untori
giù la maschera, le forze dell’ordine al lavoro
Categories: Genova G8

Il G8 ha visto un dispiegamento di forze dell’ordine che
per mezzi e uomini non ha precedenti in Italia. Oltre a questo importante dato
della strategia della repressione, però, l’operato dei suoi uomini ha messo
in luce un altro fatto: nelle strade, in quei giorni, si è mostrato il vero
volto di questi corpi. Cani da guardia che con il massacro e la violenza sulle
persone si prestano al ruolo di custodi dell’ordine. Strategie di palazzo e di
piazza, repressione calcolata o violenze estemporanee di singoli "agenti
esagitati", la differenza non conta, sono tutti aspetti dell’essenza di
un corpo di persone piegate a una mentalità clanica che per l’interesse del
tiranno che gli dà il pane e la divisa sono pronte ad alzare il bastone contro
chiunque.

A Genova sono stati richiamati i corpi più svariati, i più
selezionati per questioni di sicurezza e repressione: c’erano i carabinieri
delle Brigate Sassari e Tuscania, protagonisti delle spedizioni italiane in
Somalia, in Iraq e Albania, più 2700 uomini delle truppe speciali dell’esercito
(i paracadutisti della Folgore, i marines del S. Marco, i commandos sommozzatori
del Corsurbin e la divisione NBC, specializzata nella guerra chimica,
batteriologica e nucleare); c’era il Gom (Gruppo Operativo Mobile) un reparto
– partorito nel ’97 dal governo di centro-sinistra ed entrato realmente in
funzione nel 1999 con il decreto firmato dal "comunista italiano"
Dilimberto – i cui uomini non sono fissi ma vengono scelti di volta in volta
dalla polizia penitenziaria; c’erano la Finanza, vari squadroni di Celere e
poi gli uomini del CCIR, un corpo speciale dei carabinieri creato apposta per il
G8. Nel complesso, più di 20 000 uomini.

Prima dei pestaggi e delle violenze di piazza che hanno fatto
il giro del mondo nelle immagini televisive gli agenti si sono distinti anche
per un lavoro di controllo. Già il 16 luglio, a Genova, una perquisizione
veniva effettuata all’interno del centro sociale Pinelli. Il 19 luglio e nei
giorni prima ancora i manifestanti venivano identificati e schedati per le
strade, mentre dai documenti ufficiali si sa che agenti infiltrati erano
presenti ad un’assemblea del 18 e ad altre tenutesi nelle settimane precedenti
in Germania e in Slovenia. La mattina del 20 vengono identificati e schedati
durante cinque ore tutti i presenti al centro sociale Inmensa e un’operazione
simile si svolge al Pinelli. Questi centri sociali sono due luoghi di ritrovo di
manifestanti che non si riconoscono nel GSF.

L’istituzione in città delle varie zone ad accesso
limitato e della cittadella dei carabinieri calava già uno scenario da regime
totalitario.

Il 19 si svolge il corteo dei migranti senza scontri di
rilievo, se non qualche sassaiola contro la polizia. Dal 20 inizia il massacro,
un massacro calcolato, quasi scientifico nella sua apparente illogicità.

La famosa carica dei carabinieri al corteo dei Disobbedienti
in via Tolemaide, che ha dato il via agli scontri generalizzati, è avvenuta
lontano da dove i più determinati attaccavano i luoghi di sfruttamento e
oppressione, e ai danni di un corteo per lo più disarmato. Ma a conti fatti è
risultata sicuramente più efficace e funzionale ai piani dei potenti che non
rincorrere per la città gruppi di facinorosi oltre tutto pronti allo scontro.
Coi pestaggi ai manifestanti pacifici la polizia ha dovuto togliersi la
maschera, ma ha dato un colpo, una lezione brutale a chi credeva di infastidire
i Grandi 8 con minacce fatte e poi ritirate o dichiarazioni di guerra nascoste
dietro la bandiera della nonviolenza, come avevano fatto Casarini e compagni nel
mese precedente il vertice. Difficilmente i dirigenti ignoravano che il luogo
scelto per la carica (una zona senza vie d’uscita) avrebbe provocato una strenue
resistenza da parte dei manifestanti, a cui non rimaneva altra possibilità che
difendersi.

