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DOSSIER L’aperto. l’uomo e l’animale

RECENSIONE: Giorgio Agamben,
L’aperto. L’uomo e l’animale
,

 

In
apertura gioverà esporsi all’incalzare delle domande: si tratta di comprendere
l’enigma della antropogenesi attraverso l’articolazione di una logica
della disgiunzione originaria tra vivente (animale) e parlante (uomo), tra
natura e storia. Che cos’è ciò che siamo soliti chiamare uomo? In che
cosa consiste la differenza tra animale ed essere umano? Siamo in grado noi
oggi di identificare tale differenza, di designare senza equivoci il
luogo proprio dell’uomo, la dimensione propria dell’essere umano? E in che modo
la tradizione metafisica ha inteso venire a capo di questo problema? Come
funzionano le “macchine antropologiche” costruite dalla metafisica e dalla
scienza occidentali? Quali indicazioni ed eventuali risposte possiamo trarre
dal pensatore che forse con maggiore radicalità ha distrutto i
pre-giudizi umanistico-antropologici, e cioè Martin Heidegger ?  

Il
tradizionale problema metafisico della differenza fra uomo e animale diventa
per Agamben, secondo un gesto a lui consueto, enigma, o meglio il luogo
di un esperimento de hominis natura. Come già aveva intuito Tommaso,
nell’Eden l’uomo (Adamo) aveva bisogno dell’animale per attingere una cognitio
experimentalis
di se stesso. L’animale è l’altro di cui l’uomo ha bisogno
per produrre se stesso, la propria identità, la propria autocoscienza. Per
citare Buffon, “se non esistessero animali, la natura dell’uomo sarebbe ancora
più incomprensibile”. Ma l’oscura presenza di questo altro non è mera
estraneità. Piuttosto intimità indecidibile, prossimità che non si lascia
rimuovere.

Le
pagine di apertura (Teromorfo), dedicate all’interpretazione di una enigmatica
miniatura biblica ebraica del XIII sec., pongono l’opera sotto il segno
dell’esigenza messianica come esigenza di compimento (attraverso la
comprensione e quindi la revocazione della fondazione): “Nell’ultimo
giorno, i rapporti fra gli animali e gli uomini si comporranno in una nuova
forma e l’uomo stesso si riconcilierà con la sua natura animale” (11). L’uomo
non è alcunché di già dato, ma è il vivente che diventa uomo. La storia
è storia del farsi dell’uomo, del divenire-uomo dell’uomo (hegelianamente
possiamo dire che l’uomo non è una specie biologicamente definita né una
sostanza, bensì “un campo di tensioni dialettiche sempre già tagliato da cesure
che separano in esso ogni volta – almeno virtualmente – l’animalità
“antropofora” e l’umanità che in questa s’incarna”, p. 19).

La
storia si compie nel momento in cui l’uomo comprende e quindi compie il proprio
compito storico, la propria destinazione, il proprio divenire
uomo, il proprio costituirsi in uomo, ossia in animale che ha “tolto”
(reso inoperosa) la propria animalità. Con la fine della storia, come sapeva
Kojève, entriamo allora nel mondo poststorico. Ma quale figura assume l’uomo
dopo la fine della storia? Che cos’è quel resto che sopravvive alla fine
della storia dell’Uomo, intesa come il paziente lavoro dialettico della
negazione? Intorno a questo problema si consumò il contrasto tra Kojève e
Bataille: quel che resta dell’uomo è l’animale (l’uomo restituito alla sua
animalità naturale), pensava Kojève. Quel che resta dell’uomo è la sovranità
oltreumana di una negatività senza impiego, pensava Bataille, senza poter
argomentare in modo convincente l’inspiegabile permanere di una negazione al di
là della negazione (salvo esibire la sua stessa vita, “la ferita aperta che è
la mia vita”). Kojève teorizzerà più tardi la sopravvivenza dell’uomo alla
storia nella forma dello snobismo giapponese, preconizzando non più una sorta
di “americanizzazione del mondo”, bensì una “giapponesizzazione degli
occidentali”. Dunque dobbiamo riformulare la nostra domanda: “che ne è
dell’animalità dell’uomo nella poststoria?” (19), tenendo presente che è
proprio questa “animalità” a venire in primo piano con l’imporsi della
biopolitica moderna.

