Quello che passa per
antirazzismo è in genere una pura esercitazione retorica. Questa retorica è
incapace non solo di attaccare concretamente le pratiche e i rapporti razzisti,
ma anche di criticare alla radice la stessa teoria del razzismo Quest’ultima,
infatti, da ormai trent’anni ha per lo più abbandonato, vista la loro palese
impresentabilità, la nozione di "razza" e il riferimento alla
biologia. Parla ormai di etnie e di culture e non afferma la superiorità di
alcune sulle altre, ma la loro incommensurabile differenza. In un misto di falso
anticapitalismo (con la denuncia dell’immancabile "mondialismo finanziario"
distruttore delle tradizioni), di indipendentismo (in nome dell’ "autodeterminazione
dei popoli") e di separatismo (contro il "meticciato culturale"),
si oppone all’immigrazione. Ogni "incrocio" viene visto come
impossibile in quanto gli individui non possono sottrarsi alla propria
cultura, la quale viene così ad essere un elemento ereditario, naturale.
Ogni popolo (sempre sinonimo di "comunità nazionale") deve stare
sulla propria terra per conservare la specificità delle proprie tradizioni. L’ideale,
per questi nuovi razzisti, è l’apartheid.
A questo finto
elogio della differenza, nazionalista e autoritario, l’antirazzismo oppone un
astratto universalismo (l’uguaglianza in nome della comune Umanità) oppure la
difesa democratica della specificità culturale; questa comunità
fittizia nell’unico mondo reale: quello del potere e della merce. Non sospetta
mai, questo antirazzismo, che rimanendo all’interno del rapporto che lega Stato,
nazione e cittadinanza (e quindi cultura intesa in senso territoriale) non si
esce dalla palude da cui emerge il razzismo. Così come non sospetta che ci sia
un modo antiautoritario per conciliare universalismo e differenza, cioè quello
di riferirsi all’unica universalità concreta: l’individuo. Siamo tutti unici,
ecco la sola qualità che ci rende uguali. Viceversa, quando la differenza è
intesa come identità collettiva (nazionale, etnica, eccetera) si parte dal
presupposto che tutti gli individui appartenenti alla stessa "cultura"
siano uguali, cioè omogenei. L’uguaglianza, per gli antirazzisti
democratici, è l’unifoormità nella sottomissione (alla legge, allo Stato, al
denaro). La differenza, per i razzisti, è la specificità del ghetto. Il
capitalismo li accontenta entrambi: la sua società non conosce individui, ma
solo venditori e compratori di merci, in quanto tali perfettamente uguali
(cioè intercambiabili); la sua gerarchia competitiva rende effettivamente
diversi gli uomini a seconda del loro ruolo sociale e del loro grado di servitù
(la merce, infatti, è sempre razzista).
Uno sfruttato e uno
sfruttatore sono uguali solo nel cielo grigiastro del diritto, non sulla terra
della guerra sociale.
Non c’è nulla che
assomigli di più a un povero di un altro povero.
Uguali, lo saremo solo
quando avremo dei rapporti di reciprocità (come tu a me, così io a te), cioè
sulle rovine di ogni potere e di ogni sfruttamento. Diversi, lo saremo solo in
un mondo a misura della nostra unicità di individui (non più elettori,
consumatori, italiani, operai, studenti, eccetera).
Serve a ben poco
limitarsi a condannare moralmente o culturalmente il razzismo, poiché il
razzismo non è un’opinione, ma una miseria psicologica. Non è sbalorditivo che
esso provenga soprattutto dalle classi medie, le quali hanno avuto così spesso
il monopolio della stupidità ignobile. Maltrattate da un sistema che hanno
sempre difeso con zelo, si aggrappano a quel miraggio di proprietà che gli è
rimasto, e hanno paura. La società civile, prima borghese e ora
tecnoburocratica, è fondamentalmente razzista e tutti i bianchi poveri che
cercano di integrarvisi sono anch’essi preda di questa epidemia di peste
emozionale. Lo sfruttato che si identifica col suo lavoro e con la sua impresa
molto spesso disprezza l’immigrato che sa a malapena leggere. In una società
gerarchica in cui regna la concorrenza fra tutti, gli immigrati sono guardati
con superiorità, temuti e infine odiati. I poveri di qui che sono, nella
gerarchia sociale, sullo stesso gradino degli immigrati, mostrano attraverso il
loro razzismo a che punto sono isolati di fronte alla merce. Pensano che la
nazione – questa estensione astratta del rifugio familiare – li protegga."Prima
gli Italiani!". Questo slogan imbecille (che pone l’immigrato come
privilegiato e concorrente) evapora da solo nei momenti di rottura sociale
generalizzata, quando i poveri riconoscono i loro nemici comuni.
