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gli ammutinati
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GLI AMMUTINATI

 

Lungi dal voler tracciare una psico-geografia
dei gruppi e degli individui che hanno partecipato alla rivolta di Genova
rimanendo fuori dalla contestazione concordata, in queste righe parleremo di
come la diserzione della «zona rossa» e l’incontro delle esperienze di
spossessati da tutto il mondo abbiano convertito una farsa annunciata in
una sommossa reale.

Se da mesi la propaganda riformista martellava
con roboanti «dichiarazioni di guerra» che circoscrivevano il nemico da
attaccare alla «zona rossa» – cioè ai rappresentanti dei Grandi Otto e al
sopruso eccezionale delle transenne e dei check-point -, molti erano i messaggi
che lasciavano presagire che a Genova lo spettacolo del rifiuto sarebbe stato
scalzato da forme concrete di critica della vita quotidiana.

Già due anni prima, nel novembre del 1999,
Seattle era stato un momento di rottura dopo anni di passeggiate simboliche
organizzate dal movimento cosiddetto «no-global»: la radicalizzazione di una
parte di questo movimento necessitava di un modo altro di scendere in
piazza e l’emergere prepotente dell’azione diretta a Seattle andava in
questa direzione. È da quel momento in poi che, ogni volta che le mobilitazioni
contro i vertici dei grandi della terra – a Davos come a Praga, a Nizza come a
Québec City o a Göteborg – travalicano la
protesta simbolica, si parla di «black bloc» in azione. Il fatto che il black
bloc non sia una organizzazione formale ma il nome dato ad un raggruppamento
occasionale di piccoli gruppi di affinità che agiscono in maniera autonoma –
o un modo per definire certe tecniche di guerriglia – non impedisce la sua
trasformazione in uno degli attori dello show della contestazione. Che questo
ruolo spettacolare sia stato ricercato o semplicemente subìto dai suoi
protagonisti non ci è dato saperlo, vista proprio l’estrema eterogeneità
degli individui che partecipano alle azioni etichettate «black bloc».
Quello che ci preme sottolineare, però, è che sono state proprio queste azioni
a funzionare da detonatore per la situazione che si è creata venerdì 20
luglio nelle strade genovesi, cioè qualcosa che ha più i tratti di una rivolta
generalizzata che quelli della classica contestazione di un vertice condita con
qualche scontro tra polizia e militanti. Già negli anni precedenti, negli Stati
Uniti, le azioni «black bloc» riuscivano a coinvolgere i giovani dei quartieri
neri e poveri, mentre il resto del movimento contro l’Organizzazione Mondiale
del Commercio e più in generale contro il neoliberismo ne lamentava la
cronica assenza. Se soltanto un mese prima, durante il vertice di Québec City,
migliaia di rivoltosi avevano attaccato le strutture dello Stato e del
capitalismo, a Genova si è andati oltre: l’azione diretta è riuscita a
scavalcare il muro della militanza, aprendosi alla partecipazione gioiosa non
solo di altri manifestanti, ma anche di abitanti dei quartieri, di semplici
passanti e di curiosi, creando momenti di rivolta collettiva e di liberazione. E
questo nonostante la criminalizzazione preventiva e il terrorismo psicologico
che avevano come obiettivo quello di dividere i contestatori in buoni e
in cattivi. Ma è stato proprio l’incontro tra contestatori «cattivi»
– vale a dire chi non voleva farsi guidare dai Casarini o dagli Agnoletto di
turno – di varie tendenze e quelli che i mass media e gli organi di propaganda
dei gruppi riformisti concordano nel definire hooligans, teppisti, casseurs
o semplici «idioti violenti» ad esplodere in faccia agli specialisti del
controllo e ai pretesi leader della contestazione. Chi ciarla di «disagio
esistenziale» con la pretesa di governarlo (e senza mai considerarsi,
ovviamente, parte in causa) ne ha assaggiato la natura esplosiva. Durante
la prima delle giornate genovesi tutto si svolge tranquillamente, a parte
qualche sassaiola contro gli schieramenti della polizia. È giovedì 19 luglio,
il giorno del corteo dei migranti, e in molti tengono conto della possibile
presenza nella manifestazione di clandestini e del conseguente pericolo, in caso
di arresti, di espulsioni e di internamenti nei lager (i cosiddetti Centri di
Permanenza Temporanea). Al corteo partecipano circa 50 mila persone. Il rispetto
per le consegne degli organizzatori (per alcuni) e la meditata rinuncia allo
scontro (per altri) tramontano con la fine di questa giornata.

