre i secondi.

Così come non c’è da attendersi nessuna
verità da una immagine, allo stesso modo non possiamo aspettarci nessuna
giustizia da un verdetto. Anche perché i tribunali sono istituzioni di quello
stesso Stato che ha ordinato il massacro avvenuto a Genova. Perché mai i
magistrati dovrebbero condannare uomini che sono abitualmente al loro servizio?
Sbarazziamoci del pio luogo comune propiziatore di garanzie che pretende esista
una differenza fra Stato di diritto e Stato di fatto, come fossero due entità
che è necessario far coincidere per avere la giustizia. Lo Stato inventa il suo
diritto e lo applica e modifica come meglio crede, ben sapendo che si tratta
solo di carta straccia buona per gli allocchi. I torturatori che a Bolzaneto
hanno strappato le carte di identità degli arrestati gridando "qui non
avete diritti, siete nessuno", hanno solo espresso senza maschere la natura
dello Stato, quello di cui sono i servi obbedienti e leali. Qualsiasi perizia,
controinchiesta o verdetto, non potranno mai riconoscere questa banalità: che
lo Stato a Genova ha mostrato il suo vero volto. Che non ne siamo affatto i
cittadini, bensì i prigionieri. Che la nostra incolumità dipende dal nostro
servilismo. Che chi si oppone ai voleri dello Stato è un nemico da eliminare.
Non a caso, anche sull’onda della legislazione europea «antiterrorismo»
proposta dopo gli attentati alle Torri gemelle, il contestatore che insorge in
piazza è stato oramai assimilato al rivoluzionario che uccide un nemico, che a
sua volta è stato assimilato al kamikaze che dirotta un aereo per farlo
schiantare in mezzo a una città. Nel loro delirio di onnipotenza e nella loro
isteria securitaria, gli Stati pongono a tutti un’alternativa secca: o si è
fedeli sudditi, a cui al massimo è concesso di esprimere, a bassa voce e col
dovuto rispetto, il proprio disaccordo; o si è terroristi destinati al macero e
alla galera. O strisciare o crepare. Che si occupino spazi vuoti o si blocchino
strade e treni, che si infrangano vetrine o si abbattano funzionari statali,
poco importa: tutti questi atti saranno considerati terroristici, con tutto ciò
che questo comporta. Definendo in tal modo chiunque non si assoggetti
volontariamente, lo Stato intende celare la propria natura terroristica.

Ma i magistrati di Genova sono riusciti ad
andare oltre: hanno introdotto il delitto di «compartecipazione psichica»,
secondo il quale non occorre più prendere parte ad una rivolta per finire nel
mirino della repressione, basta essere presente ai fatti. Chi non vuole passare
qualche guaio non deve solo astenersi dal lanciare pietre o spaccare vetrine, ma
deve farsi poliziotto e controllare attivamente gli altri. Altrimenti può venir
incriminato come complice. Ossequioso suddito e potenziale sbirro: ecco come deve
essere, nelle fantasie di chi ci governa, il cittadino ideale del nuovo
millennio.

Tutto ciò rischia di lanciare una luce
inquietante sulle lotte che si apriranno nei prossimi anni, tuttavia potrebbe
contribuire a liquidare un vecchio falso problema che attanaglia molte
coscienze: quello sulla violenza /non-violenza. Ora è lo stesso Stato a
dichiarare che a scatenare la repressione non è l’uso della violenza, come
pretendono da sempre i placidi credenti in un miracolo emancipatore, ma sono
sufficienti le motivazioni che animano i suoi oppositori. Ciò che è
intollerabile è che si possa aspirare ad una vita radicalmente diversa, che lo
si affermi e che ci si batta per questo. Stando così le cose, chi si può dire
al di sopra d’ogni sospetto? Non ha alcun senso sbandierare il ricorso alla
violenza come linea di demarcazione fra «compagni» e «provocatori»; se in
passato ciò era stato fatto notare più volte da questo lato della barricata,
oggi è lo stesso Stato a mettere le cose in chiaro. Ecco che allora l’uso
della violenza torna ad essere ciò che è sempre stato: una scelta individuale,
dettata dalle prospettive, dalle circostanze, dalle attitudini di chi la mette
in pratica. Anche perché, se le ragioni della distruzione di questa società
sono sotto gli occhi di tutti — e sotto gli occhi di tutti si trova quindi
anche la necessità dell’uso della forza — quelle della sua conservazione, o
anche della convivenza con essa, sono decisamente meno chiare. Chi può
scagliare l’anatema contro coloro che a Genova hanno fatto strage di vetrine?
Non certo chi ha fatto strage di ossa, di teste e di denti. Né chi si indigna
per le aiuole calpestate e poi considera normali i morti sul lavoro. Ma nemmeno
chi vuole invadere la «zona rossa» del privilegio partendo dalla «zona
grigia» del collaborazionismo. Se chi attacca una banca è un provocatore
infiltrato, come si può definire chi consiglia un ministro, discute con un
parlamentare, contratta con un questore?