Gli antirazzisti
legalitari fanno dell’isolamento degli immigrati un atto
politico. Ignorano una verità fondamentale della democrazia rappresentativa:
non si possono accordare dei diritti civili a una parte della popolazione se
prima non si è certi che questa non ne farà mai usa. Invece di attaccare una
società radicalmente razzista, questi antirazzisti offrono agli immigrati
un’integrazione giuridica che riconosca loro la sola comunità che lo Stato può
tollerare: la cultura o la religione. Da quello stesso isolamento s’intonano i
canti delle sirene integraliste, la versione arcaica della sinfonia della merce.
Poi ci sono i
sostenitori fuori tempo massimo del terzomondismo per i quali gli immigrati sono
il nuovo soggetto rivoluzionario. Costoro chiedono all’immigrato quella rivolta
totale che loro stessi sono sempre stati incapaci di praticare. La versione
pietistica di questa visione è la "solidarietà" cristiana o laica
(non solidarietà nella rivolta, ovviamente, bensì lenimento delle ferite
provocate da quest’ordine sociale). I militanti della solidarietà dall’esterno
leggono sul viso dell’immigrato la violenza di un sistema che non hanno mai
avuto la risolutezza di combattere, e optano per il sorriso della falsa
coscienza.
E’ ben altra la
solidarietà di cui ci sarebbe bisogno, capace di attaccare i responsabili del
razzismo (anche di quello non dichiarato, ma praticato) e di vedere nella nostra
vita ogni giorno più precaria e artificiale una condizione comune di
spossessamento. Purtroppo, la scomparsa dopo gli anni Settanta delle lotte
rivoluzionarie (dal Nicaragua all’Italia, dal Portogallo alla Germania, dalla Polonia
all’Iran) ha sgretolato la base di una solidarietà concreta fra gli espropriati
della Terra. Al contrario, gli Stati dimostrano ormai una solidarietà senza
incertezze nel controllo e nella criminalizzazione dei migranti e di tutti i
poveri.
Un movimento di lotta
degli immigrati in Italia sarà un processo piuttosto lungo (altrove simili
esperienze hanno cominciato ad affiorare dopo la seconda generazione). Per
essere incisivo, esso dovrà oltrepassare la rivendicazione dei diritti civili o
dell’uguaglianza astratta e assumere i contorni di una lotta di classe nel senso
più semplice del termine. Consapevole della propria totale deprivazione, della
completa esclusione dalla vita, ma anche della forza che ciò comporta. Si
scontrerà, come tutti quelli che l’hanno preceduto nel secolo appena concluso,
con le difficoltà immense inerenti ad una simile lotta che partendo da nulla
vuole ottenere tutto. Noi sfruttati in collera di qui egli immigrati in lotta
non possiamo appoggiarci sulla memoria del vecchio movimento operaio, portatore
di un progetto di liberazione universale sparito con esso. L’alienazione
mercantile e il dominio tecnoburocratico sono penetrati ovunque. Le resistenze
sono deboli, avvolte in una precarietà che investe tutti gli ambiti (salari,
cultura, rapporti sociali, percezione di sé, eccetera).
Eppure (basta pensare
all’esemplare combattività negli anni Settanta dei giovani operai immigrati dal
sud al nord Italia) la precarietà stessa può diventare una condizione
esplosiva, in quanto potenziale nemica di un ordine incapace di garantire
persino il minimo vitale. Al di fuori di questa esplosione generalizzata, la
quale distruggerà le proprie catene solo con la soppressione delle classi e
l’abbattimento degli Stati, l’umanità precipiterà sempre di più nel
nazionalismo e nel razzismo.
CI SONO
SEMPRE PIÙ STRANIERI NEL MONDO
Milioni di uomini
e donne sono costretti ad errare (ci sono attualmente 150 milioni d’immigrati
nel mondo) a causa di guerre, colpi di Stato, disastri ecologici o della
semplice produzione industriale (distruzione delle campagne e delle foreste,
licenziamenti di massa, eccetera). L’insieme di questi fattori è talmente
intricato che ogni distinzione tra "sfollati", "rifugiati’,
"profughi" o "migranti" rivela soltanto l’ipocrisia
assassina degli Stati e delle loro organizzazioni sedicenti umanitarie.