Per il giorno successivo è prevista una lunga
serie di «piazze tematiche», ciascuna occupata da differenti organizzazioni, e
un grosso corteo capeggiato dai Disobbedienti. In questo dovrebbe consistere l’inizio
del tanto sbandierato assedio alla «zona rossa». Piazza Paolo da Novi è
assegnata al Network per i diritti globali ed è proprio da qui che uno ad uno
gli accordi e le contrattazioni cominciano a saltare. Nelle assemblee che hanno
preceduto il vertice sono state preparate azioni a partire dalle 13. Diverse
centinaia di rivoltosi si danno appuntamento in questa piazza a partire dalle 12
(altri invece decidono di incontrarsi ad ovest, al corteo della Federazione
anarchica italiana, dei Cub e delle Rdb). Le azioni decise sono abbastanza
semplici e veloci, anche se non prive di rischio, e la loro riuscita dipende in
buona misura da come saranno disposti i 20 mila uomini delle forze dell’ordine
(il corteo del giorno prima ha permesso di capire che saranno per lo più
concentrati nella cosiddetta zona rossa). Alle assemblee partecipano svariate
realtà di lotta provenienti da tutta Europa e gli orari del concentramento e
delle azioni sono pensati in relazione altre «piazze tematiche».

In moltissimi, però, sono determinati ad
ignorare le contrattazioni e vogliono bruciare le tappe, tanto che la piazza si
riempie un paio d’ore prima del previsto da gente che non esita a procurarsi
sul posto tutto quel che può servire per andare all’assalto non solo della
zona rossa, ma di tutto quello che in città ha il sapore della sottomissione.
Molti Cobas presenti non gradiscono affatto questi preparativi per un festa non
annunciata, e ne nasce qualche acceso diverbio. Non è ancora mezzogiorno e già
vanno in frantumi i primi vetri di banche e caserme, di agenzie immobiliari e
turistiche. Le telecamere vengono sistematicamente distrutte, automobili e
arredo urbano sono liberamente utilizzati per fronteggiare le prime cariche
della polizia.

Intanto i grossi cortei autorizzati si
preparano alla marcia, circondati dai cordoni di polizia e dai servizi d’ordine
degli organizzatori, mentre Genova si popola sempre di più grazie all’arrivo,
dopo ore e ore di ritardo, dei treni carichi di manifestanti. Molti dei nuovi
giunti, dalla stazione di Brignole, si uniscono ai gruppi di rivoltosi che
percorrono la città e ne modificano i piani. La polizia, concentrata sulla zona
rossa, sembra quasi assente. Quando viene assaltato il Credito Italiano di via
Torino c’è la prima grossa carica.

Ogni piano prestabilito, oramai, è saltato e
l’avventura genovese comincia davvero.

Sotto la spinta della carica di via Torino i
«cattivi» si dividono: una parte (circa 1500) si disperde nel quartiere
attorno a piazza Alimonda, dove erige barricate e riesce a respingere la polizia
con lanci di sassi e molotov, rimanendo fino alla fine del corteo delle tute
bianche. A loro si aggiungono molti ragazzi di Genova che conoscono bene la zona
e la cui complicità risulterà preziosa.

Un’altra parte s’incammina con il corteo
dei Cobas verso sud, verso piazzale Kennedy, dove alza barricate per tenere
lontana la polizia e assalta le banche. I Cobas continuano a non gradire questa
rumorosa compagnia e tentano di rifugiarsi nel centro di convergenza del GSF
lasciando fuori cinquecento rivoltosi. La maggior parte di questi riesce
comunque ad entrare e a sfuggire all’attacco dei Carabinieri, che però
sfondano i cancelli coi blindati e cominciano i rastrellamenti sulla spiaggia e
sul molo. Il gruppo allora si divide ancora: in duecento decidono di
allontanarsi dagli «allontanatori» dei Cobas andando verso nord; in
quattrocento, invece, continuano a seguire il corteo verso est, su corso Italia,
dove attaccano una caserma dei Carabinieri, per poi dirigersi verso nord e
ricongiungersi al corteo dei Disobbedienti che giunge dal Carlini. Sono le 13:
lo spettacolo avrebbe dovuto cominciare adesso, ma Genova è già un campo di
battaglia.

