untori
i traghettatori del consenso
Categories: Genova G8

Quello che si annunciava come il grande spettacolo di Genova
doveva contare su di un’attrice di primo piano: la contestazione simulata. Con
un anticipo di mesi rispetto alle giornate di luglio, il Genoa Social Forum (d’ora
in poi GSF) aveva cominciato una lunga negoziazione con l’amministrazione
comunale, il governo e i vertici delle forze dell’ordine sui finanziamenti e i
luoghi del "contro-vertice", nonché sulle modalità della protesta.
Dalle lettere a Ciampi agli incontri con il capo della polizia De Gennaro, dai
comunicati stampa alle ripetute richieste di essere ricevuti da Berlusconi, i
suoi portavoce pretendevano di essere trattati come un legittimo soggetto
politico. Da aprile in poi, con una scadenza settimanale, i vari raggruppamenti
del GSF (le future "aree tematiche") inscenavano, in centri sociali,
palestre e parrocchie, ripetute rappresentazioni di scontri davanti ai
giornalisti. Alle diverse "anime del movimento" corrispondeva uno
stuolo di consulenti e specialisti che fornivano le attrezzature adeguate e
stilavano gli opportuni decaloghi comportamentali. Ovviamente chi rifiutava la
logica della gerarchia e delle trattative non aveva alcuna voce in capitolo
rispetto alle decisioni prese dai cosiddetti rappresentanti del movimento (i
quali, a conti già fatti, proporranno un ridicolo referendum telematico a cui
risponderanno solo poliziotti e giornalisti). All’interno del GSF, una sorta
di cartello che riuniva una vasta area di democratici, dai cattolici di base di
Lilliput a Rifondazione comunista, da settori dei Verdi alle Tute bianche,
compresa la Sinistra giovanile, cioè i giovani degli stessi Ds che avevano
voluto il G8 a Genova, si stringeva un patto con cui i partecipanti si
impegnavano, nella contestazione, a «rispettare la città e le persone, anche
in divisa» (vedi il comunicato stampa del 5 giugno, riportato in Appendice).
Coordinato con il GSF, ma su basi indipendenti, era anche il Network per i
diritti globali, composto dai Cobas e da alcuni centri sociali. In queste note
ci soffermeremo soprattutto sulle Tute bianche. Ci sembra più utile smascherare
i pacificatori abili nel travestirsi da ribelli. I preti della politica
convenzionale si smascherano da soli.

Per creare l’"evento mediatico" non bastava la
blindatura della città e la creazione di una vera e propria zona di guerra. Ci
volevano le dichiarazioni roboanti dei contestatori. Questo era il ruolo delle
Tute bianche, giocato con una precisa strategia pubblicitaria. Così, nelle
settimane precedenti il vertice è un susseguirsi di retorica guerrigliera,
costruita per lo più con vari slogan ispirati al subcomandante Marcos. Il 26
maggio, a Palazzo Ducale (sede del futuro G8), alcune Tute bianche in costume
zapatista, con tanto di passamontagna, allestiscono uno spettacolo davanti alle
telecamere. Il loro portavoce Luca Casarini legge una sorta di dichiarazione di
guerra copiata dai comunicati dell’EZLN: «Vi annunciamo formalmente che siamo
scesi sul piede di guerra. […] Se dobbiamo scegliere fra lo scontro con le
vostre truppe e la rassegnazione non abbiamo dubbi: ci scontreremo» (il
manifesto
, 27 maggio 2001). Nello stesso periodo, all’idroscalo di Milano,
simulano con dei gommoni l’"accerchiamento" via mare dei
"potenti della terra". Anche in questo caso, i futuri Disobbedienti
non risparmiano di leggere l’immancabile dichiarazione ai giornali. Di
proclama in proclama, si arriva alle giornate genovesi. Senza perdere prima
l’occasione di definire – assieme all’intero Gsf – «bomba contro il
movimento» un pacco postale esploso fra le mani di un carabiniere della caserma
di San Fruttuoso (successivamente rivendicato da un gruppo anarchico).
Spingendosi fino alla delazione indiretta, il portavoce del Leoncavallo Daniele
Farina dichiara: «È il Torino style, sapevamo che qualcuno avrebbe provveduto
a inaspeire il clima con fatti cruenti» (il manifesto, 17 luglio 2001).

