(rielaborazione di una relazione seminariale; la sigla SE seguita dal
numero di pagina rinvia a G. Agamben, Stato di eccezione, Bollati
Boringhieri, Torino, 2003)
Situazione
L’antica dimora
del diritto è fragile e, nella sua tensione verso il mantenimento del
proprio ordine, sempre già in atto di rovinare e corrompersi” (SE 110).
“Che cos’è una prassi umana integralmente consegnata a un
vuoto giuridico? È come se, di fronte all’aprirsi di uno spazio
integralmente anomico per l’azione umana, tanto gli antichi che i
moderni retrocedessero intimoriti” (SE 64).
Leggere insieme
Stato di eccezione significa anzitutto riprendere il filo delle
considerazioni svolte intorno a Zur Kritik der Gewalt di W. Benjamin.
L’analisi del testo di Benjamin ci ha permesso di adottare un approccio
non ingenuo e non astratto (non mitico, si potrebbe dire) alla
questione della violenza e di cominciare a esplorare la problematicità
di tale nozione. Leggendo Benjamin, sia ben chiaro, non siamo venuti a
capo di nessuna delle domande che ci siamo posti: come notava Adorno,
quella di Benjamin è una “disciplina ascetica” in cui “le decisive
risposte teoriche ai problemi vengono ovunque lasciate in bianco e i
problemi stessi diventano visibili solo agli iniziati” (lettera del 10
novembre 1938 cit. in G. Agamben, Infanzia e storia, p. 116). In
compenso, grazie a questa sorta di percorso iniziatico, possiamo forse
dire di avere maturato un feineres Gefühl, una “sensibilità più fine”
(più sviluppata recita la traduzione di Solmi) rispetto al tema della
violenza. Una sensibilità che ci consente di percepire quel qualcosa di
guasto (marcio) nel diritto che rinvia sotterraneamente alla sfera del
destino.
Ora con Stato di eccezione sarà finalmente possibile
chiarire e precisare non solo il significato di alcuni concetti (in
particolare quello di mezzo puro e di violenza divina), ma più in
generale il senso della strategia messa in atto da Benjamin (e ripresa
da Agamben).
Tesi preliminare (1): Stato di eccezione va ri-letto a partire dal capitolo 4 intitolato “Gigantomachia intorno a un vuoto”.
Argomentazione. Questo nuovo libello si inserisce in una ricerca più
ampia, come segnalato dal sottotitolo sul frontespizio: Homo sacer, II,
i. Della ricerca intitolata Homo sacer abbiamo già a disposizione la
prima parte (apparsa nel 1995 e dedicata alla analisi della logica
della sovranità, alla genealogia del dogma della sacertà della vita e
alla individuazione del campo come paradigma biopolitico del moderno) e
la terza parte (apparsa nel 1998 col titolo Quel che resta di
Auschwitz, dedicata alle aporie implicite nella figura etica esemplare
del testimone).
Possiamo affermare che questa ricerca nasce
dalla assunzione della eredità di Benjamin e in particolare
dall’approfondimento dei problemi sollevati in Zur Kritik der Gewalt.
Per capirci, dietro la biopolitica troviamo la logica del bando
sovrano, dietro la questione della sovranità (della decisione sovrana)
troviamo Schmitt (vedi Homo sacer), ma dietro Schmitt troviamo
Benjamin. Ricostruire il rapporto tra Schmitt e Benjamin non è quindi
un esercizio filologico ed ermeneutico fine a se stesso, ma una tappa
decisiva nel tortuoso cammino che ci dovrebbe portare a ripensare
integralmente il politico attraverso una paziente genealogia
dell’ordine giuridico e del dispositivo paradossale dell’eccezione.
La contesa tra Schmitt e Benjamin muove da una comune e lucida
consapevolezza: “L’antica dimora del diritto è fragile e, nella sua
tensione verso il mantenimento del proprio ordine, sempre già in atto
di rovinare e corrompersi” (SE 110).
