untori
La violenza tra diritto e giustizia. Accompagnamento alla lettura di Zur Kritik der Gewalt di Walter Benjamin

per esprimermi in una formula molto sintetica: non sono mai riuscito a
studiare e a pensare altrimenti che in un senso che potrei definire
teologico – ossia in conformità con la dottrina talmudica dei
quarantanove livelli di significato di ogni passo della Torah. Orbene,
l’esperienza mi insegna che la più logora delle banalità comuniste ha
più gerarchie di significato che l’odierna profondità borghese, che ha
sempre soltanto quello dell’apologetica.

(W. Benjamin)

L’aver esposto senza riserve il nesso irriducibile che unisce violenza
e diritto fa della Critica benjaminiana la premessa necessaria, e ancor
oggi insuperata, di ogni ricerca sulla sovranità.

(G. Agamben)

In realtà non vi è un solo attimo che non rechi con sé la propria
chance rivoluzionaria – essa richiede soltanto di essere intesa come
una chance specifica, ossia come chance di una soluzione del tutto
nuova, prescritta da un compito del tutto nuovo.

(W. Benjamin)

Osservazioni preliminari
Avvertenza: quel che segue è la rielaborazione di una relazione seminariale. Testi di riferimento:

W. Benjamin, Per la critica della violenza, in Angelus Novus, a c. di
R. Solmi, Einaudi, Torino, 1995, pp. 5-30 (ci si è attenuti comunque al
testo originale, adottando spesso scelte di traduzione diverse da
quelle di Solmi).

J. Derrida, Force de loi, Galilée, Paris, 1994 (trad. it., Forza di legge, Bollati Boringhieri, Torino, 2003).

G. Agamben, Homo sacer, Einaudi, Torino, 1995. 

Che cos’è la violenza? Se seguiamo l’etimologia, “violenza” e
“violento” derivano dal lat. violentum, e quindi da violare, che rinvia
a vis, ossia forza. Si potrebbe dire quindi che la violenza è un certo
uso della forza, o meglio un abuso della forza da parte di un soggetto
(individuale o sovraindividuale). È possibile definire la violenza?
Possiamo assegnarla ad un genere prossimo e indicarne la differenza
specifica. Potremmo dire: il genere è la vis, cioè la forza. La
differenza specifica in che cosa consiste? Quando una forza è violenta?
Rifacendoci a Girard: forza il cui esercizio mira alla soppressione
della differenza, alla dissoluzione dell’ordine
differenziale-gerarchico: di un corpo individuale o di un corpo
sociale-collettivo. Si pensi alla hybris della tragedia greca
(dismisura).

Oppure potremmo impostare il discorso in altro
modo: la violenza non sopporta definizioni proprio perché rifiuta
l’ordine logico, la gerarchia tra generi e specie. La violenza – se di
violenza possiamo parlare – è degenere, inimmaginabile e
inassimilabile, resiste all’immagine e alla somiglianza, come sostiene
Jean-Luc Nancy in un saggio recente (Image et violence, pubblicato nel
2000, ora ripreso in Au fond des images), dove leggiamo tra l’altro:
“On peut définir la violence, a minima, comme la mise en œuvre d’une
force qui reste étrangère au système dynamique ou énergétique dans
lequel elle intervient”.

Forse bisogna impostare il problema
in modo diverso, in un modo che ci permetta ad un tempo di resistere
all’astrazione – e alla violenza – implicita nella domanda definitoria,
e di tentare un approccio più concreto: se la violenza è un certo uso
della forza, chi decide dell’uso e dell’abuso della forza? Chi dispone
della forza? Chi può esercitare la forza, usandola o abusandone a
seconda delle circostanze e dei contesti? Può esercitare la forza chi è
legittimato a farlo. Chi o che cosa può legittimare un soggetto all’uso
legittimo della forza? Il diritto. Dunque il diritto non è altro che un
mezzo di legittimazione dell’esercizio della forza da parte del potere
costituito.

Analisi del testo
La critica della violenza è la filosofia della sua storia
(Die Kritik der Gewalt ist die Philosophie ihrer Geschichte).

(W. Benjamin)

Il saggio di Benjamin si articola in tre movimenti essenziali (la
nostra analisi segue l’articolazione del testo in capoversi):

– la problematizzazione dei rapporti tra violenza e diritto (attraverso
la critica della distinzione tra violenza che pone e violenza che
conserva il diritto) (capoversi 1-10);

– la ricerca di mezzi non violenti di composizione dei conflitti (capoversi 11-13);

– l’individuazione di una forma di violenza (la violenza divina) che
permetterebbe di uscire finalmente dalla dialettica tra violenza che
pone e violenza che conserva il diritto (capoversi 14-19).

§
1 – La critica della violenza mette in questione i rapporti tra
violenza da un lato, diritto e giustizia dall’altro. Dunque sia il
diritto sia la giustizia hanno in qualche modo a che fare con la
violenza. Benjamin non fornisce una definizione esplicita di violenza,
ma dà subito un’indicazione importante: una determinata causa agente
(dunque una forza, una vis) è violenta nella misura in cui eingreift in
sittliche Verhältnisse, interviene in rapporti etico-sociali (trad. it.
“incide in rapporti morali”).

Si noti che il verbo eingreifen
ha un significato militare, giacché può significare entrare in azione,
e un significato medico, giacché può significare operare, intervenire
sul corpo del paziente. Il verbo eingreifen potrebbe venire tradotto
quindi con aggredire. Non solo: l’aggettivo eingreifend significa
efficace, energico, incisivo, decisivo. Violenza è intervento decisivo
che aggredisce i rapporti sociali dati, che incide sulla sfera dei
rapporti sociali in quanto retta (diretta) dal diritto e dalla
giustizia.

Il Grundverhältnis dell’ordine giuridico (il
rapporto fondamentale che sta alla base dell’ordinamento giuridico,
dunque l’archirapporto, il dispositivo giuridico fondamentale) è il
rapporto fine-mezzo. Dal punto di vista giuridico (cioè in base alla
logica fine-mezzo) la violenza non può che essere mezzo. Se è così,
disponiamo di un criterio per la critica della violenza: il criterio è
dato dai fini. Possiamo cioè discriminare tra violenza come mezzo per
fini giusti e violenza come mezzo per fini ingiusti. Ma chi stabilisce
quali fini sono giusti e quali ingiusti? Non possiamo sfuggire al
circolo: è di nuovo l’ordine giuridico che stabilisce che cosa è giusto
e che cosa è ingiusto.