A saltare ora sono i patti tra le forze dell’ordine
ed i caporioni del Social Forum: il corteo dei Disobbedienti viene caricato
cinquecento metri prima di quanto previsto dagli accordi con la questura e,
soprattutto, le cariche sono vere. Intanto giunge la notizia che in contrada
Cavallotti, dopo un esproprio ad un supermercato, la polizia ha sparato.
Inoltre, il gruppo che arriva da corso Italia porta con sé il carico delle
esperienze fatte in un paio d’ore di sommossa.

Comincia il massacro generalizzato. Cobas,
Disobbedienti, lillipuziani, pink bloc e le altre migliaia di persone scese in
piazza si ritrovano schiacciate dalle cariche e dai lacrimogeni. L’asfalto si
macchia del sangue dei manifestanti e dei passanti pestati. Le forze dell’ordine
manganellano inferocite donne e uomini, vecchi e giovani, lanciano le camionette
a tutta velocità sulla folla, investono manifestanti.

Impotenti di fronte alla repressione,
moltissimi tra i manifestanti si convincono che la responsabilità del massacro
non siano di polizia e carabinieri, ma dei ribelli. «È tutta colpa del black
bloc», si sente ripetere. La logica di questa affermazione, che nasconde le
cause reali dei fatti dietro giustificazioni di comodo, è la stessa che fa dire
a tanti che la disoccupazione è causata dagli extracomunitari che rubano il
lavoro agli italiani. Sta il fatto che da questo momento in poi si susseguono
scene paradossali in cui sedicenti pacifisti sprangano ragazzi colpevoli di
essere vestiti di nero, in cui altri chiedono protezione alla polizia oppure
arrivano ad indicare agli agenti scatenati chi picchiare al proprio posto.

Altra sorte e altro clima, invece,
accompagnano quei millecinquecento che, dopo la carica di via Torino, si sono
diretti verso Brignole e piazza Giusti. Lì una parte della popolazione, a
differenza dei tanti militanti presenti a Genova, ha saputo unirsi ai facinorosi
e tutti – dal nerovestito all’anziana signora genovese con i suoi nipoti, ai
vari manifestanti appena arrivati alla stazione – hanno potuto condividere la
gioia di riappropriarsi di ciò di cui in quel momento avevano bisogno senza
passare attraverso il ricatto del denaro, gustando il dolce sapore della
gratuità e l’aria fresca della rottura delle regole. Vengono assaltati un
tabaccaio ed un supermercato; quest’ultimo rimarrà aperto fino a sera,
trasformandosi in un banchetto gratuito e in un luogo di discussione. Con la
tecnica ormai assodata di non offrire le spalle alla sbirraglia, erigendo
continuamente barricate lungo il percorso, gli insorti liberano, per qualche
ora, un quartiere dalle banche e da altre espressioni del dominio. Nessuno
sbirro riuscirà ad entrare nella zona fino alle 18.

Mentre le tute bianche si preparano per la
«vestizione» con l’armatura da «buoni» al fine di «mettere in gioco i
loro corpi», i millecinquecento «cattivi» si dirigono verso piazzale Marassi.
Prima di arrivarvi si suddividono ancora in due gruppi. Alcuni se ne vanno
perché non condividono la scelta degli obiettivi fatta fino a quel momento: si
sarebbero accontentati volentieri di banche e grosse multinazionali, il resto è
sembrato loro una perdita di tempo e di energie quando non un eccesso. Chi
rimane quasi non si accorge di cosa gli si erge dinnanzi: lì c’è il carcere,
lì ci sono centinaia di amici, fratelli, parenti, possibili complici rinchiusi.
Le forze dell’ordine a difesa del carcere si dileguano in un battibaleno sotto
gli attacchi dei rivoltosi, mentre dalle finestre i nonni osservano divertiti
quanto sta succedendo.

Viene dato fuoco alla grande porta (purtroppo
ignifuga), poi si cerca invano di sfondarla; vengono sfasciate le vetrate della
sala colloqui, le finestre del primo piano (i detenuti sono concentrati
all’ultimo) e l’ufficio del direttore, ma le poche molotov non bastano… a
qualcuno sarà venuta voglia di tirarla giù coi denti! Ma chi avrebbe mai
immaginato di arrivare fino a lì? E invece la complicità nella rivolta sincera
e reale (non simulata, non rappresentata ma vissuta) si è svelata in tutta la
sua potenzialità. Quale grande lezione: sottrarsi alla mafia dei
collaborazionisti, della Nuova Polizia è possibile, ed è la chiave per
liberare le diversità in modo che possano creare un reale pericolo per questa
società fatta di gabbie. Sembra quasi che non resti altro che tornare a casa e
mettere in pratica la lezione anche al di fuori dei grandi appuntamenti. Ma non
è finita.