Ebbene, se Schmitt mira
a salvare l’ordine giuridico dalla rovina che lo minaccia (dal suo
interno), Benjamin invece vorrebbe abbandonare il diritto alla propria
rovina, o addirittura contribuire ad accelerarne la decadenza secondo
un’istanza messianica che in qualche modo riprende la strategia paolina
del superamento della legge attraverso la pistis (cfr. il commento di
Agamben alla Lettera ai Romani).
La teoria schmittiana della
sovranità va letta cioè come risposta alla critica benjaminiana della
violenza. Mentre Benjamin, sulla scorta di Sorel, mirava ad “assicurare
l’esistenza di una violenza pura e anomica”, da lui intesa come
“violenza rivoluzionaria”, Schmitt intende “ricondurre una tale
violenza in un contesto giuridico” (SE 70), attraverso il dispositivo
dello stato di eccezione (dove la violenza è inclusa nel diritto
attraverso la sua stessa esclusione).
L’intento di Schmitt è
quello di catturare la violenza dentro le maglie del nomos, mentre
l’intento di Benjamin è di assicurare ad essa, come violenza pura,
un’esistenza al di fuori del diritto. Ma come va intesa la violenza
pura?
Tesi: La violenza pura “si attesta soltanto come
esposizione e deposizione del rapporto tra violenza e diritto” (81),
essa “espone e recide il nesso fra diritto e violenza e può così
apparire alla fine non come violenza che governa o esegue, ma come
violenza che puramente agisce e manifesta”.
PARTE PRIMA: dentro il testo.
Agire politicamente. Il nucleo problematico del testo consiste nella
domanda che Agamben formula a partire dalla sua lettura di Zur Kritik
der Gewalt di Benjamin: “che cosa significa agire politicamente?” (SE
10).
Tesi (2): l’azione politica dà luogo ad una prassi che
non è riconducibile né all’esecuzione né alla trasgressione di norme; e
nemmeno si configura come istituzione di norme. Non è né esecutiva, né
legislativa né trasgressiva. Ma in che cosa consiste allora? Nella
violenza rivoluzionaria come mezzo puro. Il punto nevralgico qui è
capire in che cosa consista un “mezzo puro”: Agamben ci aiuta a
chiarire la questione alle pagine 79-83 (proprio qui troviamo la
“chiave di lettura”, non esplicitata direttamente, di tutto il testo).
La politica ha subito una durevole eclisse perché si è contaminata col diritto (SE 112).
Argomentazione. In che senso e perché l’azione politica non è né
esecutiva, né legislativa, né trasgressiva? Per rispondere articoliamo
meglio e “traduciamo” la tesi di Agamben: la prassi politica dunque non
rientra in nessuna delle categorie all’interno delle quali siamo soliti
pensarla. Agamben ci invita a prendere congedo sia da Socrate
(esecuzione), sia da Antigone (trasgressione), sia da Mosè/Solone
(legislazione).
La prassi politica non è riducibile:
alla esecuzione della legge, delle norme giuridiche vigenti:
ottemperare ai propri doveri e avvalersi dei propri diritti non
significa agire politicamente, ma ribadire il proprio assoggettamento
all’ordine costituito, cioè alla violenza che conserva il diritto
(Socrate, potremmo dire, si limita a rispettare le leggi senza metterne
in questione la provenienza e il nesso con la violenza, come invece fa
brillantemente Trasimaco);
alla
istituzione/formulazione/elaborazione della legge: noi, figli della
tradizione politica occidentale, figli di Mosé, di Solone, di Platone,
di Machiavelli ecc. siamo abituati a pensare la politica come arte del
governo, ovvero come instaurazione di un potere costituito che impone e
mantiene un determinato ordine. E quindi per noi la politica trova la
propria espressione suprema (almeno in linea di principio, stante lo
spettacolo desolante che offre il parlamento italiano) nell’attività e
nei lavori legislativi del potere costituente. Basti pensare alla
rivoluzione francese o all’Assemblea costituente che ha posto le
fondamenta della Repubblica italiana. Ebbene, Agamben ci invita a
pensare l’agire politico anche al di là della sfera del potere
costituente, ossia della violenza che pone il diritto. Dobbiamo
prendere congedo anche dall’Orestea.