Contemporaneamente a queste frasi ad effetto, in ripetuti
incontri con la polizia Casarini e soci definivano nei dettagli le modalità di
un conflitto simulato, secondo un copione più volte sperimentato. Al riguardo,
rimane esemplare l’articolo di Luigi Manconi – parlamentare dei Verdi ed ex
di Lotta Continua – su La Repubblica del 14 luglio 2001 (che riportiamo
integralmente in Appendice). Attraverso accordi preventivi con la polizia e
tramite un «gruppo di contatto» («composto da avvocati, parlamentari,
portavoce delle associazioni e centri sociali»), il quale doveva dichiarare
«apertamente le proprie intenzioni e obiettivi», gli "scontri"
avrebbero dovuto risultare una perfetta messa in scena mediatica,
autopromozionale per le Tute bianche e conveniente per le forze dell’ordine.
Ora, perché uno spettacolo funzioni bisogna assicurarsi che nessun guastafeste
ne rovini l’allestimento. Dichiarerà, a questo proposito, l’allora questore
di Genova di fronte alla commissione parlamentare, il 28 agosto 2001: «Dirò di
più: un funzionario del dipartimento aveva contatti diretti con Casarini. Ciò
ha consentito, la sera tra il 20 e il 21 luglio, la collocazione di quei
container, perché da lui abbiamo saputo che, pur facendo parte del Genoa social
forum, le tute bianche non andavano d’accordo con il network e con i Cobas:
egli aveva dunque paura che altri, con frange estremiste, potessero disturbare
il suo corteo, che doveva passare per via Tolemaide. A questo punto abbiamo
creato quel muro di container che la Repubblica ha descritto bene nel suo
articolo. Lo scontro doveva avvenire in piazza Verdi con la famosa
"sceneggiata", che dava visibilità al movimento delle tute bianche».
Le parole del torturatore e assassino Colucci, a Genova massimo responsabile
della piazza, non sono mai state smentite. Solo le date sono sbagliate: si
tratta della sera tra il 19 e il 20 luglio. «Casarini ha confermato i contatti.
E ha confermato anche un dettaglio ulteriore: già la sera del 19 luglio c’era
la consapevolezza che alcuni elementi del cosiddetto network (che
comprendeva anche i Cobas) volevano compiere gesti di violenza. Fu proprio in
previsione di questa emergenza, come confermano anche fonti del Viminale, che il
quartiere della Foce dalla sera alla mattina fu disseminato di container. […].
Proprio dall’area dei disobbedienti sarebbe partita, in una fitta serie
di contatti e telefonate con alcuni referenti della Digos locali, l’emergenza
per le violenze che una parte dei contestatori stava preparando» ("Digos e
disobbedienti uniti contro i black bloc", Il Secolo XIX, 30 gennaio
2003).

Nonostante tutto questo, gli accordi saltano, lo spettacolo
finisce. Fin dalla mattina del 20 luglio diverse centinaia di anonimi ribelli
cominciano ad attaccare le strutture del capitalismo – banche, sedi di
multinazionali, caserme e carceri – infischiandosene della "zona
rossa" ed evitando lo scontro frontale con la polizia. Il corteo dei
Disobbedienti (questo è ora il loro nome: all’ultimo momento Casarini e soci
smettono la tuta bianca per confondersi "con la moltitudine del
movimento") parte dallo stadio Carlini alle 13. 15. Il corteo scende molto
lentamente con numerose pause. Alle prime immagini di incendi in lontananza, un
portavoce arringa i giornalisti diffidandoli dall’attribuire quelle azioni ai
Disobbedienti. Il corteo prosegue con cautela disponendosi a testuggine per
affrontare gli scontri simulati. Ma in via Tolemaide i carabinieri caricano
violentemente. Saltano tutti i propositi di assalto virtuale. Dopo questa carica
molti manifestanti abbandonano ogni intento pacifico e si scontrano con
decisione. Nonostante i ripetuti inviti dei capi a non lanciare nulla contro i
carabinieri, la base, raggiunta da centinaia di rivoltosi, ingaggia una
battaglia che durerà fino alle 17. 30. È nel corso di questi scontri che il
boia Placanica assassinerà Carlo Giuliani. Mentre numerosi gruppi continuano a
battersi con le forze dell’ordine, il corteo ritorna al Carlini, sottoposto alle
cariche, ai rastrellamenti e ai pestaggi di chi non riesce a rimanere nelle
fila. Una volta giunto allo stadio, la sbirraglia si ritira. Sono le 18. 30.
