untori
Contro la creative class

Immaginate
un Millennium People senza Chelsea Marina, metropoli multiculturali
senza la radicalità dei conflitti. Immaginate un ceto medio, creativo,
in espansione e alla ricerca di riconoscimento, in una società che
(fortunatamente, lasciateci aggiungere) riduce il lavoro di fabbrica,
ma (purtroppo) ha seppellito la lotta di classe.In questo scenario
fantasociologico, a sinistra, nei meandri della composizione tecnica di
classe, esistono due immagini dei “lavoratori della conoscenza”. Da una
parte, c’è chi li vede come un settore di élite, inequivocabilmente
distanti dagli operai e dai “veri” precari, identificati con i
lavoratori low wage e low skill. Dall’altra, troviamo chi li esalta
come i nuovi soggetti del mutamento, punta avanzata dell’innovazione e
alla ricerca di un congruo riconoscimento della propria collocazione
nella società. Paradossalmente, entrambe le posizioni – pur con giudizi
di valore opposti – convergono sulla lettura della composizione tecnica
di classe e sulla sostanziale legittimazione della stratificazione
all’interno del mercato del lavoro. Il problema diventa il
riconoscimento di diritti per settori di riferimento differenti.

Entrambe le posizioni, inoltre, sottendono quella che
potremmo definire una nuova visione dei ceti medi, che è
tradizionalmente un concetto interamente politico e ideologico. È,
cioè, l’individuazione di un gruppo di stabilizzazione in senso
progressivo del sistema capitalistico [1].
Le due immagini politiche, infine, ricalcano le due immagini
sociologiche prevalenti: da un lato quella dei knowledge worker come
classe emergente e ristretta di lavoratori, in un quadro di crescente
polarizzazione sociale; dall’altro, ipotizzano un processo di lineare
professionalizzazione, intellettualizzazione e qualificazione della
forza-lavoro [2].
Dei primi – i nostalgici di ciò che le lotte hanno distrutto – non vale
la pena di occuparsi: già lo abbiamo fatto a sufficienza negli ultimi
anni, già se ne sono occupati i conflitti e la fuga di massa dal lavoro
salariato. Vale invece la pena soffermarsi sui secondi, in quanto si
tratta di posizioni che trovano un’ampia convergenza tra liberal e
settori di movimento, soprattutto a partire dalla suggestiva ascesa
della classe creativa descritta da Richard Florida [3].
Il problema che ci proponiamo di affrontare, dunque, è una critica alla
creative class che sia radicalmente altro dal “cattivo operaismo” –
architrave della cultura politica di sinistra – intriso di olio, grasso
e mani callose.

Il sostantivo classe…

La classe è definita da Florida come un cluster di
persone che hanno interessi comuni e tendono a pensare e comportarsi in
modo simile. Ma queste similitudini sono determinate principalmente
dalla loro funzione economica. Le altre distinzioni e caratterizzazioni
vengono di conseguenza. L’elemento peculiare della nostra era, continua
Florida, è che le persone si guadagnano da vivere mettendo al lavoro la
propria creatività. All’interno della composita categoria di knowledge
worker, esiste un’ulteriore stratificazione. Knights, Murray e Willmott
sostengono che il concetto di knowledge work serve innanzitutto per
nominare i mutamenti nell’organizzazione del lavoro nella direzione di
una maggiore intensità di conoscenza. Dunque, più che classificare
delle occupazioni determinate, è utile per analizzare il nuovo ruolo
assunto dal sapere nell’intero spettro delle attività e delle forme di
produzione. Al contempo, i networker vengono indicati come
l’avanguardia nei processi di innovazione e di sviluppo dei sistemi
organizzativi, sempre più basati sulle tecnologie informatiche e sulla
capacità di fare rete a livello globale [4].
Diversamente Florida propone, all’interno della creative class, una
distinzione tra il super-creative core – composto di scienziati,
ingegneri, docenti universitari, poeti e scrittori, artisti, attori,
designer e archietti, insomma quella che definisce la leadership di
pensiero della società contemporanea, circa il 12% della forza lavoro –
e il 20% di creative professionals, impegnati nei settori high-tech,
nei servizi finanziari, nel business management, nelle professioni
legali e nel settore della sanità. Il 43% della forza lavoro è
impiegata nella service class, mentre un quarto è classificabile nella
declinante working class. Questi due strati, sostiene Florida, sono un
supporto infrastrutturale dell’economia creativa.