Ma il criterio fornito dal diritto
risulta inadeguato: esso non ci dice nulla sulla violenza, giacché non
fa che ribadire l’autoreferenzialità del sistema giuridico (l’ordine
giuridico stabilisce in quali casi l’applicazione della violenza è
giusta o ingiusta). Ma a noi non interessa valutare casi di
applicazione della violenza come mezzo. A noi interessa la violenza
überhaupt, als Prinzip. A noi interessa, sembra dire implicitamente
Benjamin, una critica immanente della violenza: il che implicherebbe
una tematizzazione della sfera dei mezzi “senza riguardo ai fini a cui
essi servono”.

Il compito che si (e ci) propone B. è molto
più difficile di quanto non possa apparire ad una prima lettura.
Difficile perché aporetico. Si tratterebbe di sospendere il presupposto
etico per eccellenza, almeno da Aristotele in avanti: la distinzione
tra mezzi e fini. Come è possibile trattare dei mezzi ohne Ansehung der
Zwecke, denen sie dienen? Sospendere il pregiudizio che riconduce la
critica dei mezzi alla valutazione dei fini significa pensare in
termini di pratiche senza soggetti. Mezzi senza fine.

§ 2 –
Esempio di applicazione e universalizzazione ingenua della logica
fine-mezzo è il giusnaturalismo moderno (e il liberalismo che da esso
discende, aggiungerei io), che risulta quindi incapace anche solo di
problematizzare la violenza. Il diritto naturale è incapace di
problematizzare la violenza perché esso la concepisce come un qualcosa
di naturale (un Naturprodukt, gleichsam ein Rohstoff). Questa
naturalizzazione indebita della violenza sta alla base:

– della concezione giusnaturalistica della nascita dello stato;

– del Terrore giacobino;

– del darwinismo sociale.

Verrebbe da chiedersi: che cos’hanno in comune Spinoza, Robespierre e
Darwin? Proprio la convinzione che la violenza sia un dato naturale,
una sorta di materia prima che viene impiegata come mezzo per il
conseguimento di determinati fini:

– nel caso di Spinoza il fine è l’uscita dallo stato di natura e la costituzione dello stato;

– nel caso di Robespierre il fine è la conservazione della rivoluzione contro i suoi nemici;

– nel caso di Darwin il fine è la conservazione della vita nel contesto
della selezione naturale (tradotto dalla biologia alla filosofia del
diritto: è legittima quella violenza che consente ai detentori del
potere di conservarlo).

§ 3 – In contrapposizione al diritto
naturale, il diritto positivo (o positivismo giuridico) considera la
violenza una historische Gewordenheit (il potere come storicamente
divenuto). Non presuppone quindi, come il giusnaturalismo, dei fini
giusti (in quanto naturali), ma valuta i mezzi in base alla loro
Rechtmässigkeit, legalità. Come dire: ci sono fini giusti o ingiusti e
ci sono mezzi legali o illegali.

Ciò che accomuna
giusnaturalismo e positivismo è ancora una volta il Grunddogma del
rapporto mezzi/fini: fini giusti possono essere conseguiti attraverso
mezzi legittimi; mezzi legittimi possono essere impiegati a fini
giusti.

Mi permetto di segnalare per inciso che questo
assunto continua a valere oggi come dogma, come se si trattasse di una
verità indiscutibile e sacra, anche presso i cosiddetti critici del
sistema sociale in cui viviamo. Penso alla retorica dominante nel
movimento antiglobalizzazione, tra i cui esponenti di punta troviamo
Toni Negri e il collettivo di Le Monde diplomatique. Non si impegnano
forse costoro a garantire la giustizia dei loro fini in quanto
perseguiti attraverso mezzi legittimi/legali, nonché a squalificare
come inefficaci e condannare come criminali tutte quelle azioni
concretamente sovversive che non rientrano nella legalità?

Ricordo inoltre che è in ultima istanza proprio quel Grunddogma ad aver
permesso a Hitler di edificare il Terzo Reich (o, per venire ai nostri
giorni, ad aver consentito alla Nato di legittimare l’intervento in
Kosovo agli occhi dell’opinione pubblica mondiale). Per contrasto
invece si potrebbe leggere la recente aggressione angloamericana contro
l’Iraq come la proclamazione ufficiale di uno stato di eccezione
planetario che rende quel Grunddogma ormai ineffettuale. Basterebbe
chiedersi: che ne è del Grunddogma in un Lager, all’interno di un campo
di concentramento?

Contro questa “presupposizione dogmatica”
Benjamin ribadisce l’urgenza di uscire dal cerchio magico della logica
fine/mezzo per adottare criteri indipendenti per i fini da un lato e
per i mezzi dall’altro. Con un gesto di inaudita radicalità Benjamin,
nel volgere di due paginette, abbandona il giusnaturalismo e il
positivismo giuridico al loro destino, e si mette all’opera per
impostare la questione della violenza in modo nuovo. Egli lascia
intendere che la presupposizione dogmatica di giusnaturalismo e
positivismo è falsa per una ragione di disarmante semplicità: forse
mezzi legali e fini giusti stanno tra loro in un rapporto di
inconciliabile contrasto (in unvereinbarem Widerstreit, trad. it. “in
contrasto irriducibile”). In che senso possiamo intendere queste
parole? Si tratterebbe, come ha mostrato ampiamente Derrida, di
distinguere con cura tra diritto e giustizia.

§ 4 – Benjamin
decide di escludere dalla presente ricerca il regno dei fini per
concentrarsi sulla questione della Berechtigung gewisser Mittel, welche
die Gewalt ausmachen (il problema della legittimità di certi mezzi, che
costituiscono la violenza).