Ma se agire
politicamente non significa né limitarsi a osservare le leggi vigenti,
né impegnarsi attivamente (non importa se in modo pacifico o violento)
per elaborare nuove leggi, allora potremmo pensare che l’azione
politica consista essenzialmente nella trasgressione delle leggi
vigenti, nell’esplorazione attiva della illegalità. Ma non è così. Non
ci possiamo accontentare nemmeno di una prassi volta alla trasgressione
sistematica dell’ordine giuridica. Nemmeno Antigone ci può aiutare:
anche perché la stessa Antigone trasgredisce l’editto di Creonte in
nome di “leggi non scritte”. In effetti l’evidente limite della
trasgressione consiste nel presupporre l’ordine giuridico vigente: il
trasgressore conferma la norma violandola.
Perché la prassi
politica non è riducibile a nessuna delle tre forme sotto le quali
siamo soliti pensarla? Per una ragione che giorno dopo giorno
acquisisce maggiore cogenza: perché lo stato di eccezione sta
diventando la regola, e nello stato di eccezione viene a cadere la
possibilità di discriminare tra ciò che è legale e ciò che non lo è.
Resta aperta la possibilità che questa indecidibilità catastrofica
(alla lunga esiziale per l’ordine giuridico) venga superata (tolta,
aufgehoben) dall’imporsi di un potere costituente, di una violenza che
pone il diritto, di una dittatura sovrana.
Questo era ad
esempio l’auspicio del giurista Carl Schmitt durante il Terzo Reich, e
questo è oggi la speranza di quella che l’esimio professor Negri chiama
“moltitudine”. Tutti sappiamo che il progetto più ambizioso della parte
maggioritaria (e maggiormente esposta dal punto di vista mediatico) del
cosiddetto movimento antiglobalizzazione consiste nel trasformarsi in
soggetto politico (benché non rigidamente strutturato, fluido, plurale
ecc. ecc.) che possa esercitare un effettivo potere costituente. Ma è
proprio questo progetto che va messo radicalmente in questione!
Ma che cosa resta di una prassi politica una volta scartate
l’elaborazione, l’esecuzione e la trasgressione della legge? Direi che
si annuncia una prassi finalmente libera, sciolta dal bando sovrano:
una prassi intesa come “puro mezzo”, una prassi sciolta dalla
subordinazione strumentale ad un fine che coincide con il potere, con
la perpetuazione della violenza. La posta in gioco è una prassi che non
sia finalizzata né alla instaurazione del potere, né
all’assoggettamento al potere, né ad una contrapposizione al potere.
Una prassi di desoggettivazione con cui il vivente sperimenta la
propria redenzione profana dal dispositivo sacrificale (poliziesco) su
cui fa perno l’ordine giuridico e quindi il potere. Avremo di fronte
finalmente “un’azione come mezzo puro che mostra soltanto se stessa
senza relazione a uno scopo” (SE 113).
In breve, la strategia di Agamben è genuinamente paolina.
Politica e Metafisica (1). La discussione e la decostruzione del
concetto di “stato di eccezione” contribuiscono a esibire ancora una
volta il nesso nascosto (ed enigmatico) tra la politica e la metafisica
occidentali; domandiamoci allora: in che senso Agamben ci mostra la
provenienza/destinazione politica della metafisica e al tempo stesso la
provenienza/destinazione metafisica della politica? È presto detto:
Tesi (3): tra metafisica e politica occidentali vige una relazione di
presupposizione reciproca (da un punto di vista “dinamico”) e di
isomorfismo strutturale (da un punto di vista statico). Nel senso che
la struttura originaria della metafisica è costituita da un dispositivo
mediante il quale il lógos cattura il vivente (l’animale); a sua volta
la struttura originaria della politica consiste in un dispositivo di
cattura mediante il quale il nómos include all’interno del proprio
ordine il vivente.