“Forse il corpo dell’animale
antropoforo (il corpo del servo) è il resto irrisolto che l’idealismo lascia in
eredità al pensiero e le aporie della filosofia nel nostro tempo coincidono con
le aporie di questo corpo irriducibilmente teso e diviso fra animalità e
umanità” (20).

I
primi tre capitoli (dalla titolazione compiutamente metonimica: Teromorfo,
Acefalo, Snob) evocano in successione tre paradigmatiche figure
dell’umano nel mondo poststorico, dell’uomo che sopravvive alla fine della
storia dell’Uomo (la prima è quella messianica, la seconda è quella proposta
dal Collegio di sociologia promosso da Bataille negli anni ‘30, la terza è
quella delineata da Kojève dopo un viaggio in Giappone alla fine degli anni’50)
e introducono il problema che verrà affrontato nel libro: quello dell’incerto
statuto dell’umano nel suo enigmatico disgiungersi dall’animale (l’uomo, diceva
Kojève da buon hegeliano, è “una malattia mortale dell’animale”); quindi quello
della anonima e inafferrabile 
(insalvabile?) animalità che costituisce in certo modo il supporto su
cui si insedia l’essere umano (supporto che il biopotere moderno tenta di
catturare con dispositivi sempre più efficaci ed elastici).

Il
quarto capitolo (Mysterium disiunctionis) traccia, in poche pagine di
eccezionale densità, le coordinate generali della ricerca di cui questo saggio
costituisce un momento per molti versi nodale. Si tratta di un progetto
ambizioso, già annunciato nella conclusione di Homo sacer (1995) e in
alcuni articoli raccolti in Mezzi senza fine (1996), ma rimasto da
allora sostanzialmente inevaso: l’elaborazione di una genealogia del concetto
di “vita” nella tradizione occidentale. Le difficoltà insite in tale progetto
derivano dal fatto che nella nostra cultura è come se “la vita fosse ciò che
non può essere definito, ma che, proprio per questo, deve essere incessantemente
articolato e diviso
” (21). L’idea stessa di una genealogia del concetto di
vita va dunque problematizzata, corretta e reimpostata nei termini di una
paziente e meticolosa ricerca, o meglio di una pluralità di ricerche, intorno
alle cesure e alle articolazioni che – a più riprese e in vari modi – la
filosofia, la teologia, la politica e poi ovviamente le scienze hanno operato
sulla vita. Si potrebbe forse azzardare un’analogia per chiarire la prospettiva
appena delineata: la vita assolutamente presa (indeterminata, pura, immediata)
sta alle sue determinazioni (divisioni, separazioni, definizioni) come la
sostanza spinoziana sta ai suoi infiniti attributi. Ed è appunto la logica
sottesa a queste cesure e divisioni che interessa formalizzare ad Agamben, secondo
un suo gesto caratteristico, presente, variamente declinato, in quasi tutti i
suoi scritti.

Si
pensi alla determinazione aristotelica della vita nutritiva (o vegetativa):
posto che “vivere si dice in molti modi”, Aristotele non insegue una qualche
definizione generale della vita, ma isola quel principio fondamentale
attraverso cui la vita può essere attribuita ad un certo essere. La separazione
della vita nutritiva permette di costruire l’unità della vita “come
articolazione gerarchica di una serie di facoltà e opposizioni funzionali”
(22). All’inizio del XIX secolo Bichat ripete il gesto di Aristotele quando
distingue tra la vita “organica” (successione abituale di assimilazione ed
escrezione) e vita animale (ossia la vita di relazione). Ne deriva una prima
indicazione di percorso, a partire dalla quale delimitare il campo della nostra
ricerca: “la cesura fra l’umano e l’animale passa innanzi tutto all’interno
dell’uomo” (24). La questione stessa dell’uomo va posta in modo nuovo, posto
che esso non va pensato come congiunzione di corpo e anima, di un vivente e di
un logos, ma è piuttosto ciò che risulta dalla sconnessione di questi
due elementi: in che modo si è istituita la disgiunzione tra uomo e animale? In
che modo “l’uomo è stato separato dal non-uomo e l’animale dall’umano” (24)?
Quel che intendiamo investigare non è “il mistero metafisico della
congiunzione, ma quello pratico e politico della separazione” (24).