Contrariamente a quanto afferma la propaganda mediatica e istituzionale, il
fenomeno della migrazione non tocca soltanto il Nord ricco. Attualmente, il
continente europeo, ad esempio, è coinvolto solo per il 17 per cento rispetto
ai dati complessivi. Il che significa – basta
pensare all’Africa e all’Asia – che gli sconvolgimenti provocati dall’economia e
dagli Stati sono tali che per un Paese povero ce n’è uno ancora più povero i
cui abitanti emigrano alla ricerca disperata di condizioni appena appena meno
disastrose. Che tutto ciò sia inseparabile dalla storia vecchia e recente del
colonialismo e dei giochi politici delle grandi potenze, è una verità fin
troppo evidente. Come esempio, basta pensare al fatto che soltanto in seguito
alla prima guerra nei Golfo (1991) ci sono stati 5 milioni di profughi che si
sono spostati verso il Mediterraneo.
LA
CREAZIONE DEL CLANDESTINO,
LA
CREAZIONE DEL NEMICO
Il concetto di
immigrazione clandestina è usato apposta per sottolineare l’aspetto volontario
del fenomeno (uno emigra per puro piacere, uno potrebbe vivere regolarmente
in un Paese, ma non lo fa perché preferisce la paura e il rischio eccetera). In
realtà, il "clandestino" è semplicemente un immigrato che non ha i
documenti in regola (anche perché, nella maggior parte dei casi, per avere tali
documenti dovrebbe fornire garanzie il cui possesso non lo avrebbe reso
migrante, ma turista o studente straniero: per essere riconosciuto, insomma,
dovrebbe… non esistere). Quale disoccupato italiano, infatti, potrebbe fornire
la garanzia di un reddito legale (se lavora, lavora in nero, come più di 5
milioni di suoi connazionali), oppure quella di assunzione da parte di un
padrone, o ancora di una casa di 60 metri
quadrati per tre persone)? Che li si legga, i vari decreti (di destra come di
sinistra) sull’immigrazione, si capirà allora che la clandestinizzazione
degli immigrati è un progetto preciso degli Stati. Perché?
Uno straniero
irregolare è più ricattabile, disposto ad accattare, sotto la minaccia
dell’espulsione, condizioni di lavoro e di esistenza ancora più odiose
(precarietà, continui spostamenti, alloggi di fortuna, eccetera); con lo
spettro della polizia, i padroni si procurano dei salariati docili, anzi del
lavoratori forzati. Anche i partiti della destra più reazionaria e xenofoba
sanno benissimo che una chiusura ermetica delle frontiere è, non solo
tecnicamente impossibile, ma anche non vantaggiosa. Secondo il rapporto sulla
cosiddetta "migrazione di ricambio" delle Nazioni Unite, l’Europa
dovrebbe, per mantenere l’attuale "equilibrio fra popolazione attiva e
inattiva", "accogliere", di qui al 2025, 159 milioni di
lavoratori (di cui 7 milioni in Italia, cioè cinque volte più della quota attualmente
stabilita per anno). La Confindustria suggerisce continuamente di raddoppiare le
quote fissate finora.
La concessione di
permessi annuali, stagionali oppure il loro rifiuto fanno parte della
costruzione di una precisa gerarchia sociale fra poveri. Di più, la
stessa distinzione fra rimpatrio coatto immediato e espulsione (cioè l’obbligo,
per l’immigrato irregolare, di presentarsi entro quindici giorni alle frontiere
per essere spedito a casa) permette di scegliere – sulla base di criteri etnici,
"razzial" o di accordi economico-politici con i governi da cui
l’immigrato proviene – chi clandestinizzare e chi allontanare subito. Le
autorità sanno benissimo, infatti, che nessuno si presenterà spontaneamente
alle frontiere per farsi espellere; di certo non chi ha speso tutto quello che
aveva – e talvolta anche di più – per pagarsi il viaggio di arrivo. Gli
imprenditori definiscono le caratteristiche della merce che comprano (l‘immigrato
è una merce, come noi tutti del resto), lo Stato raccoglie dati, la polizia
esegue gli ordini. Ecco il razzismo differenzialista e non dichiarato
delle istituzioni democratiche. E allora perché gli allarmi dei politici e dei
mass media, i proclami anti-immigrazione? Per creare Nemici immaginari, per
spingere sfruttati di qui a scaricare su di un facile capro espiatorio le
crescenti tensioni sociali e, allo stesso tempo, per rassicurarli facendo loro
ammirare lo spettacolo di poveri ancora più precari e ricattati di loro; per
farli sentire, infine, membri di un fantasma chiamato nazione. Non solo. Facendo
dell’ "illegoralità" – che essi stessi creano – un sinonimo di
delinquenza e pericolosità, gli Stati giustificano un controllo sociale e una
criminalizzazione dei conflitti di classe sempre più striscianti. Tuonano, a
destra come a sinistra, contro il racket che organizza i viaggi dei "clandestini"
(descritti dai mass media come un’invasione, un flagello, come l’avanzata di un
esercito), quando sono le loro leggi a favorirlo. Tuonano contro la "criminalità
organizzata" che sfrutta certi immigrati (fatto parziale ma vero), quando
sono loro a fornirle la materia prima disperata e pronta a tutto. Stato e mafie,
d’altronde, come dimostra la loro simbiosi storica, sono uniti dallo stesso
principio liberale: gli affari sono affari.