Non si tratta di vagheggiare una
dimensione pre-logica e pre-giuridica dell’esperienza, ma di abitare il
compimento (la consumazione) della metafisica e della politica in base
ad un’esigenza messianica.
Politica e Metafisica (2). Per
mettere meglio in luce l’originalità dell’approccio di Agamben (e per
tentare di acquisire familiarità con il suo fecondo metodo di ricerca)
potremmo chiederci: Agamben interpreta giuridicamente la
logica/metafisica, oppure interpreta ontologicamente il diritto?
Elementi per una risposta:
Tesi (4): benché non dichiarata,
vi è una “ontologia modale” implicita, sottesa alla decostruzione dello
stato di eccezione. Si tratta di una ontologia della potenza che revoca
in questione (sospende) la pretesa totalitaria dell’atto. Ciò ha
implicazioni etiche e politiche di enorme portata. Quali?
PARTE SECONDA: ai margini del testo e al di là.
Pertinenza dell’ebraismo e eredità paolina. Agamben, proseguendo un
gesto caratteristico di Benjamin, cerca nell’ebraismo in certo modo un
antidoto alle aporie della metafisica/politica greca. In che senso? Che
lezione possiamo trarre dall’ebraismo? Elementi per una risposta: si
tratta di ripensare i concetti-limite di esodo, di Messia e di
redenzione.
En tout cas, je crois que le messianique est
toujours profane, jamais religieux. C’est même la crise ultime du
religieux, le rabattement du religieux dans le profane.
(G.A. dall’intervista a Vacarme)
Tesi (5): assumere il punto di vista di Agamben significa sperimentare
una sorta di esodo dalla tradizione filosofica occidentale (in
particolare moderna) che ci porta verso una “nuova terra etica”: la
terra, ancora in gran parte inesplorata, di un messianismo profano che
è fuori dall’essere e fuori dalla legge, una sorta di shabbat che
coincide con la beatitudine.
L’evidente assenza del Capitale
(ovvero: quel che Agamben tace e perché). In tutti i testi della
costellazione Homo sacer finora pubblicati risuona qualcosa come un
silenzio molto eloquente di Agamben a proposito dell’economia, più
precisamente a proposito del problema (certo non secondario) dei
rapporti tra ordine giuridico e ordine. Come interpretare questo
silenzio? Di che cosa è indice questo silenzio?
Tesi (6):
l’economicismo che abbiamo ereditato dal marxismo è il nemico
principale del materialismo storico, come hanno insegnato, in modi
diversi, Simone Weil e Benjamin. L’essenza dell’economia (pseudonimo
che serve alla modernità per spacciarsi come eterna evidenza) non è
alcunché di economico, ma consiste nella negazione della metafisica. La
negazione realizzata della metafisica non è altro in fin dei conti che
la realizzazione di una metafisica della negazione.
Dunque
sarebbe miope affermare che Agamben trascura l’economico esaltando
astrattamente il giuridico. Agamben ha fatto propria la critica rivolta
da Simone Weil all’economicismo marxiano (e perciò non si lascia
incantare dall’economico). Non solo: si veda in Infanzia e storia il
commento di Agamben allo scambio epistolare tra Adorno e Benjamin a
proposito del rapporto tra struttura e sovrastruttura (il saggio si
intitola Il principe e il ranocchio, pp. 113-131).
Dallo
stato di diritto allo stato di polizia. Tra le intuizioni di Benjamin
che meriterebbero di venire approfondite rientra senza alcun dubbio
anche quella relativa alla polizia, alla quale purtroppo Agamben non
riserva particolari attenzioni.
Tesi (7): il superamento
dell’oscillazione tra violenza che pone e violenza che conserva il
diritto si realizza nella polizia. La polizia è la potenza demonica che
pretende di gestire la guerra civile mondiale regolandone l’intensità.