Possiamo chiederci: come
impostare una “critica della giustizia” (che qui Benjamin lascia
impregiudicata, a meno di non identificare la giustizia nella göttliche
Gewalt di cui si parla nei §§ 17-19)? Se seguiamo Derrida, ci troviamo
in imbarazzo: a differenza del diritto la giustizia sarebbe infatti
indecostruibile. Indicazioni preziose ci vengono dalle benjaminiane
tesi Sul concetto di storia, dove la giustizia viene illuminata da una
luce messianica (e il messianico consiste in una certa esperienza del
tempo presente come Jetztzeit, “tempo di ora”).

Per
affrontare la questione dei mezzi e quindi della violenza il diritto
naturale risulta inadeguato (come abbiamo già visto, esso approda ad
una “casistica senza fine”), mentre la teoria positiva del diritto ci
consente di attuare una distinzione di principio tra due tipi di
violenza: violenza sanzionata (riconosciuta storicamente) e violenza
non sanzionata. Benjamin non intende applicare questa distinzione,
bensì sottoporla a critica, e cioè chiarire il senso di tale
distinzione (ciò implica che si assuma un punto di vista basato sulla
filosofia della storia, esterno tanto alla filosofia positiva del
diritto quanto al diritto naturale).

§ 5 – Come distinguere
tra violenza legittima e violenza illegittima? La legittimità di una
Gewalt (potere) si manifesta nella sottomissione ai suoi fini. Quindi
il criterio per distinguere tra violenza legittima e violenza
illegittima è la presenza o la mancanza di un riconoscimento storico
universale dei suoi fini (bisogna aggiungere: nel contesto di
determinati rapporti giuridici, cioè di un determinato ordinamento
giuridico, altrimenti si rischia di fraintendere Benjamin, il quale
sembra qui far rientrare dalla finestra i “fini” che aveva cacciato
dalla porta del suo saggio!).

Attenzione: il punto non sono
tanto i “fini”, bensì l’origine storica della Gewalt. In poche parole:
legittima è la Gewalt storicamente riconosciuta come legittima! Mi pare
che qui si cada in una tautologia che rimanda al “fondamento mistico
dell’autorità” di cui parla Montaigne, citato da Derrida: “les loix se
maintiennent en credit, non parce qu’elles sont justes, mais par ce
qu’elles sont loix. C’est le fondement mystique de leur authorité,
elles n’en ont point d’autre”.

I fini storicamente
riconosciuti sono chiamati Rechtszwecke (fini giuridici), mentre i fini
privi di tale riconoscimento sono chiamati Naturzwecke (fini naturali).
In altre parole: non si tratta di presupporre fini giusti e fini
ingiusti (dove i primi sarebbero “naturali”), come fa il diritto
naturale, ma di distinguere tra fini che hanno ottenuto una sanzione di
carattere storico, e fini che non hanno ottenuto tale sanzione. Qui non
si parte più dalla presupposizione dei fini, bensì dalla affermazione
della storicità di ogni Gewalt e quindi degli stessi fini. Determinati
fini vengono sanciti come fini giuridici da un potere che è riuscito ad
imporsi, a farsi riconoscere. Per capire meglio la differenza tra
violenza che serve fini naturali e violenza che serve fini giuridici
dobbiamo riferirci a una sistema di rapporti giuridici determinati, ad
esempio quelli che troviamo in Europa negli anni in cui Benjamin
scriveva.

§ 6 – Preoccupazione principale dell’ordine
giuridico è limitare i Naturzwecke individuali attraverso l’istituzione
di Rechtszwecke perseguiti dalla Rechtsgewalt; in particolare si tratta
di non ammettere fini naturali nei casi in cui questi fini potrebbero
essere perseguiti coerentemente (zweckmässigerweise) con la violenza
(cfr. ad es. le leggi sui limiti della punizione educativa). Possiamo
formulare la seguente allgemeine Maxime gegenwärtiger europäischer
Gesetzgebung (massima universale della presente legislazione europea):

Tutti i fini naturali di singole persone devono entrare in collisione
con fini giuridici se vengono perseguiti con una più o meno grande
violenza (Alle Naturzwecke einzelner Personen müssen mit Rechtszwecken
in Kollision geraten, wenn sie mit mehr oder minder großer Gewalt
verfolgt werden).

Il diritto quindi vede come un pericolo la
violenza nelle mani della singola persona, come una minaccia di
scalzare l’ordine giuridico. Si tratta evidentemente dell’interesse del
diritto alla monopolizzazione della violenza rispetto alla persona
singola. Ma attenzione: questo interesse si spiega con l’intenzione di
salvaguardare non già i Rechtszwecke, bensì il diritto stesso. Ciò che
minaccia il diritto quindi non sono i fini perseguiti dalla violenza,
bensì la sua mera esistenza al di fuori del diritto, ihr bloßes Dasein
außerhalb des Rechts (ciò trova conferma nel fatto che spesso il
“grande” delinquente suscita l’ammirazione del popolo: proprio in virtù
della violenza di cui esso testimonia).B. chiarisce la funzione più
propria della violenza (la v. che pone il diritto) facendo riferimento
a tre figure esemplari:

il grande delinquente;
il diritto di sciopero nel contesto della lotta di classe;
il diritto di guerra nel contesto dei rapporti internazionali.
§ 7 – Alla violenza è permesso di manifestarsi nel contesto
dell’attuale ordinamento giuridico sotto forma di diritto di sciopero
dei lavoratori. Il diritto di sciopero (che apparentemente sembra non
essere una forma di violenza giacché consiste essenzialmente in un
non-agire) si configura infatti come ricatto nei confronti del datore
di lavoro, quindi come “diritto di usare violenza per imporre
determinati scopi”.

Si pensi inoltre al contrasto di vedute
tra stato e lavoratori a proposito dello sciopero generale
rivoluzionario. Analizzando il senso dello sciopero generale
rivoluzionario comprendiamo quella funzione della violenza che
costituisce l’unico fondamento sicuro della sua critica. Nello sciopero
si mostra la potenza della violenza: la violenza è capace di fondare e
di modificare rapporti giuridici.

§ 8 – Per comprendere
meglio in che senso la violenza è capace di fondare e modificare
rapporti giuridici si prenda in considerazione il Kriegsrecht, il
diritto di guerra. La “pace”, intesa come sanzione della vittoria di
uno dei belligeranti, consiste nel riconoscere i nuovi rapporti
(determinati dalla violenza bellica) come un nuovo “diritto”. Vediamo
quindi come la violenza bellica (e quindi ogni violenza rivolta a fini
naturali) sia rechtsetzend.