Molte critiche sono state mosse alle tesi di Florida.
Paul Maliszewski ne denuncia l’aspetto apologetico, che occulta la
precarizzazione e la produzione ideologica dell’economia creativa, e
contesta la dimenticanza dei 55 milioni di lavoratori dei servizi che
negli Usa puliscono gli scarti della classe creativa [5].
Tali critiche, pur cogliendo alcuni degli aspetti problematici della
visione liberal e progressista di Florida, celano spesso una venatura
nostalgica per modelli occupazionali messi in crisi dai conflitti di
classe, e non solo dalla reazione neoliberale. Più interessante è il
tentativo di riconcettualizzazione della categoria di classe di
McKenzie Wark. Il teorico australiano, nell’ambizioso tentativo di
aggiornare il Manifesto di Marx ed Engels nell’età del “lavoro
immateriale”, traccia le nuove linee del conflitto tra classe hacker e
classe vettoriale [6].
La classe hacker coincide con i lavoratori immateriali di alto livello,
motore dell’innovazione, costretti a vendere la propria capacità di
invenzione e astrazione alla classe vettoriale, cioè coloro che
possiedono i nuovi mezzi di produzione e monopolizzano l’informazione e
gli agenti virali che la trasportano, i vettori appunto. La classe
hacker è un soggetto di avanguardia, separata dalla classe operaia e
dai contadini, ma attorno a cui si può dar vita ad un processo di
alleanze e ricomposizione. Essa trasforma la politica di massa in una
politica della molteplicità, dentro la quale tutte le classi possono
esprimere la propria virtualità.

L’analisi di Wark – in modo non dissimile dagli studi
di Peter Drucker sui knowledge worker – è centrata sulla proprietà.
Manca invece un discorso sulle forme di vita e sulla soggettività,
sulla precarietà e sui rapporti di sfruttamento. La composizione
tecnica coincide per il teorico australiano con la composizione
politica. Al di là delle indubbie differenze di impostazione e
prospettiva politica, è proprio su questo punto che le analisi di
Florida e di Wark convergono: tanto quella creativa quanto quella
hacker sono ancora “classe in sé”, e devono diventare “classe per sé”.
Devono, in altri termini, acquisire la coscienza di classe, per essere
all’altezza del ruolo storico che lo sviluppo capitalistico ha loro
assegnato.

… e l’aggettivo creativa

L’identità e la coscienza degli appartenenti alla
classe creativa, sostiene Florida, non sono più fondate sul lavoro o
sulle istituzioni tradizionali, ma sulla propria creatività. I criteri
classici di classificazione dei knowledge worker, basati sul livello di
formazione, sul contenuto del lavoro, sulla posizione occupazionale e
sull’inquadramento giuridico, sono messi in discussione dall’economista
americano. Non vi è, infatti, corrispondenza immediata tra skill e
titolo di studio. I percorsi di autovalorizzazione, di mobilità
orizzontale all’interno del mercato del lavoro e di autoformazione
diventano variabili decisive per acquisire saperi e competenze. Se già
da tempo il problema della certificazione delle capacità di tipo
contestuale accompagna la letteratura sui lavoratori della conoscenza,
è di grande interesse il tentativo di Florida di elaborare nuovi indici
per misurare la creatività. Viene quindi proposto un Global Creativity
Index, basato su tre T: Tecnologia, Talento e Tolleranza. Le prime due
sono abitualmente utilizzate da chi si occupa della crescita economica,
ma non così avviene per la terza T, l’indice della tolleranza, che è
invece ritenuto da Florida centrale nell’«età creativa». Le differenze
sono infatti il motore dello sviluppo economico e della valorizzazione
capitalistica. Sulla genealogia del presente, del resto, non sembrano
esserci dubbi: nel Dna della classe creativa ci sono i movimenti e le
controculture degli anni Sessanta. Proprio per questo lo stesso Florida
è terribilmente preoccupato per le politiche liberticide e
fondamentaliste dei neocon, materialisticamente edificate su un’attenta
lettura della composizione di classe: esse tendono infatti a fomentare
il rancore per alternativi, modaioli e gay con l’obiettivo accaparrarsi
i consensi proletari delle ampie zone deindustrializzate degli Stati
Uniti centrali. Questa politica dei valori, oggi inseguita dalla
miseria della sinistra italiana (priva persino di quell’analisi
materialistica che la fonda), rischia di mettere in fuga la classe
creativa, facendo perdere peso agli Stati Uniti nella competizione
globale per i talenti [7].