Fino a sera, comunque, l’insubordinazione alle gerarchie sarà totale anche
nel campo dei Disobbedienti. Quanto a Carlo, ecco cosa dirà a caldo un
portavoce delle Tute bianche genovesi, prima che gli avvoltoi della politica
cominciassero a planare sul suo cadavere: «Lo conoscevamo poco, qualche volta
lo incontravamo al bar Asinelli. Era un punkabbestia, uno di quelli che non
hanno lavoro ma portano tanti orecchini, uno che vuole entrare senza pagare, uno
che la gente perbene chiama parassita. Gli faceva schifo il mondo e non aveva
nulla a che fare con noi dei centri sociali, diceva che eravamo troppo
disciplinati» (Matteo Jade, diretta radiofonica, 20 luglio 2001).

Perché i carabinieri hanno caricato cinquecento metri prima
del previsto, con una violenza e in una zona (priva di vie di fuga) che non
permettevano altro se non una strenua resistenza da parte dei manifestanti?
Perché la repressione era premeditata, perché l’Apparato di sicurezza andava
sperimentato (secondo una costante dell’espansione tecnologica e militare:
tutto ciò che si può fare, dev’essere fatto). Odiose e patetiche insieme,
allora, sono le lamentele sulle forze dell’ordine che non hanno rispettato gli
accordi, degne solo di chi collabora col nemico ed è disposto – come abbiamo
visto – a vendere altri compagni alla repressione pur di assicurarsi un
miserabile teatro di finta radicalità. Tutta colpa dei carabinieri…
(«sapevano cosa volevamo fare e avrebbero potuto permetterci di violare la zona
rossa. La verità però è che sono stati i carabinieri a far saltare tutto»,
Luca Casarini, Il Nuovo, 27 agosto 2001). Per quanto riguarda le pratiche
di attacco a banche e caserme, sulle prime si strilla contro gli anarchici, poi
si ripesca la figura immancabile del provocatore pagato per discreditare il
movimento. Ecco allora, per riprendersi da un clamoroso smacco, la calunnia –
tipicamente stalinista – dei «black bloc infiltrati e manovrati dai servizi
segreti». Gli stessi black bloc che le Tute bianche facevano finta di
apprezzare quando questi agivano all’estero, magari a un oceano di distanza.
Ecco cosa diceva una Tuta bianca bolognese (lista movimento@ecn.org) prima di
Genova: «Peccato che il Black Bloc, per sua stessa scelta ideologica, non abbia
capi, né leader carismatici, né portavoce, e agisca esclusivamente per piccoli
gruppi di affinità autorganizzati. Lorsignori sono anarchici duri e puri e
provano schifo davanti a qualsivoglia figura anche solo lontanamente
gerarchica». Che teneri, questi anarchici. Subito dopo, invece, diventeranno
«zanzare agili e veloci, prive di consenso, che rappresentano una disgrazia per
tutti» (Marco Beltrami, portavoce del "Laboratorio del Nord-Ovest").
E ancora, con maggior fiuto politico: «[…] nel momento in cui le pratiche del
BB sono state usate contro di noi, dobbiamo dire con forza che queste persone
sono politicamente morte. E se avessero un minimo di intelligenza dovrebbero
essere i primi a fare l’esame di coscienza e suicidare un’esperienza che si
è, di fatto, conclusa a Genova» (Roberto Bui, aspirante leader delle Tute
bianche, movimento@ecn.org, 23 luglio 2001). Certo, molto meglio fare
dichiarazione incendiare di assalto alla "zona rossa" e poi definire
quelli che all’assalto vanno veramente «zanzare», «politicamente morti» e
«provocatori». Alla calunnia più becera (diffusa soprattutto da Rifondazione
comunista e dai Verdi, dal Manifesto e da gruppi come Attac) sui black bloc
creati e composti da agenti infiltrati (o da neonazisti) se ne aggiunge un’altra,
più sottile e scaltra: «[…] ad agire nella giornata di venerdì erano sei o
sette infiltrati dell’Arma, che incanalavano e coordinavano la (giusta,
giustissima, ma forse un po’ troppo cieca) incazzatura di qualche centinaio di
anarchici che si sono aggregati senza capire in che modo venivano
strumentalizzati. Credo che la stessa cosa sia successa sabato» (Anton
Pannekoek, alias Roberto Bui). Gli anarchici, insomma, non sono dei provocatori,
sono solo degli utili idioti che fanno involontariamente il gioco del potere.