§ 9 – Il militarismo come
violenza che conserva il diritto. L’analisi del militarismo (e della
critica contro il militarismo che si è diffusa durante la Grande
guerra) ci consente di mettere in luce un’altra fondamentale funzione
della violenza: quella di conservare il diritto (rechtserhaltende
Gewalt). Anche qui Benjamin individua tre figure esemplari della
violenza che conserva il diritto:

® il servizio militare obbligatorio;

® la pena di morte;

® la polizia.

Che cos’è il militarismo (formatosi grazie al servizio militare
obbligatorio)? “La coercizione alla applicazione generale della
violenza come mezzo per i fini dello stato (Der Zwang zur allgemeinen
Anwendung von Gewalt als Mittel zu Zwecken des Staates)”. Nel
militarismo la violenza non viene applicata per fini naturali, ma come
mezzo in vista di fini giuridici. Benjamin nota qui lucidamente che chi
intende criticare davvero il militarismo deve criticare ogni potere
giuridico, quindi anche il potere legale o esecutivo.

Discorso analogo va fatto a proposito della critica nei confronti della
pena di morte: “la sua contestazione non impugna un determinato grado
di pena, non assale determinate leggi, ma il diritto stesso nella sua
origine”. Il senso della pena di morte infatti “non è di punire
l’infrazione giuridica, bensì di statuire il nuovo diritto”. Proprio
nell’esercizio del potere di vita e di morte si può avvertire “etwas
Morsches im Recht”, “qualcosa di guasto nel diritto”.

Ciò che
caratterizza la rechtserhaltende Gewalt è di essere drohende, cioè
potere che minaccia. Ma la minaccia (Drohung) in questione non va
intesa come mera Abschreckung (intimidazione), bensì come destino
(Schicksal).

A proposito del potere che conserva il diritto,
cioè – direi – del potere in quanto minaccia (destino) rimane
insuperata la lezione di Kafka (si vedano le pagine di Homo sacer
dedicate a Vor dem Gesetz).
A proposito della questione del
destino è opportuno tenere ben presente il saggio su Destino e
carattere, dove si legge: “Rapporto all’innocenza non si trova quindi
nel destino. […] Ma è proprio la felicità che svincola il felice
dall’ingranaggio dei destini e dalla rete del proprio. Non per nulla
Hölderlin chiama “senza destino” gli dei beati. Felicità e beatitudine
conducono quindi, al pari dell’innocenza, fuori della sfera del
destino”. Ma la sfera del destino non è altro che quella del diritto:
“Le leggi del destino, infelicità e colpa, sono poste dal diritto a
criteri della persona […] Per un errore, in quanto è stato confuso col
regno della giustizia, l’ordine del diritto, che è solo un residuo
dello stadio demonico di esistenza degli uomini, in cui statuti
giuridici non regolarono solo le loro relazioni, ma anche il loro
rapporto con gli dei, si è conservato oltre l’epoca che ha inaugurato
la vittoria sui demoni” (Angelus Novus, trad. it., p. 33-34).

Su questa base risulta forse più chiaro l’accenno ad un feineres Gefühl
(che Solmi rende con “sensibilità più sviluppata”) capace di avvertire
qualcosa di marcio nel diritto. Tale sensibilità è propria di colui che
si sa infinitamente lontano dalla sfera del destino, di colui che si
impegna a prendere congedo dalla sfera del destino (facendo segno verso
una redenzione dal destino che nelle tesi Sul concetto di storia verrà
approfondita in senso messianico).

§ 10 – La polizia. La
polizia, nello stato moderno, presenta una “confusione spettrale
(gespentische Vermischung)” tra violenza che pone e violenza che
conserva il diritto. In essa vi è qualcosa di schmachvoll, di
ignominioso, giacché “in essa è tolta la separazione tra violenza che
pone e violenza che conserva il diritto” (in ihr ist die Trennung von
rechtsetzender und rechtserhaltender Gewalt aufgehoben).

La
polizia svolge in qualche modo la funzione di supplemento non
localizzabile dello stato (di qui il suo carattere spettrale):
un’istituzione dello stato che non è né dentro né fuori l’ordine
giuridico. La polizia come figura spettrale dell’eccezione sovrana: il
fantasma del potere sovrano, il suo doppio indecidibile, gestaltlos.
Intendiamoci: il carattere spettrale della polizia non sta a
significare ovviamente che non esista un corpo di polizia dotato di una
sua solida e sempre più efficace materialità. Spettrale e inafferrabile
è la funzione svolta dalla polizia nell’ordine giuridico. La polizia
apre una zona di indecidibilità tra violenza che pone e violenza che
conserva il diritto, mettendo in crisi questa distinzione fondamentale
(smascherando l’infondatezza di questo preteso fondamento: l’ordine
giuridico è guasto anche e soprattutto perché corroso nel suo intimo
dalla sua stessa rovina).

Il potere della polizia apre zone
di sospensione legale del diritto (lo stato di polizia è stato di
eccezione). In democrazia, dice Benjamin, la polizia testimonia della
“massima degenerazione della violenza” (denkbar größte Entartung der
Gewalt). Non possiamo non pensare qui ai campi di concentramento come
piena realizzazione dello stato di polizia.

Facendo
riferimento alla logica immunitaria analizzata da Roberto Esposito,
possiamo dire che la polizia è violenza introiettata dal sistema
giuridico per difendere se stesso dalla proliferazione contagiosa di
quel virus che è la violenza.

§ 11 – Benjamin fa il punto
della situazione: abbiamo ormai acquisito la fondamentale distinzione
tra violenza che pone e violenza che conserva il diritto, e abbiamo
compreso come affrontare adeguatamente il tema della violenza
significhi addentrarsi nella problematica del diritto.

Ci chiediamo ora: per comporre interessi umani in contrasto non vi sono altri mezzi che violenti?

Benjamin scarta risolutamente l’ovvio riferimento al Rechtsvertrag,
giacché esso rinvia in ultima istanza ad una violenza possibile, sia
per quanto riguarda il suo esito, sia per quanto riguarda la sua
origine, giacché:

– ciascuna delle due parti ha il diritto di
impugnare la violenza contro l’altra nel caso in cui questa non si
attenga al contratto (quindi l’esito può essere violento);

– inoltre il potere (Macht) che garantisce il contratto ha a sua volta una origine violenta.