Sono passate ormai molte ore dall’inizio
degli scontri e il gruppo di ribelli, finite le "munizioni", abbandona
il carcere per salire la lunga scalinata Montaldo. Ritenendo la scalinata un
ostacolo sufficiente a tener lontana la polizia, i rivoltosi non erigono
barricate. Finiti i gradini c’è piazza Manin, la piazza tematica della Rete
Lilliput. I cattolici, capeggiati da un prete, intimano al gruppo di
allontanarsi e subito dopo la polizia sbuca dalla scalinata e bastona chi si
trova davanti, cioè quelli che alzano le mani.

Inseguiti dalla polizia e scacciati dai preti,
i ribelli ripiegano verso sud. Tutti i gruppi (compresi i rivoltosi che si erano
uniti alla manifestazione della Federazione anarchica e del sindacalismo di
base) si ritrovano ora ad ingrossare il corteo, inizialmente capeggiato dai
Disobbedienti, ma che conta ormai più di 15.000 persone delle più varie
tendenze. Quando il corteo giunge in via Tolemaide, verso le 14. 30, gli scontri
sono già in corso. Mentre i portavoce si sgolano per dissociarsi dai
danneggiamenti, dalle barricate e dalla violenza contro la violenza delle forze
dell’ordine («è tutta colpa del black bloc», «sono stati gli
anarchici»…) alle loro spalle una marea di manifestanti, tra urla di rabbia e
di gioia, travolge i gendarmi e per ore tiene testa alle cariche. Oramai sono
gli stessi militanti disobbedienti a sfuggire ai propri caporioni, anche perché
la zona, priva di via uscita, non lascia altra scelta. Gli scontri sono
violentissimi: un blindato dei carabinieri viene assaltato e dato alle fiamme;
nel quartiere di San Fruttuoso vengono erette barricate e una parte della
popolazione si unisce ai rivoltosi. Le forze dell’ordine usano gli idranti e le
autoblindo. Più volte, attaccati da vie laterali a colpi di molotov, sono gli
agenti a fuggire. Intanto, in Piazza Alimonda, alle 17.30, Carlo Giuliani viene
assassinato durante un assalto a un Defender dei carabinieri. L’incredulità e
una rabbia quasi paralizzante s’impadroniscono dei manifestanti, subito scosse
dai gruppi che continuano a scontrarsi con le forze dell’ordine con un odio
senza confini, urlando vendetta. Il grosso del corteo si ritira verso il
Carlini, con la sbirraglia che carica, rastrella e pesta chi non riesce a stare
nelle fila. Quando i manifestanti raggiungono lo stadio, le forze di polizia si
ritirano dalla zona. Sono le 18. 30. Piccoli gruppi rimangono in centro
continuando a scontrarsi con le forze dell’ordine. Gli ultimi gruppi si
disperdono verso le 20, ma non prima che siano andate in fumo le banche di via
Torti e di p.zza Rossetti.

Prima degli scontri di via Tolemaide, ad
ovest, nel corteo dei sindacati di base, una sassaiola colpisce le truppe
giornalistiche. Un folto gruppo si stacca dalla manifestazione per attaccare
diverse banche prima di disperdersi inseguito dalla polizia. Altrove le forze
dell’ordine incontrano diversi gruppi determinati a fronteggiare le cariche,
anche con bombe carta. Mentre infuria la battaglia intorno a piazza Alimonda,
viene attaccatala caserma dei carabinieri in via S. Martino.

 

Per il giorno successivo, sabato 21 luglio,
molti sono quelli che spingono perché nulla succeda. Tra le voci istituzionali
spiccano i DS che chiedono la sospensione del vertice ed invitano a non
partecipare al corteo conclusivo. Usando il morto e gli scontri, sferrano un
attacco ai concorrenti di destra, e definiscono il vertice un totale fallimento.
Ma già dalle dieci varie azioni dirette vengono realizzate nelle zone limitrofe
al concentramento del corteo.