Questo ignobile gioco
di specchi durerà fino a quando durerà la miseria degli occhi e dei cuori.
I NUOVI
LAGER
Definire Lager i
"centri di permanenza temporanea" per immigrati in attesa di
espulsione – centri introdotti in Italia nel 1998 dal governo di sinistra con la
legge Turco-Napolitano – non è un’enfasi retorica come in fondo pensano anche i
militanti di sinistra che utilizzano tale formula. Si tratta di una definizione
rigorosa. I Lager nazisti sono stati, prima di diventare dei centri di sterminio
metodico, dei campi di concentramento in cui venivano rinchiusi individui che la
polizia considerava, anche in assenza di condotte penalmente perseguibili,
pericolosi per la sicurezza dello Stato. Questa misura preventiva – definita
"detenzione protettiva" (Schutzhaft) – consisteva nel togliere
tutti i diritti politici e civili ad alcuni cittadini. Fossero profughi, ebrei,
zingari, omosessuali o sovversivi, spettava alla polizia, dopo mesi o anni,
decidere sul da farsi. I Lager, cioè, non erano prigioni a cui si veniva
condannati per qualche reato (nella sua più o meno aberrante definizione
totalitaria), né un’estensione del diritto penale. Si trattava di campi in cui
la Norma stabiliva la propria eccezione; in breve, una sospensione legale
della legalità. Un Lager dunque, non dipende dal numero degli internati né da
quello degli assassinii (fra il 1935 e il 1937, prima dell’inizio della
deportazione degli ebrei, gli intarnati in Germania erano 7500), bensì dalla
sua natura politica e giuridica.
Gli immigrati finiscono
oggi nei centri di detenzione indipendentemente da eventuali reati, senza alcun
procedimento penale: il loro internamento, disposto dal questore,
è una semplice misura di polizia, la cui durata non è sottoposta ad alcun
limite. Esattamente come accadeva nel 1940 sotto il regime di Vichi, quando i
prefetti potevano rinchiudere gli individui "pericoosi perla difesa
nazionale o la sicurezza pubblica" oppure (si badi) "gli stranieri in
soprannumero rispetto all’economia nazionale"’. Si può rinviare anche alla
detenzione ammistrativa nell’Algeria francese, al Sudafrica dell’apartheid
o agli attuali ghetti per i Palestinesi creati dallo Stato di Israele. In tutti
questi casi la polizia è legalmente autorizzata a sbarazzarsi di ogni
legalità. Certo, questo essa lo fa quotidianamente a tutte le latitudini del
mondo, risolvendo certi problemi dello scontro di classe con la tortura o con un
colpo di pistola alla nuca. Ma si tratta di situazioni giuridicamente diverse.
Non a caso, rispetto alle condizioni infami dei centri per immigrati, i buoni
democratici non rivendicano il rispetto di una legge quale che sia, bensì
quello dei diritti umani (e al limite delle varie convenzioni
internazionali firmate a difesa di questi). I diritti umani sono
l’ultima maschera di fronte a donne e uomini a cui non rimane null’altro che la
pura appartenenza alla specie umana. Non li si può integrare come cittadini, si
fa finta di integrarli come Uomini. Sotto l’uguaglianza astratta dei principi,
crescono ovunque le disuguaglianze reali.
Campi (Lager) sono gli
stadi in cui vengono affastellati i profughi prima di essere rispediti a casa.
Campi sono le "zone di attesa" degli aeroporti in cui sono
parcheggiati gli stranieri che fanno domanda per il riconoscimento del loro
statuto di rifugiati. Campi, inoltre, sono le bidonville del Sud del mondo e
anche certe periferie delle grandi metropoli occidentali.
Oltre le maschere della
politica, oltre le rappresentazioni di chi rivendica una nuova cittadinanza e
nuove forme di integrazione democratica, rimangono i ghetti della miseria, della
disperazione, della rivolta e della morte. Oltre il mondo delle identità
poliziesche e mercantili, rimangono – quale immagine rovesciata e veridica di
questo mondo – i recinti dove sono internate tante singolarità anonime, povere
e fuggiasche; sul loro cancello di entrata, invisibile alle telecamere dei
giornalisti, c’è una scritta: "Finché esisteranno il denaro e le carte di
identità, non ce ne saranno mai abbastanza per tutti".