 

Solo l’11 settembre, con tutte le sue
conseguenze, è riuscito a far trapassare il ricordo degli avvenimenti del
luglio 2001 a Genova. Un sistema politico e sociale che aveva appena subìto dall’interno
la più grande e violenta contestazione degli ultimi decenni non poteva che
approfittare dell’attacco militare lanciatogli dall’esterno da alcuni
suoi rancorosi collaboratori licenziati. Attraverso la martellante campagna
mediatica "ground zero", orgoglioso simbolo di una civiltà vittima,
ha preso rapidamente il posto di piazza Alimonda, imbarazzante simbolo di una
civiltà carnefice, riuscendo a portare un po’ di tranquillità nell’oceano
in tempesta delle ipocrite coscienze occidentali — il salutare attentato di
Nassiriya è servito purtroppo da pretesto per completare l’opera,
trasformando in martiri da onorare gli assassini e torturatori in divisa che
tanto sangue avevano versato nella città ligure.

Eppure, quanto accaduto in quei giorni di
luglio di tre anni fa è ancora lì, minaccioso nella sua incompiutezza.
Talmente minaccioso che nel frattempo il suo significato non è stato solo eroso
dalla ragione di Stato che ha imposto una guerra infinita, ma anche dalla
calunnia, dalla mistificazione, dalla rimozione messe in atto da tutti coloro
— in uniforme o in tuta — che dovevano garantire l’ordine e la sicurezza
nelle strade genovesi, con i risultati che ben conosciamo.

Quegli avvenimenti sono stati definiti la
fine delle illusioni
. Più che di una fine, si è trattato di una pausa.
Purtroppo. L’occasione di rompere la lanterna magica, che per un attimo è
rimasta abbandonata a terra, è andata sprecata. Lo Stato può sempre contare su
schiere di servitori pronti ad ammazzare e di elettori pronti a farsi ammazzare;
ed oggi si appresta a presentare un conto salato per quegli attimi di libertà.
Il circo della contestazione, che a Genova aveva perduto i suoi spettatori, ha
continuato la sua tournée mondiale permettendo ai propri pagliacci di
esibirsi ancora; ed oggi si prepara a perpetuare l’odiosa distinzione fra i
buoni da salvare e i cattivi da condannare. Quanto ai rivoltosi, molti di loro
sembrano ammutoliti in attesa di un altro giorno festivo strappato alla
quotidianità del lavoro per manifestarsi.

La nostra strada, l’unica in grado di
portarci in paesaggi fantastici e ad incontri segreti dove tutto può ancora
accadere, non passa né dalle aule di tribunale né dagli studi mediatici. Il
culto della giustizia e quello della verità non avranno le nostre attenzioni.
Se ieri un appuntamento politico prettamente spettacolare è riuscito sotto l’incalzare
degli avvenimenti a trasformarsi in una sommossa generalizzata, ciò non
significa tenere d’occhio l’agenda del potere nella speranza di una replica.
Più che ai periodici rituali della militanza, forse sarebbe il caso di guardare
ai conflitti sociali che da più parti aprono brecce nel muro di cemento armato
del consenso. Perché non si può aspettare che il calendario ci dica che è
carnevale, il solo giorno in cui ogni scherzo vale, per accendere un fuoco allo
scopo di sciogliere il ghiaccio sociale in cui siamo ibernati.

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