Durante tutti gli scontri la polizia ha sparato 6200
lascrimogeni del famigerato gas CS (si sa di molte persone ricoverate
successivamente per averlo respirato e anche i chimici diranno di non conoscerne
le conseguenze a lungo termine). Gli aspetti apparentemente più insensati e
paradossali della condotta e delle scelte strategiche delle forze dell’ordine
vanno inseriti in un più ampio quadro (anche internazionale, visti i diversi
incontri al vertice e i corsi di addestramento per agenti allo scopo di definire
alcune direttive comuni). Se la repressione era pianificata e alcuni scontri
sembrano stati provocati appunto per "giustificarla", va detto che è
un’illusione poliziesca – condivisa anche dai capi della contestazione –
quella di ridurre tutte le variabili di un conflitto sociale ad un disegno
pre-ordinato. Di sicuro la sbirraglia era poco preparata ad affrontare le
pratiche di attacco messe in atto lontano dalla "zona rossa", dov’era
concentrato il grosso degli agenti. La centralizzazione delle strutture si
riflette anche nella mentalità degli uomini di Stato: per questi il compito
principale era comunque proteggere il vertice dei loro padroni. Quando una
sommossa raggiunge le dimensioni di quella genovese, per di più in una città
non ancora del tutto ridisegnata dagli urbanisti del controllo, le forze
dell’ordine sono costrette ad improvvisare. La loro brutalità risponde certo a
delle consegne ben precise (Fini non era per caso nelle centrali operative), ma
esprime anche la reazione di chi sfoga sugli inermi il proprio bisogno di
sopraffazione, un bisogno frustrato dai tanti manifestanti che hanno reagito
alle cariche. Per il resto, lo schieramento di carabinieri "giovani e
inesperti" in materia di guerriglia urbana, l’episodio del Defender dell’Arma
lasciato in preda ai manifestanti inferociti, l’abbandono della piazza del
carcere di Marassi, fino al culmine dell’assassinio di Carlo Giuliani in
piazza Alimonda, sembrano un misto di piani precisi e di benemerite
sbracate; e tutto ciò a dispetto dell’apparente invincibilità di un
dispiegamento di forze come quello predisposto a Genova. Subito attorno a piazza
Alimonda c’erano uomini della polizia ma nessuno è intervenuto in aiuto dei
carabinieri sulla jeep; le forze dell’ordine hanno sparato a Genova ma lo
avevano fatto anche il mese prima in Svezia, a Göteborg, e solo per miracolo
non c’era scappato il morto. Inoltre in quelle ore vicine all’uccisione di
Carlo, giravano voci insistenti su altri due morti tra i manifestanti svanite,
nel giro di poco tempo, senza conferma né smentita, mentre i colpi d’arma da
fuoco sono stati sicuramente di più di quelli sparati in piazza Alimonda. A
questo proposito va aggiunto che il ritrovamento – qualche giorno o
addirittura un mese dopo – di persone nelle vicinanze di Genova e nelle acque
territoriali del suo porto, morte in circostanze quantomeno oscure e liquidate
con autopsie rapide e raffazzonate, non permette di considerare campate in aria
quelle voci.

 

In generale gli agenti si sono prodigati in pestaggi e
violenze su persone inermi, per strada e soprattutto nella famigerata caserma di
Bolzaneto e in quella di S. Giuliano, dove si sono divertiti con torture,
umiliazioni e violenze sistematiche come il macabro rituale del corridoio
(un pestaggio fra due ali di servi in divisa) o i gas nocivi spruzzati nelle
celle. I rastrellamenti non hanno risparmiato neanche gli ospedali dove gli
agenti hanno fatto irruzione alla ricerca di manifestanti feriti che erano
dovuti ricorrere alle cure, e dove hanno picchiato ripetutamente.

Il 21 la strategia delle forze dell’ordine cambia: i
carabinieri, su cui pesava l’omicidio di Carlo Giuliani, vengono spostati
nella zona rossa dandosi il cambio con la polizia che questa volta carica in
modo calcolato e massiccio l’imponente corteo con l’intenzione di spezzarlo
da subito e, quando ci riesce, massacra i manifestanti riversatisi sul
lungomare. Già alle nove del mattino un nucleo di carabinieri tenta
un’irruzione nel campo dei Cobas a Sturla. Ritiratisi dopo una trattativa, gli
uomini dell’Arma tornano due ore dopo, arrestano una ventina di persone e
distruggono tutto.