Cade qui il cenno al “triste spettacolo” offerto dai parlamenti europei
dell’epoca, spettacolo che avrebbe spianato la strada ai fascismi. Nota
in proposito Benjamin: “Se vien meno la consapevolezza della presenza
latente della violenza in un istituto giuridico, esso decade” (e i
parlamenti europei in effetti avevano perduto coscienza delle forze
rivoluzionarie alle quali dovevano la loro esistenza).

Si
pensi alla Costituzione italiana: l’attuale ondata revisionistica
vorrebbe obliterare la memoria della guerra civile che fu la levatrice
di quella costituzione. Inconsapevolmente, i politicanti oggi al
governo preparano il terreno ad uno smantellamento della Costituzione
proprio impegnandosi a cancellare la coscienza storica delle forze
rivoluzionarie da cui quella Costituzione è scaturita.

Dunque escludiamo il parlamentarismo dalla trattazione di mezzi non violenti di intesa politica.

§ 12 – Riproponiamo a questo punto la domanda: “È possibile in generale
il regolamento non violento dei conflitti? (Ist überhaupt gewaltlose
Beilegung von Konflikten möglich?)”. Certo, è la cultura del cuore che
fornisce agli uomini mezzi puri, non violenti, per accordarsi.

Benjamin indica tre figure esemplari di mezzi puri non violenti:

la conversazione (quindi la lingua in generale);
lo sciopero generale proletario delineato da Sorel;
l’attività dei diplomatici.
Come intendere questi mezzi puri? Prima indicazione: non sono mai mezzi
di soluzioni immediate, ma sempre di soluzioni mediate (che passano
attraverso l’intermediario delle cose, auf dem Weg über die Sachen).
Dunque il loro ambito è la tecnica in senso ampio, in special modo la
Unterredung (conversazione) (la cui caratteristica notevole sarebbe la
Straflosigkeit der Lüge). Esiste quindi una sfera totalmente
inaccessibile alla violenza: die eigentliche Sphäre der
“Verständigung”, die Sprache.

La notazione di Benjamin ci
spiazza per la sua apparente banalità o ingenuità, quasi fosse
un’osservazione da “anima bella”. E invece si tratta di una notazione
tutt’altro che triviale. Provocatoriamente potremmo interpretarla così:
la redenzione dalla violenza destinale del diritto è già qui, è già da
sempre disponibile, basterebbe solo un po’ di attenzione per rendersene
conto.

Da notare infine che il cenno alle cose può venire
letto come un’anticipazione della genealogia dei conflitti proposta da
René Girard, nella quale tutto ha origine dalla convergenza mimetica di
due o più desideri su un medesimo oggetto. Potremmo dire: là dove è
l’origine del conflitto, è dato reperire anche “ciò che salva”, ovvero
una possibile via d’uscita non sacrificale dal conflitto e dalla
propagazione contagiosa della violenza. “In der sachlichsten Beziehung
menschlicher Konflikte auf Güter eröffnet sich das Gebiet der reinen
Mittel (Nel riferimento più concreto dei conflitti umani a beni
oggettivi si dischiude la sfera dei mezzi puri)”.

§ 13 –
Anche nel contesto delle lotte di classe lo sciopero può valere come un
mezzo puro, se inteso nel senso dello sciopero generale proletario (che
Sorel contrappone allo sciopero generale politico). Si noti che
Benjamin si riferisce all’intuizione di Sorel come ad una “concezione
profonda, morale (sittlichen) e schiettamente rivoluzionaria”. Si
presti attenzione alle citazioni scelte da Benjamin, in particolare
quella in cui leggiamo: “la rivoluzione [con lo sciopero generale]
appare come una pura e semplice rivolta, e non c’è più posto per i
sociologi, per gli amatori di riforme sociali, o per gli intellettuali
che hanno scelto la professione di pensare per il proletariato”.

Qualcuno, leggendo queste parole di Sorel fuori del contesto del saggio
di Benjamin, potrebbe vedere agitarsi in esse lo spettro
dell’anarchismo infantile, se non fosse che è lo stesso Benjamin a
citarle manifestando inequivocabilmente non solo di condividerle, ma di
assegnare ad esse un’importanza decisiva per disporsi a pensare quella
“politica dei mezzi puri” a cui aveva accennato poco sopra.

Va meditato attentamente inoltre un altro passo di questo capoverso
della Critica della violenza: “Anche se si potrebbe dire a ragione che
l’economia attuale nel suo complesso somiglia assai meno a una macchina
che si ferma se il fuochista l’abbandona che ad una belva che si
scatena appena il domatore le ha girato le spalle, resta che si può
giudicare, della violenza di un’azione, altrettanto poco dai suoi
effetti che dai suoi fini, ma solo dalla legge dei suoi mezzi”.

Pare diffusa la tendenza a voler quasi espungere dal pensiero di
Benjamin questa tendenza soreliana (lo stesso Derrida è piuttosto
ambiguo in proposito), come se si trattasse di una infatuazione
giovanile poco consona alla profondità e all’originalità di cui
Benjamin dà prova in questo ed altri saggi giovanili. Contro gli spesso
maldestri tentativi di allontanare Benjamin da Sorel e quindi da
istanze genuinamente anarchiche, basterebbe citare un passaggio delle
tesi Sul concetto di storia: la socialdemocrazia, si legge nella XII
tesi, “nel corso di tre decenni è riuscita a cancellare quasi del tutto
il nome di un Blanqui, il cui suono squillante aveva scosso il secolo
precedente. Essa si compiacque di assegnare alla classe operaia il
ruolo di redentrice delle generazioni future. E recise così il nerbo
della sua forza migliore. La classe disapprese, a questa scuola, tanto
l’odio quanto la volontà di sacrificio. Entrambi infatti si alimentano
all’immagine degli antenati asserviti, non all’ideale dei discendenti
liberati”.