I
capitoli dal settimo all’undicesimo raccolgono elementi per una
problematizzazione della relazione fra animalità e umanità facendo riferimento
all’opera di alcuni illustri naturalisti e scienziati: Linneo (1707-78), Ernst
Haeckel (1834-1919), Jakob von Uexküll (1864-1944). Può essere interessante
notare come nell’Ancien régime – ma in effetti già nell’umanesimo con Pico
della Mirandola –  i confini dell’umano
fossero assai più incerti di quanto non siano diventati nel XIX secolo grazie
allo sviluppo delle scienze umane. Linneo classificava l’uomo (Homo)
nell’ordine degli Anthropomorpha, che chiamerà poi Primates, non
riuscendo a trovare “altro carattere che lo distingue dalle scimmie se non il
fatto che queste ultime hanno uno spazio vuoto fra i canini e gli altri denti”
(cit. p. 31). Del resto già Edward Tyson (1651-1708) nel 1699, in un saggio
dedicato all’orang-outang, detto Homo sylvestris, riteneva di avere
finalmente trovato nella creatura che chiamava pigmeo il nesso
intermedio fra l’animale e il razionale. Nel contesto della tassonomia
elaborata da Linneo l’uomo si configura come curiosa anomalia. Accanto al nome
generico Homo Linneo scrive nosce te ipsum, e solo più tardi
l’aggettivo, poi universalmente adottato, sapiens. Questa anomalia
risulta estremamente significativa: “l’uomo non ha nessuna identità specifica,
se non quella di potersi riconoscere”, anzi “l’uomo è l’animale che
deve riconoscersi umano per esserlo
” (33). La differenza tra l’uomo e la
scimmia consisterebbe non in un qualche dato naturale anatomico o biologico,
bensì in una enigmatica capacità di produrre il riconoscimento dell’umano che
potremmo designare con l’espressione macchina antropogenica o
antropologica.

Ritroviamo
il tentativo di identificare l’anello mancante tra scimmia e uomo un paio di
secoli dopo le ricerche di Tyson sui pigmei: nel 1874 Ernst Haeckel ipotizza
che il passaggio dall’animale all’uomo vada ricondotto all’esistenza di un
uomo-scimmia privo di linguaggio, un Homo alalus, da lui chiamato Pithecantropus
alalus
. Il che non risolve l’enigma dell’origine dell’uomo, ma ne esibisce
il carattere intimamente aporetico: l’uomo-scimmia privo di linguaggio è
prodotto infatti attraverso la sottrazione di un elemento che veniva
presupposto come contrassegno dell’umano, ossia il linguaggio. Questa aporia
non era sfuggita all’attenzione di un grande e trascurato linguista della
seconda metà dell’Ottocento, Heymann Steinthal (1823-1899).

Come
funzionano le macchine antropologiche elaborate da antichi e moderni?
“Attraverso un’esclusione (che è anche e sempre già una cattura) e
un’inclusione (che è anche e sempre già un’esclusione). Proprio perché l’umano
è, infatti, ogni volta già presupposto, la macchina produce in realtà una sorta
di stato di eccezione, una zona di indeterminazione in cui il fuori non è che
l’esclusione di un dentro e il dentro, a sua volta, soltanto l’inclusione di un
fuori” (42). L’uomo non è un dato, ma un problema: il problema dello statuto
ontologico dell’umano e della possibilità di definirlo e identificarlo. Come si
produce questa identificazione? Attraverso un rapporto paradossale – e non
semplicemente dialettico – con l’Altro: l’uomo riconosce e afferma se stesso in
quanto marca la sua differenza dall’animale, l’uomo delimita i confini del
proprio dentro attraverso l’esclusione di un fuori. L’aver luogo
di questa delimitazione (ossia la macchina antropologica), l’evento dell’umano,
si configura come decisione che assegna di volta in volta le funzioni di
proprio e altro, di dentro e fuori, di incluso
e escluso. Una decisione che – secondo la struttura logica di bando
caratteristica di ogni decisione – è in pari tempi esclusione e inclusione: in
una parola eccezione. Sia la figura dell’uomo privo di linguaggio
teorizzato da Haeckel (Homo alalus): in tal caso l’umanità dell’uomo
viene prodotta e definita escludendo da sé come non-ancora-umano
l’uomo-scimmia, cioè animalizzando l’umano e ponendo fuori questa sorta
di ombra del dentro. Sia lo schiavo o il barbaro dell’antichità: in tal
caso l’umanità dell’uomo viene decisa non già animalizzando l’umano (come
non-ancora-umano), ma umanizzando l’animale (come non-più-animale): lo schiavo
è il non-uomo, l’inumano opponendosi al quale il cittadino libero istituisce la
propria umanità (lo schiavo è incluso solo in quanto escluso, dunque è eccepito
nel dentro dell’umanità: è letteralmente preso-fuori). Ne
consegue che “il veramente umano … è soltanto il luogo di una decisione
incessantemente aggiornata, in cui le cesure e la loro riarticolazione sono
sempre di nuovo dis-locate e spostate” (43). Segnaliamo che nel contesto della
biopolitica moderna, tra Ottocento e Novecento, il razzismo ha
costituito un dispositivo strategico di straordinaria efficacia nel tracciare dentro
la vita, sul piano del continuum biologico-naturale del vivente una serie
di cesure adattabili a seconda delle precise esigenze del biopotere: cominciamo
forse a intravedere meglio la posta in gioco politica dell’indagine svolta da
Agamben.