Poniamoci, sul problema degli infiltrati e delle presunte complicità
poliziesche, queste semplici domande: che bisogno avevano i servi in borghese di
attaccare le strutture dello Stato e del capitale quando c’erano centinaia di
compagni arrivati a Genova apposta…? È più facile, per gli sbirri, pestare
manifestanti inermi oppure piccoli gruppi rapidi nel colpire, nell’erigere
barricate e disposti a difendersi? È più agevole, per gli agenti, introdursi
in piccoli gruppi di affinità o negli spezzoni di un grande corteo? In realtà,
sbirri in borghese nelle manifestazioni ce ne sono sempre, e a Genova molti sono
stati smascherati e cacciati dai compagni (come accadrà anche al corteo del 4
ottobre 2003, a Roma, contro la Convenzione europea). Il loro ruolo è in genere
quello di identificare i più facinorosi o quello – che nessuno può svolgere
al posto loro – di picchiare altri manifestanti pacifici per creare paura e
confusione. Per quanto riguarda le famose "prove" sui "black bloc
manovrati dalla polizia", invece, dopo anni di calunnie le immagini sono
sempre le stesse: qualche sbirro con il fazzoletto sul viso che si aggira nei
pressi di un corteo, alcuni carabinieri in borghese che escono con dei bastoni
in mano da una caserma presa d’assalto… E questo spiegherebbe una sommossa
che ha coinvolto migliaia di persone, alcune organizzate, ma tante altre unitesi
spontaneamente… Se c’è un’ideologia che si è suicidata a Genova, è
quella riassunta in queste parole: «[…] è parere di molti che la
disobbedienza civile protetta abbia contribuito a traghettare ampi settori di
movimento da forme di protesta nichiliste e distruttive a una pratica non meno
radicale ma eminentemente politica. Peraltro, preannunciare tutto ciò che
verrà fatto apre già di per sé lo spazio alla mediazione politica "sul
campo", se ve ne è la volontà da parte dei responsabili dell’ordine
pubblico» (Luca Casarini, Audizione di fronte alla commissione parlamentare, 6
settembre 2001). Sul selciato genovese, tra i carrugi e il lungomare, la
«disobbedienza civile protetta» non ha traghettato un bel nulla. Ha portato in
bocca alla polizia migliaia di manifestanti disarmati (mentalmente e
fisicamente), mentre tanti altri passeggeri, ammutinatisi, sono insorti per
difendere se stessi e i propri compagni. Invece, di fronte ai rastrellamenti, ai
pestaggi, alle torture, si sono sprecate le lamentazioni ("I patti! I
Patti!") di chi, oltre che sciacallo, si rivela tanto imbecille da fidarsi
delle forze dell’ordine. Insomma, mentre attorno alla zona rossa si allestiva
la scena dello scontro fittizio, altrove scoppiava, lontana dai riflettori, la
rivolta reale. Mentre chi confidava nella polizia alzava e invitava ad alzare le
mani, migliaia di manifestanti si rifiutavano di andare al massacro, rispondendo
colpo su colpo alla violenza dei servi in divisa. L’insubordinazione, questa
variante non prevista, cominciava ad aggiustare la mira.… «I funzionari di
polizia mi dicono che è tutto finito (lo vediamo da soli), e che sarebbe utile
andare in via Sturla dove a loro risulta in corso un attacco a una caserma dei
carabinieri. Allora con la macchina andiamo in via Caprera, dove incrociamo
altre migliaia di persone che intasano la strada. Chiediamo dove possiamo
passare, ma, mentre passiamo secondo le indicazioni delle forze dell’ordine,
veniamo assaliti da un gruppo di persone che, al grido di "infame"
rivolto al sottoscritto, lanciano tutto ciò che hanno a disposizione contro la
macchina» (Vittorio Agnoletto, Audizione di fronte alla commissione
parlamentare, 6 settembre 2001).