§ 14 – Attenzione: nelle prime righe di questo
capoverso troviamo alcune indicazioni importanti per precisare la
posizione di Benjamin (in particolare il suo intento etico e politico):

– il compito più urgente è approdare ad un “riscatto dalla
schiavitù di tutte le passate condizioni storiche di vita”. Ma il testo
originale dice qualcosa di diverso e di ancora più radicale: “Erlösung
aus dem Bannkreis aller bisherigen weltgeschichtlichen Daseinslagen”;
qui si parla non semplicemente di riscatto, ma di vera e propria
redenzione. Redenzione da che cosa? Dal Bannkreis, ossia letteralmente
dal “circolo del bando” (cfr. la tematizzazione del bando sovrano in
Homo sacer di Agamben). Il termine tedesco Bann significa ad un tempo
bando, esilio, scomunica e incantesimo, potere magico. La parola
Bannkreis presenta una interessante duplicità di significato
giuridico-religiosa: può indicare tanto un distretto giurisdizionale
quanto una malia. Ne consegue che per Benjamin il compito più urgente
consiste nel preparare le condizioni per una “redenzione dal cerchio
magico di tutte le situazioni d’esistenza storiche passate”.

– tale istanza (messianica) rimarrebbe necessariamente inevasa
(unvollziehbar) senza il ricorso alla violenza (“se si esclude
assolutamente e in linea di principio ogni e qualsivoglia violenza”).
La domanda diventa allora: quale violenza può redimerci (liberarci) dal
cerchio magico del potere, dal bando sovrano, dall’ordine giuridico in
quanto destino, dalla violenza mitica (posto che Macht ist das Prinzip
aller mytische Rechtsetzung) per consegnarci finalmente alla nostra
innocenza creaturale, alla nostra beatitudine?

Per cominciare
ritorniamo al dogma fondamentale comune a diritto naturale e diritto
positivo (fini giusti possono venire conseguiti attraverso mezzi
legittimi, mezzi legittimi possono venire applicati a fini giusti).
Benjamin riprende qui l’obiezione decisiva nei confronti della
presupposizione dogmatica della logica fini-mezzi (argomento che aveva
già accennato nel § 3): che ne è del dogma in questione se ogni tipo di
violenza destinale (cioè che pone o che conserva il diritto) si
trovasse in un contrasto inconciliabile con fini giusti? E se fosse
inoltre possibile individuare “una violenza di altro genere” (eine
Gewalt anderer Art) che non fosse semplicemente mezzo (né legittimo né
illegittimo) rispetto ai fini giusti, ma si trovasse con essi in
tutt’altro rapporto? Una violenza siffatta sarebbe, analogamente alla
collera nel caso dell’esperienza quotidiana dell’uomo, non già mezzo ma
manifestazione. Le più significative manifestazioni di questa violenza
si trovano nel mito.

Una violenza sciolta dalla
presupposizione reciproca tra mezzi e fini sarebbe fine a se stessa
(come la collera): non più mezzo in vista di un fine, ma semplicemente
manifestazione (nicht Mittel, sondern Manifestation).

§ 15 – La violenza mitica nella sua forma originaria è manifestazione degli dei.

Valga come esempio la saga di Niobe. Come interpretare la violenza
terribile di Apollo e Artemide (i quali puniscono Niobe, figlia di
Tantalo, sorella di Pelope, sposa di Anfione, e madre di sette figli e
sette figlie, per essersi proclamata superiore a Latona, madre solo di
due figli, Apollo e Artemide appunto)? Non si tratta solo di una Strafe
(punizione): “la loro violenza istituisce piuttosto un diritto che non
punisca per l’infrazione di un diritto esistente (ihre Gewalt richtet
viel mehr ein Recht auf, als für Übertretung eines bestehenden zu
strafen)” (infatti Niobe non ha violato il diritto, ma con la sua
tracotanza ha sfidato il destino).

Come interpretare la
violenza mitica? Azzardiamo una prima ipotesi: la violenza mitica è
evento originario del diritto, evento che in qualche modo precede (e
forse istituisce) la stessa distinzione tra violenza che pone e
violenza che conserva il diritto. Se la violenza mitica è evento del
diritto, la violenza divina invece è redenzione dal bando sovrano, è
violenza che depone il diritto. Da un lato con la nozione di violenza
mitica Benjamin disseppellisce l’origine nascosta della dialettica
(umana troppo umana) tra violenza che pone e violenza che conserva il
diritto; dall’altro con la nozione di violenza divina egli ci invita a
guardare al di là del diritto. Violenza mitica e violenza divina:
ovvero l’al di qua (preistorico) e l’al di là (post-storico)
dell’ordine destinale del diritto.

La violenza mitica è
essenzialmente Rechtsetzung (creazione di diritto), ma la Rechtsetzung
non è altro che Machtsetzung (creazione di potere), cioè ein Akt von
unmittelbarer Manifestation von Gewalt (un atto di immediata
manifestazione di violenza).

Le righe conclusive di questo
capoverso offrono la migliore e più nitida ricapitolazione del frutto
della critica dell’ordine giuridico (e del nesso tra diritto e
violenza) elaborata da Benjamin.

§ 16 – La fissazione dei
confini (Grenzsetzung). Chiariamo meglio in che cosa consiste la
mytische Rechtsetzung in quanto Machtsetzung facendo riferimento niente
meno che al diritto pubblico, e in particolare allo Urphänomen
rechtsetzender Gewalt (“archetipo della violenza creatrice di
diritto”), cioè la Grenzsetzung (fissazione di confini). Tale fenomeno
mostra come la violenza (bellica) che pone il diritto abbia la funzione
essenziale di garantire il potere (Macht). Che cosa accade infatti con
la fissazione dei confini? Si noti: l’avversario non viene
semplicemente annientato, ma gli vengono riconosciuti dei diritti, e
precisamente uguali diritti! Potenza vincitrice e potenza sconfitta si
impegnano (con un contratto) a non superare (varcare) la medesima
linea.

Che cosa c’è di demonico in tutto ciò? Forse si tratta
di questo: la Grenzsetzung mostra come il diritto non sia altro che
sanzione di un rapporto di forze determinato storicamente. La sanzione
giuridica vincola ugualmente vincitore e vinto (proprio come la legge
vieta ugualmente a poveri e a ricchi di pernottare sotto i ponti, come
notava Anatole France), e in questo modo garantisce il potere/Macht.
Coglie quindi una verità metafisica Sorel quando afferma che agli inizi
ogni Recht sarebbe stato “Vor”recht dei re o dei grandi. “E questo esso
resterà, aggiunge Benjamin, mutatis mutandis, finché sussiste”. Notiamo
per inciso che su questa “verità metafisica” si concentra Agamben nella
prima parte di Homo sacer: in origine è la decisione sovrana.