Il
riferimento alle ricerche ecologiche di Uexküll, illustrate attraverso gli
esempi della tela di ragno e della zecca, ci consentono di ricondurre il
problema dell’aver luogo dell’umano nel suo disgiungersi dall’animale alla
questione della differenza tra il mondo dell’uomo (la cosiddetta Umgebung:
un mondo di oggetti) e il mondo-ambiente dell’animale (una relazione tra
portatori di significato e organi ricettori). La nozione originale di Umwelt,
a cui Husserl, Heidegger e poi Fink conferiranno piena dignità fenomenologica e
ontologica, ci permette di abbandonare senza riserve ogni prospettiva
antropocentrica, e di ragionare non più in modo ingenuamente sostanzialistico,
ma funzionalistico, o meglio relazionale. Il mondo-ambiente, come la
tradizione fenomenologica non si è stancata di insegnarci, non è una “cosa”, ma
una relazione intenzionale, un insieme di pratiche: “una unità chiusa in
se stessa, che risulta dal prelievo selettivo di una serie di elementi o di
“marche” nella Umgebung” (46).

Interrogarsi
intorno alla disgiunzione uomo/animale significa allora comprendere in che
modo, attraverso quali affetti e attività qualcosa come un mondo di oggetti, di
contro al quale un vivente produce se stesso come soggetto, venga a costituirsi
sullo sfondo di un mondo-ambiente nel quale il circolo tra interpretante e
segni portatori di significato risulta indisgiungibile e dà corpo ad “una
relazione così intensa e appassionata come non è forse mai dato trovare nei
rapporti che legano l’uomo al suo mondo” (51). Ed è a questo punto che occorre
confrontarsi con alcune lezioni di Heidegger tratte dal corso del 1929-30 dedicato
ai concetti fondamentali della metafisica (Die Grundbegriffe der Metaphysik.
Welt – Endlichkeit – Einsamkeit
).

Heidegger,
nel corso del 1929-30, muove dall’assunto secondo cui “la pietra è senza mondo,
l’animale è povero di mondo, l’uomo è formatore di mondo” (54). Ma che
significa “povertà di mondo”? Per chiarilo Heidegger non esita a confrontarsi
con la biologia, e in particolare con le ricerche di Uexküll. In tal modo egli
approda ad una serie di tesi che possiamo ricapitolare in questa successione:


         

l’animale è
chiuso nel cerchio di quei “portatori di significato”, già descritti da
Uexküll, che Heidegger chiama “disinibitori” (Enthemmende);


         

il modo di
essere proprio dell’animale è lo stordimento (Benommenheit): l’animale è
cioè integralmente assorbito nel proprio disinibitore, e non è quindi capace di
agire né di avere una condotta (ad esempio l’essere assorbito dal cibo
impedisce all’animale di porsi di fronte ad esso, di renderlo oggetto di una
percezione e quindi di riferirsi ad esso in quanto ente tra gli enti; si pensi
anche alla falena, che si lascia bruciare dalla fiamma che l’attrae restandole
tuttavia sconosciuta);


         

la povertà di
mondo caratteristica dell’animale si configura quindi come una paradossale
forma di apertura, una apertura che non svela mai il disinibitore come ente,
dunque una apertura senza svelamento.