L’indice della tolleranza è misurata sulla presenza di
bohemians e gay. Il teorico militante americano Andrew Ross individua
nell’«industrializzazione della Bohemia» l’origine della Silicon Alley,
il distretto tecnologico di New York, analizzando così la messa a
profitto delle forme di vita, di cooperazione e artistiche, alternative
e trasgressive che, negli anni Settanta, si concentravano in
particolare nel Lower East Side di Manhattan, diventato negli anni
Novanta un bacino di insediamento produttivo delle imprese della net
economy [8].
È proprio la ricomposizione delle figure del boheme e del borghese, o
per meglio dire l’edulcorazione dei conflitti e dei movimenti dalla
propria radicalità, la premessa sine qua non per lo sviluppo della
creative class. Tant’è che il modello di organizzazione di impresa
diventa quello dei progetti open source, nati per eccedere quei confini
della proprietà intellettuale entro cui vengono così ricondotti.
Se la creatività, condensata nell’intreccio delle tre T, è basata sul
rapporto tra l’uno e i molti, potremmo dire che emerge dalle pagine di
Florida il lato oscuro, o meglio la lunga ombra capitalistica della
moltitudine: la singolarità assume le sembianze dell’individualismo,
l’autovalorizzazione diviene culto dell’edonismo, il comune è
trasfigurato nel business imprenditoriale. Nell’incontro tra etica
bohemienne ed etica protestante, la controcultura – magari oggi
colorata di pink – diventa un bacino di investimento nel proprio
capitale umano e un modo per fare soldi. Anzi, è la nuova forma del
business nelle città creative, messe in sicurezza e anestetizzate dal
conflitto di classe. Questa è la lezione che Florida trae dalla San
Francisco Bay, culla della controcultura americana e della Silicon
Valley. Dunque, laddove l’etica del lavoro è finita, quando il
desiderio di autonomia e l’infedeltà diventano i nuovi tratti comuni
della composizione di classe, la creatività assume la forma di una
nuova etica del lavoro.

I saperi e la creatività, del resto, appartengono per
Florida a una dimensione astorica, caratterizzano l’essere umano in
quanto tale. Viene qui occultato il loro carattere storicamente
determinato, il loro essere prodotto dell’attività e della
cooperazione. Mancano, in altri termini, il lavoro vivo e i rapporti
sociali di produzione. Su questo Wark non ha dubbi: la classe
vettoriale può ricondurre la produzione di conoscenza entro i limiti
della proprietà solo attraverso la produzione artificiale di scarsità,
laddove vi sono ricchezza e abbondanza. Proprio quella ricchezza e
abbondanza, caratteristica della produzione di saperi, costituiscono
l’eccedenza che il capitalismo può tentare di regolare e controllare,
ma di cui non si può interamente appropriare. Attenzione, però: ciò non
significa la lineare crisi del sistema capitalistico, come André Gorz
sembra frettolosamente dedurre [9].
Piuttosto, costituisce la base materiale dell’autonomia del lavoro vivo
nel postfordismo. Definisce, al contempo, il campo del conflitto tra la
produzione del comune (diversamente da molte retoriche di movimento, è
opportuno precisare che il bene comune non esiste in natura, ma è
continuamente prodotto dal lavoro vivo e dalla cooperazione sociale) e
i tentativi di cattura e appropriazione capitalistica.

Non c’è classe senza lotta di classe

La creative class rischia così di presentarsi come
l’ideologia del ceto medio dopo la sua fine, problema politico attorno
a cui si arrovellano in un recente libro Massimo Gaggi ed Edoardo
Narduzzi [10].
O meglio: se il ceto medio si definiva prevalentemente in negativo,
cioè per appartenenza a un gruppo che si distingueva dalla classe
operaia e dai capitalisti, incaricandosi di mantenere l’equilibrio
sociale, la classe creativa si definisce in positivo, raccogliendo al
contempo la funzione politica della middle class. Quello di Florida è
una sorta di liberal-marxismo, che distingue tra la struttura economica
– non più identificata semplicemente nel lavoro, ma nella messa in
produzione della creatività e delle forme di vita – e la sovrastruttura
della coscienza della classe creativa, ancora da far emerge. Ciò
risponde alla razionalità della storia: l’affermarsi della creative
class è infatti per l’economista americano il risultato dell’evoluzione
delle forze economiche. Viene proposta una nuova teoria delle due
società: non più quella – già nefasta – che divideva i garantiti dai
non-garantiti, ma quella che distingue la classe creativa dalla old
society.