La Grenzsetzung ci permette di fare luce su un altro aspetto: quello
che riguarda la questione delle leggi non scritte (e la lotta per il
diritto scritto), giacché almeno nelle epoche primitive la definizione
dei confini si basava su leggi non scritte.

L’uomo può superarli [überschreiten, cioè lett. trasgredire] senza saperlo e incorrere così nel castigo.

Se la trasgressione di leggi scritte viene sanzionata con la Strafe
(pena), la trasgressione di leggi non scritte rinvia alla Sühne
(castigo nel senso di espiazione, riconciliazione, riparazione) (qui
religione e diritto entrano in una zona di indiscernibilità). La Sühne
colpisce l’ignaro trasgressore come destino. La citazione di Cohen ci
aiuta a capire meglio: in effetti la trasgressione è effetto
dell’ordine giuridico. Qui la violenza immanente al diritto (e il
legame tra diritto e sfera del destino) si mostra in tutta la sua
crudeltà.

Ritroviamo questa violenza mitica nel principio moderno secondo il quale “l’ignoranza della legge non protegge dalla pena”.

§ 17 – Le prime righe di questo capoverso (di cui azzardo una traduzione) esigono di venire lette con attenzione:

Weit entfernt, eine reinere Sphäre zu eröffnen, zeigt die mytische
Manifestation der unmittelbaren Gewalt sich im tiefsten mit aller
Rechtsgewalt identisch und macht die Ahnung von deren Problematik zur
Gewißheit von der Verderblichkeit ihrer geschichtlichen Funktion, deren
Vernichtung damit zur Aufgabe wird.

Lungi dal dischiudere una
sfera più pura, la manifestazione mitica della violenza immediata si
mostra del tutto identica al potere giuridico, e ci porta dal
presentimento della sua problematicità alla certezza della
corruttibilità della sua funzione storica, che abbiamo quindi il
compito di annientare.

In gioco dunque è niente meno che
l’annientamento della funzione storica della Rechtsgewalt, del potere
giuridico in quanto basato sulla violenza mitica.

L’esigenza
benjaminiana di uscire dal cerchio magico della violenza mitica
andrebbe ripensata alla luce dell’istanza avanzata da Nancy (sulla
scorta di Bataille) di interruzione del mito (cfr. La communauté
desœvrée). “Peut-être faut-il encore démonter cette logique du mythe …
pour tenter de penser ce que nous pourrions avoir à faire, non avec le
mythe, mais avec cette fin du mythe à laquelle tout paraît mener (p.
118). Si tratta di pensare l’assenza di mito, secondo un’espressione di
Bataille. Nancy preferisce parlare di interruzione del mito (per
connotare l’assenza di mito non come semplice sparizione, ma come
passaggio al limite del mito dove il mito stesso si trova sospeso: del
resto l’assenza di mito non è forse un mito?).

Il compito
della distruzione della funzione storica del potere giuridico ci
costringe a riproporre la questione di una violenza pura immediata, che
possa arrestare il corso della mitica (welche der mytischen Einhalt zu
gebieten vermöchte) (Einhalt gebieten significa contenere, arrestare,
fermare).

Benjamin contrappone alla violenza mitica una enigmatica violenza divina.

La violenza divina:

– annienta il diritto

– annienta i confini

– assolve dal castigo (entsühnend)

– è fulminea

– è letale senza sangue

Esempio di violenza divina è il giudizio di Dio sulla tribù di Qorah
(Numeri 16): Core, Datan e Abiram, con 250 seguaci, si ribellano contro
Mosé e Aronne, e perciò vengono inghiottiti dalla terra.

Benjamin poi enuncia il progetto di ricerca che verrà ripreso da Agamben quasi settant’anni dopo:

La dissoluzione della violenza giuridica (Auflösung der Rechtsgewalt)
risale quindi, come non si può svolgere qui più diffusamente, alla
colpevolezza (Verschuldung, indebitamento) della nuda vita naturale,
che affida il vivente, innocente e infelice, al castigo, che “espia” la
sua colpa (Verschuldung) – e purga (entsühnt) anche il colpevole, non
però da una colpa, ma dal diritto. Perché con la nuda vita cessa il
dominio del diritto sul vivente.

La Verschuldung che affida
il vivente al castigo rimanda evidentemente alla violenza mitica
trattata nei due capoversi precedenti.

§ 18 – Attenzione: la violenza divina si trova anche nella vita odierna sotto forma di violenza educativa.

In questo capoverso Benjamin mette in discussione il dogma della
sacertà della vita: perché? Perché il giudaismo insegna che in casi
straordinari (ad es. nella legittima difesa) si può prescindere dal
comandamento “non uccidere”. Quale significato dare a queste parole? Mi
pare che Benjamin si spinga qui fino ad ammettere (come forma di
violenza divina) l’uccisione di quei privilegiati che, volendo
conservare la violenza giuridica per tutelare il loro potere, rendono
impossibile una vita beata. Benjamin accenna espressamente alla
“uccisione rivoluzionaria degli oppressori” (revolutionäre Tötung der
Unterdrücker).

§ 19 – Pensare una violenza divina che
finalmente deponga il diritto e annienti il potere giuridico significa
pensare una giustizia al di là del diritto. Derrida suggerisce: “La
déconstruction est la justice” (Force de loi, p. 35). Ritornando a
Benjamin possiamo osservare a nostra volta: la giustizia è anzitutto
distruzione, e precisamente la distruzione del diritto.

Eredità problematica di Zur Kritik der Gewalt
La violenza è la “verità” del diritto: il diritto non è solo un
dispositivo che funziona in base alla logica dell’eccezione (cfr.
Agamben), ma è al tempo stesso la propria ideologia, la propria
autogiustificazione. La filosofia del diritto moderna legittima
l’imposizione statale della legge attraverso una grandiosa
mistificazione (e falsificazione di carattere mitico): quella che
troviamo ad esempio in Hobbes, e che è stata contestata radicalmente
(in nome di una prospettiva ben diversa) dalla reazione nobiliare tra
fine ‘600 e inizio ‘700: si veda il corso di Foucault “Il faut défendre
la société”.