In
esplicita e netta contrapposizione a Rilke, che nella ottava Elegia duinese
attribuiva all’animale una sorta di privilegio ontologico rispetto all’uomo,
Heidegger ritiene che all’animale sia precluso l’accesso all’aperto,
ovvero all’essere in quanto alétheia, gioco di latenza e illatenza. Ma
la questione è ben più complessa, e anzi Agamben mette in evidenza una
prospettiva ulteriore accennata da Heidegger nelle parti finali del corso. In
effetti lo stordimento caratteristico dell’animale appare singolarmente affine
ad una Stimmung fondamentale del Dasein: quella “noia profonda”
indagata approfonditamente nei paragrafi 18-39 dei Grundbegriffe. Su
questa oscura affinità Agamben si sofferma attentamente, articolando e
argomentando la tesi secondo cui l’apertura del mondo umano ha luogo attraverso
la sospensione dello stordimento animale, può cioè essere raggiunta “solo
attraverso un’operazione effettuata sul non-aperto del mondo animale” (65):
tale decisiva operazione ontologica non sarebbe altro che la noia (si noti come
il ruolo attribuito alla noia nella antropogenesi possa ricordare per molti
versi la funzione assegnata alla vergogna come esperienza costitutiva della soggettività
nella terza parte di Quel che resta di Auschwitz).

I
momenti strutturali propri della noia profonda sono due: la Leergelassenheit
(l’essere-lasciati-vuoti) e la Hingehaltenheit
(l’essere-tenuti-in-sospeso). Il primo momento ci pone di fronte ad un analogon
dello stordimento animale: nella noia infatti l’uomo si trova “consegnato
all’ente che si rifiuta nella sua totalità” (68), si trova cioè aperto a una
chiusura, esposto in un non rivelato. Nel secondo momento riconosciamo invece
“l’operatore metafisico in cui si attua il passaggio dalla povertà di mondo al
mondo, dall’ambiente animale al mondo umano” (71): attraverso il rifiutarsi
dell’ente (una sorta di svuotamento dell’abituale avere a che fare con le cose)
e la sospensione dell’esperienza, si manifestano le possibilità dell’esserci,
anzi la possibilità pura (quella ursprüngliche Ermöglichung che
letteralmente andrebbe tradotta come “possibilitazione originaria”).
L’esperienza del disvelarsi della potenza in quanto tale coincide con l’origine
stessa del Dasein, cioè dell’ente che esiste nella forma del
poter-essere. L’uomo si produce attraverso la sospensione/disattivazione del
rapporto animale con l’ambiente, dunque non in virtù di una qualità specifica
ulteriore, di un qualche supplemento ontologico, bensì mediante l’afferramento
dello stordimento dell’animale, lo svelamento di quella originaria léthe
(latenza) che è l’indisvelato dell’ambiente animale. “Il Dasein è
semplicemente un animale che ha imparato ad annoiarsi, si è destato dal
proprio stordimento e al proprio stordimento” (73).

Agamben
propone di leggere la dialettica fra latenza e illatenza che definisce secondo
Heidegger la verità come conflitto originario – ad un tempo ontologico e
politico – tra l’umanità e l’animalità dell’uomo (o tra mondo e terra, per
usare i termini del saggio sull’origine dell’opera d’arte). A questo punto il
percorso può avviarsi ad una provvisoria conclusione, che riprende il problema
della fine della storia già evocato nei primi capitoli. Ci troviamo di fronte a
due scenari possibili: o l’uomo poststorico assume la propria animalità come
estremo compito biopolitico, pretendendo di governarla tecnicamente all’insegna
di una gestione integrale della vita biologica; oppure l’uomo, finalmente
consapevole del compimento delle destinazioni epocali dell’essere, “si
appropria della sua stessa latenza, della sua stessa animalità, che non resta
nascosta né è fatta oggetto di dominio, ma è pensata come tale, come puro
abbandono” (82). La formulazione di quest’ultima prospettiva potrebbe apparire
al limite indecifrabile, se non trovasse perfetta esemplificazione in
un’esperienza certo enigmatica ma a tutti comune: l’esperienza dell’appagamento
sessuale, interpretata, raccogliendo alcune suggestioni benjaminiane, come “il
geroglifico di una nuova in-umanità” (85). Geroglifico che Agamben intuisce in
un’opera tarda di Tiziano, Ninfa e pastore, emblema di una perfetta
inoperosità, che allude “a una vita nuova e più beata, né animale né umana”
(89), una vita fuori dall’essere. Consumato il congedo dalle ingegnose
macchine antropologiche architettate dalla metafisica e dalla politica
occidentali, abbandonata e sospesa ogni figura della destinazione, ogni
proprietà ontologica, ogni compito epocale, che cosa resta? Resta la beata inconoscenza
di una ritrovata animalità dell’uomo: semplicemente una vita.

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