“Polizia” è il nome comune di quella forza-di-legge che ha un unico
scopo: riprodurre meccanicamente se stessa chiudendo il vivente nella
rete del controllo.
In un’intervista recente (apparsa sul
primo numero di Antasofia) Agamben ha affermato: “Se la politica si
riduce integralmente a polizia, sicurezza e terrore, stato e terrorismo
finiscono col costituire un unico sistema letale, nel quale ciascuno
giustifica e legittima le azioni dell’altro e nel quale non è nemmeno
più possibile distinguere chiaramente i due avversari. E questo è
precisamente lo stato di eccezione in cui viviamo, che è anche e nella
stessa misura una guerra civile mondiale” (p. 216).
La
“altalena dialettica tra le forme della violenza che pone e che
conserva il diritto” (di cui Benjamin parla nell’ultimo capoverso del
suo saggio) si configura oggi come oscillazione tra terrorismo di stato
(sotto la specie giuridica, o meglio extragiuridica, dello stato di
polizia e delle operazioni di polizia internazionale), inteso come
violenza che conserva il diritto sospendendolo, e terrorismo
fondamentalista, inteso come violenza che pretende di porre il diritto.
Siamo presi in una morsa che rischia di stritolarci, giacché in questa
morsa vengono a ridursi ulteriormente i già esigui margini di una
azione politica che, se non si rassegna a canali più o meno
istituzionalizzati (partiti e sindacati) o istituzionalizzabili (social
forum, associazioni varie, disobbedienti e vie rincretinendo), viene
immancabilmente bollata come “violenta” e quindi “terrorista”.
Quel che ci interessa. Le riflessioni conclusive sono dedicate al
seminario: qual è la pertinenza del testo di Agamben rispetto al nostro
esperimento di ricerca? Che cosa stiamo facendo e soprattutto che cosa
vogliamo fare qui? Dove ci troviamo? In che modo oggi, qui ed ora,
siamo affetti dallo stato di eccezione? Come si abita lo stato di
eccezione? Come lo si può rendere effettivo?
Tesi (8): noi,
qui ed ora, stiamo sperimentando una zona di opacità offensiva che può
dare luogo ad una macchina da guerra anonima, informale e
impercettibile.
“Costituire una zona di opacità dove
circolare e sperimentare liberamente, senza guidarli, i flussi di
informazione dell’Impero, significa produrre delle “singolarità
anonime”, ricreare le condizioni di un’esperienza possibile […] Sì,
l’importante per noi sono queste zone di opacità, l’apertura di cavità,
di intervalli vuoti, di blocchi neri nel reticolato cibernetico del
potere. La guerra irregolare con l’Impero, sulla scala di un luogo, di
una lotta, di una sommossa, comincia fin da ora con la costruzione di
zone opache e offensive. Ognuna di queste zone sarà ad un tempo nucleo
a partire dal quale sperimentare senza essere afferrabili, e nube
propagatrice di panico nell’insieme del sistema imperiale, macchina da
guerra coordinata e sovversione spontanea a tutti i livelli. La
proliferazione di queste zone di opacità offensiva (ZOO),
l’intensificazione delle loro relazioni, provocherà un disequilibrio
irreversibile” (Tiqqun 2, p. 82).
Come possiamo costruire e
praticare/frequentare una zona di opacità offensiva? Come possiamo fare
di questo seminario una zona di opacità offensiva all’interno della
quale delle singolarità anonime interrompano il feedback su cui si
regge il dispositivo cibernetico e affermino l’estraneità dei loro
incontri/clinamen, rispetto alla società dello spettacolo (in
particolare dello spettacolo accademico)?
Conclusione: non
concludiamo, piuttosto rilanciamo l’istanza messianica che ci è stata
affidata da Benjamin (nella XVII tesi sul concetto di storia): “In
realtà non vi è un solo attimo che non rechi con sé la propria chance
rivoluzionaria”.