Ma torniamo alle Tute bianche, la cui storia non comincia
certo a Genova. Per capire il loro ruolo in quelle giornate è utile fare
qualche passo indietro. Le Tute bianche nascono all’interno dell’Associazione
Ya Basta, creata nel 1996 dall’alleanza di alcuni centri sociali firmatari
della cosiddetta Carta di Milano: il Pedro di Padova ed il Rivolta di Mestre, il
Leoncavallo di Milano, il Corto Circuito e il Forte Prenestino di Roma, lo
Zapata e il Terra di Nessuno della Liguria e altri ancora. Si tratta dei centri
sociali che hanno accettato, sin dal 1994, la legalizzazione (su proposta del
verde Falqui) degli spazi occupati e i finanziamenti statali. Questa
prospettiva, abbracciata da tutta un’area dell’ex-Autonomia Operaia, ha
portato su posizioni sempre più istituzionali, con tanto di partecipazione alle
elezioni e di collaborazione con vari ministeri (un esempio fra i tanti,
Casarini è stato consulente retribuito di Livia Turco, ministro degli affari
sociali del governo Amato nonché autrice, assieme a Napolitano, della legge che
ha introdotto in Italia i lager per immigrati clandestini). È questa la strada
che porterà agli accordi con la polizia a Genova (e anche in seguito, visto
che, in occasione del vertice di Riva del Garda del settembre 2003,
Disobbedienti e Social forum si siederanno di nuovo al tavolo con… Colucci, il
massacratore di Genova divenuto nel frattempo questore di Trento). Uno degli
aspetti più ripugnati di questa pratica di collaborazione con le istituzioni è
che essa viene giustificata in nome della "nonviolenza", quando sono
fin troppo noti i metodi con i quali questi leninisti storici affrontano
chiunque non condivida le loro scelte (cioè chiunque disturbi i loro
spettacoli). Significativo, a questo proposito, un loro volantino-decalogo dal
titolo Disobbedienza civile. Istruzioni per l’uso, distribuito in varie
occasioni prima del G8 (e riprodotto in Appendice). Ma la questione
fondamentale, in realtà, è un’altra. Si può davvero essere
"nonviolenti" e collaborare con lo Stato, massima espressione della
violenza? È per rispetto della "nonviolenza" che si aggrediscono e
calunniano coloro che praticano l’azione diretta contro le strutture di morte
del capitalismo? A chi si vuole dare il proprio messaggio
"nonviolento" quando si partecipa, come ha fatto Casarini, ai funerali
di un servo dei padroni come D’Antona? Qui l’etica non c’entra, si tratta
unicamente di opportunismo politico. Decalogo per decalogo, leggete cosa diceva
Gandhi a proposito della nonviolenza contro l’oppressione: «1. Rinuncia ad
ogni titolo onorario. 2. Non accettazione di finanziamenti del Governo. 3.
Sospensione dell’attività da parte di avvocati e giudici. 4. Boicottaggio
delle scuole del Governo da parte dei genitori. 5. Non partecipazione ai partiti
di governo, e ad altre funzioni politiche ». L’esatto contrario di quello che
fanno i Disobbedienti e tutti gli altri movimenti legati ai partiti e alle
burocrazie sindacali: chiedere i soldi allo Stato per… disobbedire all’Impero.
Insomma, come ha scritto qualcuno, serve a poco sfidare le zone rosse del potere
se non si disertano le zone grigie della collaborazione. Tutto questo dimostra
che «la differenza importante non è tra violenza e nonviolenza, ma tra avere o
no appetito di potere» (G. Orwell). E quando si mira al potere, ogni metodo è
lecito. Tanto più che non mancano mai, come sappiamo, i brillanti linguisti
capaci di trasformare i compromessi in altrettante prove di "intelligenza
tattica".

Nate nel 1998, a Genova le Tute bianche sono diventate
Disobbedienti. Che cos’è la disobbedienza per costoro? Non certo la scelta
coraggiosa di Henry David Thoreau, padre di quella disobbedienza civile a cui lo
stesso Gandhi si è ispirato. Thoreau non era affatto un "nonviolento"
– come dimostra la sua apologia per Padre Brown, di cui difese la scelta di
usare le armi contro gli schiavisti – ed odiava il conformismo prodotto dalla
civiltà. Del solitario di Walden i Disobbedienti riprendono unicamente un
aspetto: l’accettazione dell’autorità. Ma diamo la parola a un
Disobbediente stesso: «Per prima cosa la disobbedienza presuppone un piano
dialettico. Viene riconosciuto un ente che produce norme e viene prevista un’interazione
dialettica con questo ente. Si disobbedisce affinché il soggetto che ha emanato
norme di un certo tipo riveda le sue posizioni e si appresti a normare in
maniera diversa. Non si mette dunque in discussione, anzi si conferma, la
legittimità e il funzionamento della funzione normativa, come anche la cornice
giuridica complessiva nella quale questa s’inscrive». E poco oltre: «Per
paradosso, se e quando la costituzione imperiale si alimenta del caos, quando
– per dirla in altri termini – è l’Impero stesso a disobbedire, forse il
compito dei cives, dei soggetti che lo avversano, diventa quello di
normare in modo nuovo, a partire da istituzioni nuove, piuttosto che quello di
disobbedire» (Federico Cartelloni, Il tempo della disobbedienza, in
AA.VV., Controimpero. Per un lessico dei movimenti globali,
Manifestolibri, 2002). Non avremmo saputo dir meglio. L’illusione di riformare
il dominio collaborando con le sue istituzioni e con la sua polizia è stata
sepolta a Genova. Gli insorti non la rimpiangono.

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