Quella di Florida è una teoria delle classi imperniata
su un’idea nuova – da qui l’interesse che suscita – di modernizzazione.
Le cosiddette tre T altro non sono che le condizioni di possibilità
attraverso le quali sviluppo, competizione e crescita economica possono
imporsi nell’economia globalizzata. La componente critica del suo
discorso, compresa la critica al bushismo, si incentra conseguentemente
sulla denuncia del ritardo o dell’avversione delle istituzioni
politiche ed economiche rispetto alle proprietà salvifiche del “nuovo
corso”. Lo sviluppo della classe creativa con il suo pieno
riconoscimento, sono ciò a cui il capitale deve guardare per uscire
dalle secche della sua crisi di accumulazione. Proprio per questo
motivo Florida può vantare la capacità di far coincidere la figura
dello studioso progressista con quella di consulente ambito dalle
grandi corporation.

Se questo basta a delineare i contorni di un coerente
ed innovativo discorso sulla crisi del capitalismo e sulla sua
possibile cura, più difficile è capire come l’idea della classe
creativa – in quanto elemento politico, non analitico – abbia fatto
presa in vari ambiti di movimento. Causa o effetto che siano, ne
possiamo vedere i risultati nella tendenza di molte lotte dei precari
della creative class a percepire se stesse e a comportarsi come se
fossero delle lobby, più attente cioè al riconoscimento del valore del
proprio capitale creativo nelle gerarchie del mercato del lavoro, che
non alla messa in discussione dei suoi meccanismi di regolazione.
Potremmo dirla in altro modo: la creative class evidenzia la
schizofrenia del lavoratore postfordista, l’essere cioè al contempo
lavoro e capitale – ottimamente descritta da Sergio Bologna e Andrea
Fumagalli nel paradigma del lavoratore autonomo di seconda
generazione [11],
apologeticamente esaltata da Aldo Bonomi nell’ideologia
dell’imprenditore di se stesso, superata da Florida nella fusione tra
il bohemian e il borghese. Il problema dei processi di composizione
politica di classe nel postfordismo è ora non la ricomposizione della
figura giuridica che tiene insieme il datore e il prestatore di lavoro,
bensì la scissione.

Le prospettive politiche, dai liberal ad alcuni settori
di movimento, hanno un minimo comun denominatore: la riproposizione di
un nuovo compromesso sociale dell’economia creativa. Un New Deal
globale per Florida, un «welfare low cost» per Gaggi e Narduzzi, un
keynesismo post-statale per i sostenitori del cognitariato. Ma tutti
espungono dalla propria analisi il fatto che il compromesso sociale era
fondato non su generici processi di conflitto, né tanto meno sulla
razionalità della ricerca di equilibri progressivi. Era il risultato
della lotta di classe. Rifuggendo tanto dall’immagine elitaria dei
knowledge worker, quanto dalla nostalgia per i dispositivi di
occupazione e garanzia “fordisti”, Andrew Ross individua il nodo
politico centrale nella combinazione delle istanze dei soggetti sopra e
sotto la «linea» nella gerarchia del lavoro cognitivo. In mancanza di
una simile prospettiva, continua il teorico americano, la parte alta si
identificherà nell’immagine autoimprenditoriale, quella alle prese con
i processi di de-skilling con le sole battaglie bread-and-butter [12].
Ross indica invece nella ricomposizione dei conflitti sulla proprietà
intellettuale e sulla distribuzione del reddito il pieno sviluppo di
autonomia della cooperazione sociale. Lungo l’articolazione o
divaricazione di questa linea si colloca la possibile riarticolazione
del concetto di classe nell’età del capitalismo cognitivo [13],
in un senso contrario dal dissolversi delle classi ipotizzato da
Florida. Ossia, dalla creative class come nuovo ceto medio
post-classista.