Le giornate del G8 si concludono con il blitz notturno alla
Diaz, effettuato col pretesto della presenza in quella scuola di manifestanti
appartenenti al "Black Bloc". Alla Diaz era stato installato lo studio
di Radio Gap. Alla Pascoli, un’altra scuola sempre in via Cesare Battisti, di
fronte alla prima, si trovavano la sede del Genoa Legal Forum, il centro
sanitario e il media center (Indymedia). In questi locali gli agenti si sono
"limitati" a spaccare tutta l’attrezzatura e a sequestrare il
materiale video; alla Diaz, là dove i manifestanti dormivano, è stato invece
organizzato – staccati luce e telefono – un pestaggio violentissimo. Dalla
Pascoli si sentivano le urla terrorizzate dei ragazzi e di lì a poco le
ambulanze ne portavano via a decine, mentre altri venivano caricati sui
cellulari della polizia, probabilmente troppo malconci per essere lasciati lì
con tutti i giornalisti intorno. Dopo il passaggio di polizia, carabinieri e
reparto mobile di Roma (giudato da Canterini) il sangue dei manifestanti
chiazzava muri e pareti di tutta la scuola, ma secondo gli agenti era dovuto
alle ferite che i manifestanti si erano procurati durante gli scontri del
pomeriggio! A detta delle forze dell’ordine i pestaggi e gli arresti sono stati
una risposta all’aggressione subita entrando nella scuola e al ritrovamento di
due bottiglie molotov; si saprà successivamente che un poliziotto aveva
simulato maldestramente di esser stato pugnalato nel giubbotto antiproiettile e
che le molotov erano state raccolte dagli sbirri nel pomeriggio e portate lì
apposta (un agente interrogato, all’oscuro di tutto, riconoscerà le bottiglie
incendiarie che aveva lui stesso trovato in strada). In questa operazione era
coinvolto in prima linea l’allora capo dell’"anti-terrorismo"
Antonio La Barbera, lo stesso che una settimana prima di Genova aveva proposto
150 custodie cautelari in tutta Italia al fine di impedire a varie persone
"note alle forze dell’ordine" di partecipare al contro-vertice (in
seguito alle perquisizioni, invece, le procure di Milano non avevano ritenuto di
essere in presenza degli estremi per eseguire l’ordinanza,
"limitandosi" a disporre una quarantina di obblighi di dimora). La
Barbera è stato l’unico, dopo i giorni del G8, ad essere cassato dai suoi
superiori con la rimozione dal posto che occupava – poi, finalmente, è morto.

In quei giorni sono state arrestate qualcosa come 390
persone, la gran parte rilasciate nel giro di poco, dopo essere state pestate in
strada e torturate nelle caserme (non solo di Bolzaneto e S. Giuliano, ma anche
in varie del Levante Ligure); le altre, per lo più manifestanti stranieri,
furono trasferite – e alcune torturate – nelle carceri di Pavia, Vercelli,
Alessandria e Voghera. Gli stranieri, accompagnati di forza alla frontiera o
agli aeroporti, sono stati espulsi con provvedimento ministeriale/prefettizio.
Le ultime scarcerazioni avverranno il 4 ottobre 2001.

 

I numeri e i documenti ufficiali dimostrano dunque una
calcolata pianificazione della repressione: il terrore diffuso dal potere ha
dato ai suoi uomini l’occasione di usare il proprio brutale armamentario sul nemico.
D’altronde, mezzi e uomini sono in dotazione per venire impiegati e al codardo
in divisa che non ha alcuna capacità decisionale, disposto com’è ad esguire
qualsiasi ordine, basta avere la possibilità perché sfoghi il peggio di sé.

Allora analisi sulle strategie delle forze dell’ordine,
interpretazioni politiche o anche condanne incredule a un carattere
"cileno" della polizia sono del tutto secondarie o, peggio, funzionali
a quella rappresentazione il cui scopo è negare l’evidenza delle cose. In
molti contestatori si sono impegnati, dopo Genova, a salvare il buon nome della
polizia, a non fare di ogni erba un fascio, ad isolare le mele marce al fine di
avere un sano paniere della repressione, a riprendere le trattative così
miseramente fallite in quelle giornate. Dalle iniziative di riconciliazione
(esemplare quella – riportata in Appendice – di far reincontrare alla Diaz
picchiatori e picchiati) alla vera e propria espressione di solidarietà alle
forze dell’ordine (ad esempio dopo l’attentato alla Questura di Genova del
settembre 2002), i vari racket sedicenti nonviolenti si sono fatti in quattro
per contenere la rabbia contro gli agenti della repressione. E gli altri? Se i
servitori in divisa non sono riusciti a far capire, con il lavoro svolto a
Genova, qual è la natura dello Stato e di chi lo difende, di certo non ci
riusciranno né qualche riflessione teorica né un’intera enciclopedia di
storia del terrore poliziesco.

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