In 300.000 scendono in piazza. Ligi alle
richieste della questura e dei giornali, i servizi d’ordine del GSF
(Rifondazione, Attac e Disobbedienti) aiutati dai Cobas concentrano la propria
attenzione sui «black bloc». Addirittura, quando, dopo diverse cariche a
freddo della polizia, alcuni costruiscono barricate dando fuoco alle macchine
per proteggere il corteo, i servizi d’ordine tentano di cacciarli. Migliaia di
manifestanti, non cogliendo affatto la lezione del giorno precedente, di fronte
alle cariche alzano le mani pensando che questo li risparmierà: è un vero
massacro. Finanzieri e poliziotti manganellano e prendono a calci persone
inermi, intere famiglie con bambini, mentre gli elicotteri bombardano i
manifestanti con i famigerati lacrimogeni "a grappoli". Alcuni
rivoltosi attaccano la caserma di S. Giuliano (la stessa caserma dove gli
arrestati saranno, nelle ore e nei giorni successi, sistematicamente torturati).

Verso nord, dopo che il corteo è stato
spezzato in due dalle cariche, oltre il tunnel sotto la ferrovia vengono erette
barricate che attutiscono di molto l’avanzata della polizia: qui tutti
sembrano complici, cosiddetti black bloc, autonomi e anche gente di Rifondazione
e dei Cobas. Lontano, in piazza Ferraris, si tengono i comizi che erano stati
programmati, come se in città non stesse succedendo più nulla. In realtà sono
proprio le barricate e gli scontri a tenere la polizia impegnata, lontana.

Le banche che si trovano lungo il percorso del
corteo vengono sfondate e saccheggiate, quelle visitate il giorno prima ricevono
una nuova visita: gli espropri del venerdì avevano sollecitato l’interesse e
la voglia di emulazione di non poche persone («Vengo anch’io!» titolerà una
successiva testimonianza sul 21 luglio).

Tra le 6 e le 7 del pomeriggio, le
manifestazioni volgono al termine: tutto quello che la gente vuole adesso è
ritornare a casa sana e salva. Non è un compito facile visti i rastrellamenti
della polizia nelle strade, nei bar, negli anfratti, ovunque. Gli elicotteri
volano ancora bassi, le sirene non smettono mai di assordare. Nella ritirata
gruppi di rivoltosi continuano gli attacchi a banche e altri luoghi del capitale
e, in via dei Mille, un commissariato di polizia si ritrova con il portone
sfondato. Un gruppo consistente si dirige verso Brignole, attraversando il
quartiere di Albaro, senza trascurare banche ed altre strutture nefande prima di
unirsi con quelli che agivano al di là della ferrovia. Verso le 17. 30 tutti i
gruppi si disperdono.

Molti si recano alla stazione di Brignole,
altri nei centri di convergenza: non c’è molta possibilità di andare
altrove. Anche muoversi dalla scuola Diaz, centro del GSF, alla stazione non è,
nonostante la breve distanza, una decisione semplice. E poi: che fine hanno
fatto tanti compagni? Sono molti quelli che mancano all’appello.

Qualcuno preferirà aspettarli alla Diaz,
visto che lì c’è anche il primo soccorso dei sanitari e c’è anche posto
per dormire. Quelli che si sono illusi che tutto sia finito, dimentichi di
quello che è successo a Göteborg e a Praga,
pagheranno cara la stanchezza. Alla fine dei precedenti controvertici, infatti,
la polizia era entrata in azione nella notte ed aveva massacrato i manifestanti
che si erano rifugiati nei luoghi fissati come ricovero. Era abbastanza
verosimile che la sbirraglia avrebbe fatto la stessa cosa a Genova. Già la
notte precedente si erano avute avvisaglie di questo tipo: continuavano a girare
voci di assalti della polizia in vari campi e minacce che sarebbero arrivati
anche altrove. La sera del 21, dopo la cacciata di Agnoletto, che durante tutto
il giorno si era prodigato a calunniare, infamare e chiedere più repressione, e
la sassaiola contro una colonna di macchine della polizia, qualcuno avrà
cominciato ad avvertire un certo brivido di terrore. La voce si spargerà, ma
per l’ennesima volta un’ingiustificata fiducia nei limiti della violenza
dello Stato ridimensionerà l’imminente pericolo. Il resto della nottata è,
purtroppo, la storia di una nota mattanza.

Alle tre, mentre una colonna di blindati della
polizia passa nel quartiere della Foce, c’è un fitto lancio di pietre e
bottiglie. Dalla mattina, invece, piazza Alimonda si riempie di persone che
portano il proprio saluto a Carlo.