Le classi, infatti, non sono un fenomeno naturale, né
un semplice riflesso della stratificazione del mercato del lavoro. Sono
categorie politiche. Se, come afferma Mario Tronti, non c’è classe
senza lotta di classe [14],
potremmo dire che con la lotta di classe non c’è ceto medio. In altri
termini, viene messo in crisi lo spazio di stabilizzazione e mediazione
che i gruppi che fanno parte di questo strato, politicamente,
rivestono. Lo schema che viene proposto tanto da Florida quanto da
Wark, invece, poggia su una separazione netta tra classe in sé e classe
per sé, laddove il collegamento tra l’una e l’altra sarebbe unicamente
appannaggio di una non meglio specificata azione della coscienza.
Questo schema finisce per relegare quella di classe ad una definizione
tutta teorica e l’azione politica allo stretto perimetro del
riconoscimento di una trasformazione avvenuta nella divisione del
lavoro, alla quale però ancora non corrispondono i dovuti diritti.
Pensiamo, al contrario, che quello di classe sia un concetto politico
in divenire, dato dalle soggettivazioni immanenti al mondo del lavoro
che tentano di eccedere i processi di gerarchizzazione e
individualizzazione che dovrebbero controllarle e contenerle. Legare
oggettivisticamente le stratificazioni della composizione del lavoro
alla definizione di classe rischia di naturalizzare i dispostivi di
controllo e misura del lavoro vivo trasformando questi ultimi, in
semplici aggregati identitari. Il rapporto tra composizione tecnica e
composizione politica di classe, deve invece mettere al centro i
conflitti, le esperienze di rifiuto ed esodo che già avvengono nel
mercato del lavoro. Comprendere come, nell’epoca del lavoro cognitivo,
si compongano delle strategie di autovalorizzazione che resistendo ai
dispositivi di comando, sfruttamento e segmentazione, costituiscono un
campo di composizione delle forze; è in questo campo, definito dalla
produzione del comune, che occorre cercare la soggettivazione politica
della classe.

Da questo punto di vista, l’idea stessa di
“ricomposizione” lascia trasparire l’esistenza di un’originaria unità
del lavoro scomposta dalle divisioni operate dal capitalismo. Il
problema politico ed analitico che ci troviamo invece di fronte, fuori
da qualsiasi immagine meramente teorica, totalizzante e teleologica
della classe, è pensare il collegamento tendenziale delle lotte, la
loro possibile generalizzazione e potenziamento, la codificazione
strategica cioè delle resistenze in atto. La classe in questo senso
deve essere pensata come un effetto globale e non come una struttura
oggettiva, sociologicamente definita ed identitariamente formata. È al
contempo la posta in palio e la condizione di possibilità della lotta.

Lavoro cognitivo, dicevamo. È meglio chiarire: tale
categoria non indica per noi un settore egemone, ricalcato sulla
lettura della composizione tecnica di classe. Così è stato spesso
interpretato il cognitariato. Il lavoro cognitivo è invece la filigrana
attraverso cui leggere l’eterogeneità del lavoro vivo postfordista e i
nuovi rapporti di sfruttamento. Non implica altresì un lineare processo
di intellettualizzazione della forza-lavoro, o dell’espansione
progressiva di occupazioni creative. Le dinamiche di déclassement, non
a caso, sono state uno dei terreni di battaglia delle recenti lotte di
studenti e precari a livello europeo e globale. Cognitivizzazione del
lavoro, dunque, significa cognitivizzazione della misura e dello
sfruttamento, cognitivizzazione della gerarchia di classe e della
regolazione salariale, cognitivizzazione della divisione del lavoro e
delle forme di resistenza. La segmentazione e gerarchizzazione interna
alla composizione di classe ha innanzitutto una funzione politica.
L’impossibile reductio ad unum, l’irrapresentabilità e l’eterogeneità
delle nuove figure del lavoro vivo postfordista, il suo essere
moltitudine, assumono in Florida la forma dell’homo hœconomicus
nell’era creativa, aperto alle differenze nella misura in cui sia stata
cancellata la differenza radicale: la differenza di classe. Il problema
della composizione politica di classe nel capitalismo cognitivo è
invece organizzare la produzione del comune e al contempo le forme
della resistenza. Il problema dell’esodo, dunque, ma anche del rifiuto,
laddove l’etica creativa è diventata la nuova etica del lavoro. Perché
il rifiuto è la condizione di possibilità dell’esodo e dell’autonomia.