Si tratta di liberare l’agire politico affermando una politica al di là del diritto

L’ordine giuridico si autosospende nello stato di eccezione: se
vogliamo liberare la politica dal diritto (cioè liberare la prassi come
“mezzo puro” dalla presupposizione dogmatica del rapporto fine/mezzo)
si tratta di rendere effettivo (wirklich) lo stato di eccezione. I
caratteri dello stato di eccezione (come esclusione inclusiva, cattura
del fuori, come forma pura e originaria della vigenza della legge, a
partire dalla quale soltanto essa può definire l’ambito normale della
sua applicazione) sono i seguenti (cfr. Agamben, Il tempo che resta):
assoluta indeterminazione del dentro e del fuori: non vi è un fuori
della legge; è impossibile distinguere tra osservanza e trasgressione
della legge (durante il coprifuoco anche passeggiare per strada è
trasgressione); la legge è assolutamente informulabile (perché
“vuota”).

Come rendere effettivo lo stato di eccezione?
Operativamente (praticamente) è urgente rifiutarsi di rivendicare
diritti e provocare lo stato di diritto a gettare la maschera e a
mostrarsi per quello che effettivamente è: monopolio della violenza
legittima (cioè rechtserhaltende Gewalt). Lo stato di diritto si
smaschera nello stato di polizia.

Va inoltre messo in luce il
nesso tra diritto e temporalità lineare, ovvero fiducia nella storia
come progresso. I socialdemocratici (i progressisti) da sempre perorano
la causa dei diritti (dei lavoratori, dei precari, dei citoyens).
Benjamin (Sul concetto di storia) critica la “visione socialdemocratica
della storia” in nome di una interruzione del tempo storico che trova
nella rivolta, nella insurrezione la propria effettuazione pratica.
“Non c’è nulla che abbia corrotto i lavoratori tedeschi quanto la
persuasione di nuotare con la corrente. Per loro lo sviluppo tecnico
era il favore della corrente con cui pensavano di nuotare” (XI tesi).

È interessante notare la profonda affinità tra questa critica di
Benjamin e la critica al marxismo proposta da una Simone Weil appena
venticinquenne nella prima parte delle sue Riflessioni sulle cause
della libertà e dell’oppressione sociale. La Weil mette in questione
quella “religione delle forze produttive” che rappresenta una sorta di
retaggio idealistico hegeliano dal quale Marx non seppe liberarsi. E
scrive: “Croire que notre volonté converge avec une volonté mystérieuse
qui serait à l’œuvre dans le monde et nous aiderait à vaincre, c’est
penser religieusement, c’est croire à la Providence”.

Notiamo
inoltre che in un recente pamphlet intitolato Barbari è formulata
contro Toni Negri e Micheal Hardt una critica analoga a quelle che sia
la Weil (nel 1934), sia Benjamin (nel 1940) avevano rivolto alla
socialdemocrazia: “Se da più parti è stato fatto notare come Marx,
nonostante le sue critiche, non potesse nascondere una certa
ammirazione per l’operato della borghesia, da parte loro i due emissari
[Hardt e Negri] mostrano tutto il loro sfrenato entusiasmo per il mondo
nato dal trionfo planetario del dominio del capitale, che spacciano per
il trionfo planetario della forza dei sudditi”.

La polizia
(questa compenetrazione indecidibile tra violenza che pone e violenza
che conserva il diritto) si configura come la verità della politica
(della politica basata sulla logica del potere sovrano), sia
all’interno degli stati nazionali, sia nei rapporti internazionali. In
un’intervista recente (apparsa sul primo numero di Antasofia) Agamben
ha affermato: “Se la politica si riduce integralmente a polizia,
sicurezza e terrore, stato e terrorismo finiscono col costituire un
unico sistema letale, nel quale ciascuno giustifica e legittima le
azioni dell’altro e nel quale non è nemmeno più possibile distinguere
chiaramente i due avversari. E questo è precisamente lo stato di
eccezione in cui viviamo, che è anche e nella stessa misura una guerra
civile mondiale”. La “altalena dialettica tra le forme della violenza
che pone e che conserva il diritto” (di cui Benjamin parla nell’ultimo
capoverso del suo saggio) si configura oggi, in un contesto dove le
intuizioni di Benjamin hanno trovato triste inveramento, come
oscillazione tra terrorismo di stato (sotto la specie giuridica, o
meglio antigiuridica, dello stato di polizia e delle operazioni di
polizia internazionale), inteso come violenza che conserva il diritto
sospendendolo, e terrorismo fondamentalista, inteso come violenza che
pretende di porre il diritto. Siamo presi in una morsa che rischia di
stritolarci, giacché in questa morsa vengono a ridursi ulteriormente i
già esigui margini di una azione politica che, se non si rassegna a
canali più o meno istituzionalizzati (partiti e sindacati) o
istituzionalizzabili (social forum, associazioni varie, disobbedienti
ecc.), viene immancabilmente bollata come “violenta” e quindi
“terrorista”.

Va posta quindi con urgenza la questione della
riappropriazione della violenza. In sede teorica Derrida afferma che la
déconstruction est la justice. Affermazione che ci piace rovesciare: la
giustizia è decostruzione, cioè distruzione. Che significato diamo alla
parola distruzione? Vogliamo riempirla del significato messianico della
violenza divina? Solo così riusciremmo a sottrarci alle pastoie della
morale provvisoria cartesiana (intesa come sanzione della rinuncia da
parte della teoria a immergersi nella prassi). Penso alla prima e alla
terza massima: “Obbedire alle leggi e ai costumi del mio paese,
osservando costantemente la religione nella quale Dio mi ha fatto la
grazia di essere educato sin dall’infanzia, e regolandomi in tutto il
resto secondo le opinioni più moderate e più lontane dagli eccessi”.
Mentre la terza dice di “cercare sempre di vincere piuttosto me stesso
che la fortuna, e di cambiare i miei desideri piuttosto che l’ordine
del mondo” (Discorso sul metodo, III parte).

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