 

Chi crederà ancora, dopo Genova, che sia
possibile traghettare l’odio per la miseria, l’isolamento, i disastri
ecologici e le guerre verso il paradiso di un capitalismo dal volto umano, più
equo e solidale?

 

Ma la piatta apologia non è mai il sale della
terra. Il nostro intento non è solo quello di difendere il senso della sommossa
genovese, come memoria di un avvenimento in sé conchiuso, bensì quello di
rimetterlo in gioco. Per far questo è necessario evitare le schematizzazioni ed
affrontare i nodi critici.

A Genova non c’erano soltanto i racket
politici da un lato e i rivoltosi dall’altro (in parte organizzati e in parte
unitisi spontaneamente alla sommossa). C’erano tante persone abituate a
manifestazioni pacifiche e, più in generale, ad un "impegno politico"
da dopolavoro che coinvolge ben poco la vita quotidiana. Per molti di questi, i
capibastone delle varie mafie militanti non sono dei "recuperatori"
– concetto che presuppone una soggiacente radicalità della quale i leader si
approprierebbero per svuotarla –, bensì l’espressione di ciò che
effettivamente desiderano: un modo un po’ migliore, ma da ottenere senza grandi
sforzi. Le buffonesche dichiarazioni di guerra dei Casarini volevano recuperare
– quelle sì – la rabbia di un movimento che a Genova era comunque
minoritario – ed è quello il recupero che è miseramente fallito. Per tutti
gli altri la violenza dello Stato è stata un autentico trauma e le azioni di
attacco una pratica difficilmente comprensibile. Quanto alla calunnia dei
«black bloc infiltrati e manovrati dalla polizia», essa risultava rassicurante
per le loro coscienze, dunque credibile. Anche la visione schematica del racket
che manipola e recupera è in fondo, pur nella sua assoluta differenza,
rassicurante. Il rapporto fra dirigenti e diretti non è così semplice, e va
criticato nei due sensi. L’esplosione di Genova ha fatto i conti con anni
di assenza di conflittualità sociale, segnati da cortei pacificati e da
un’ideologia del dialogo democratico che è penetrata fin nelle ossa. Tutto ciò
non si scalza in qualche ora. Dopo i fatti di luglio, molti rivoltosi non hanno
saputo alimentare le fiamme di quei giorni nella continuità dei loro progetti,
fuori dalle scadenze prefissate.

Se è vero che la rivolta non propone solo
risposte diverse agli stessi problemi, ma cambia profondamente le domande (dagli
Otto Grandi da fermare, a un intero modo di vita da sovvertire, per restare
all’esempio genovese), è altrettanto vero che essa non fa sparire per magia i
problemi, ma li distribuisce diversamente. Se in genere nella rivolta, oltre al
piacere di vivere, s’innalza anche la capacità di smascherare i propri nemici,
nessuna sommossa regala uno spirito critico che l’esperienza non abbia affinato.
Da questo punto di vista è, ancora una volta, rassicurante bollare di
«moralismo» chi preferiva attaccare banche e multinazionali piuttosto che
sfasciare le cabine del telefono, o chi preferiva agire lontano dai cortei
piuttosto che coinvolgere suo malgrado altri manifestanti – non i sedicenti
disobbedienti, ma i tanti, tristi democratici – in possibili scontri. È vero
che limitarsi ai "simboli" (che poi tali non sono) del capitalismo
può essere un cliché militante rispetto al salto di qualità di una
sommossa che mette in discussione tutta la città con i suoi rapporti
alienati; ma è ideologico – questa volta nel senso dell’ideologia
della teppa – vedere chissà che lucidità laddove non c’è che una muscolosa
assenza di idee. La natura delle nostre analisi si riflette anche in ciò che
distruggiamo, perché l’azione stessa contiene un suggerimento teorico.

Se la rivolta è un immenso spazio di
possibilità che si apre, sta a ciascuno attraversalo a modo suo. Chi dice
sommossa dice anche tanta miseria e tanta stupidità che si sprigionano,
miseria e stupidità che la normalità capitalista organizza, incarcera e
diluisce allo stesso tempo. Evitare ciò non è possibile – se non buttando,
assieme all’acqua sporca, anche il bambino –, perché la libertà nasce sulle
rovine e sul fango. Ma appiattirsi nella loro ripetizione non è necessario.

Nella difesa dei rivoltosi di Genova,
nell’attacco senza mediazioni ai traghettatori del consenso, i problemi vanno
tenuti aperti. Per far meglio la prossima volta, giacché solo le occasioni
affilano le armi.

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