Potremmo allora qualificare così la questione del
virtuale proposta da McKenzie Wark, in quanto dischiudersi della
potenza del presente. Strappandola però a ogni lettura deterministica o
di sintesi dialettica, per situarla nel campo tracciato dai conflitti
di classe, dai rapporti di forza e dai processi di produzione del
comune. Insomma, potremmo dire che le analisi sulla creative class
evidenziano con chiarezza il sovrapporsi di vita e lavoro nel
capitalismo cognitivo. Con ciò ogni idea nostalgica per le forme di
organizzazione del passato di classe è felicemente superata. Dunque,
non c’è nessuna possibilità di restaurare la dicotomia, finalmente
defunta, tra lavoro produttivo e improduttivo. Il problema di tali
analisi è però che ne occultano la funzione interamente politica, cioè
l’individuazione e territorializzazione dei rapporti di sfruttamento e
dei luoghi della lotta di classe. Si perde, in altri termini, il
concetto marxiano di lavoro produttivo non in quanto elemento di
distinzione dal lavoro improduttivo, ma come dispositivo teorico di
attacco. Nella sua capacità non di descrivere, ma di far male al nemico.

Quali sono allora le officine Putilov del lavoro
cognitivo? Se le tre T, come abbiamo visto, sono le condizioni di
possibilità dello sviluppo capitalistico, sacre icone della produzione
capitalistica del comune, quali sono le condizione di possibilità della
sua rottura? Qui il cambiamento della determinazione politica deve
avere la forza di mutare anche il segno delle domande della ricerca
teorica. Come individuare all’interno della composizione del lavoro
vivo la gerarchia politica dei conflitti, la quale – lungi dall’essere
il calco sociologico delle gerarchie e segmentazioni del mercato del
lavoro – deve esprimere il valore differenziale dei processi di
soggettivazione e dei punti di attacco che le fanno saltare? Qui sta il
nodo, irrisolto, della composizione politica di classe, che è
innanzitutto rifiuto della sua composizione tecnica, in quanto
articolazione della forza-lavoro determinata dalla produzione
capitalistica del comune e dai rapporti di sfruttamento. In questo
snodo centrale si situa il compito del pensiero radicale oggi.
Diciamolo meglio: di un punto di vista di classe all’altezza della
composizione del lavoro vivo contemporaneo, che non va ricomposto, ma
di cui va liberata una potenza fondata sul rapporto tra singolarità e
autonoma produzione del comune, laddove nessuna simmetria e
rovesciamento dialettico è possibile.


[1]
Salvati, M. (a cura di, 2000), Da Berlino a New York. Crisi della
classe media e futuro della democrazia nelle scienze sociali degli anni
trenta, Bruno Mondadori, Milano.

[2]
Cfr. Butera, F. – Donati, E. – Cesaria, R. (1997), I lavoratori della
conoscenza. Quadri, middle manager e alte professionalità tra
professione e organizzazione, Franco Angeli, Milano.

[3] Florida, R. (2003), L’ascesa della nuova classe creativa. Stile di vita, valori e professioni, Mondadori, Milano

[4]
Knights, D. – Murray, F. – Willmott, H. (1993), Networking as knowledge
work: a study of strategic interorganizational development in the
financial services industry, in Journal do Management Studies, v. 30,
n. 6.

[5] Maliszewski, P. (2006), Flexibility and Its Discontents, in The Baffler, n. 16.

[6] Wark, M. (2005), Un manifesto hacker. Lavoratori immateriali di tutto il mondo unitevi!, Feltrinelli, Milano.

[7] Florida, R. (2006), La classe creativa spicca il volo. La fuga dei cervelli: chi vince e chi perde, Mondadori, Milano.

[8] Ross, A. (2003), No-Collar. The Human Workplace and Its Hidden Costs, Basic Books, New York.

[9] Gorz, A. (2003), L’immateriale. Conoscenza, valore e capitale, Bollati Boringhieri, Torino.

[10] Gaggi, M. – Narduzzi, E. (2006), La fine del ceto medio e la nascita della società low cost, Einaudi, Torino.

[11]
Bologna, S. – Fumagalli, A. (a cura di, 1997), Il lavoro autonomo di
seconda generazione. Scenari del postfordismo in Italia, Feltrinelli,
Milano.

[12]
Ross, A. (2006), Technology and Below-the-Line Labor in the Copyfight
over Intellectual Property, in American Quarterly, John Hopkins
University Press, n. 58.

[13] Vercellone, C. (a cura di, 2006), Capitalismo cognitivo. Conoscenza e finanza nell’epoca postfordista, Manifestolibri, Roma.

[14]
Ci riferiamo qui in particolare alla relazione Sul concetto di classe
in Marx tenuta da Mario Tronti nel ciclo seminariale «Lessico marxiano»

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