untori
Autorganizzazione e spazi sociali

Controllo urbano e occupazione di luoghi
collettivi

 
 

IL RAPPORTO TRA
SPAZI sociali ed autorganizzazione è indissolubile.

In un mondo che ha
sottomesso ogni metro quadrato di terra e di mare alla legge dell’economia di
mercato e di conseguenza ad un controllo sociale sempre più capillare, un’idea
come quella autogestionaria, basata sull’autorganizzazione dell’attività umana,
non trova spazio se non ponendosi in aperto conflitto con la realtà.

La maggioranza di
noi vive, ma sarebbe più verosimile dire sopravvive, in pochi metri quadrati di
cemento – gentilmente offerti a prezzi esorbitanti dagli imperi dell’immobile –
e trascorre gran parte del suo tempo in ambienti artificiali e malsani come le
fabbriche, i magazzini, le scuole, gli ospedali, gli ipermercati. Anche il
"tempo libero" è costretto in vicoli ciechi: dal bar al parco giochi,
dal viaggio organizzato nel villaggio-vacanze alla discoteca, nulla esula dallo
strapotere del denaro.

Eppure il rapporto
tra gli uomini e l’ambiente in cui vivono è profondamente dialettico, nel senso
che come ogni uomo plasma lo spazio adattandolo alle sue esigenze, allo stesso
modo quello spazio si rivelerà portatore di possibilità, di immaginazione, di
incontri o di solitudini.

Ed è soprattutto
su questa intuizione che si basa l’apparato di controllo del territorio o lo
studio scientifico degli spazi che va sotto il nome di urbanistica. Nata
con la città contemporanea, dall’analisi dei problemi sociali che metropoli
come la Parigi del XIX secolo ponevano in evidenza, l’urbanistica si è
sviluppata unicamente come strumento per arginare e reprimere tutte le spinte
individuali e collettive alla creazione di nuovi spazi e quindi di nuove
possibilità.

Se non fosse
abbastanza chiaro basterà portare come esempio la prima pianificazione di
Parigi, operata da Hausmann all’indomani delle rivolte generalizzate che
culminarono nell’esperienza della Comune; per evitare la costruzione di
barricate, permettendo al contempo un più agile intervento della gendarmeria a
cavallo, vennero spianati interi quartieri, dove crogioli di vicoli e stradine
facilitavano agli insorti l’allontanamento della polizia o la fuga. Al loro
posto i boulevards, ampi viali a raggiera chiaramente indifendibili.
Contemporaneamente Hausmann ideò il prototipo del moderno centro connnerciale
edificando le famose gallerie coperte – i passages – sotto la cui volta
trovavano spazio

negozi, spacci,
atelier e caffè dove la borghesia potesse dare sfogo alla sua adorazione della
merce.

Per stessa
ammissione di architetti e pianificatori, una delle leggi universali
dell’urbanistica sottolinea come l’importanza di un’abitazione non risieda tanto
nelle sue caratteristiche, quanto nell’effetto che ha sulla vita
delle persone. Una dichiarazione di intenti che si è fatta tristemente pratica
con la divisione delle città in ghetti, quartieri satellite, quartieri
residenziali e commerciali, zone industriali e periferie degradate. Quale
effetto può avere un ghetto di Los Angeles, costantemente controllato con
telecamere e posti di blocco, rastrellamenti e coprifuoco, sull’immaginazione e
sui sogni di un giovane afroamericano? Quale l’effetto di un villaggio blindato
e circondato dal filo spinato su un palestinese? Quale l’effetto di Porto
Marghera e dei grigi quartieri dai palazzi a dieci piani su un operaio? E quante
vite si sono perse su una tangenziale, quante sono affogate nelle luci
baluginanti di un ipermercato?

Viviamo in città
fortezze, brutalmente divise in cellule fortificate della società benestante e
luoghi di terrore dove la polizia combatte i poverì criminalizzati. La seconda
guerra civile, cominciata nelle lunghe estati calde degli anni Sessanta, è
stata istituzionalizzata nella struttura dello spazio urbano.


Mike
Davis, Città di quarzo. Indagando sul futuro a Los Angeles

A questo punto è
abbastanza chiaro quanto l’urbanistica sia innanzitutto al servizio di un potere
che ci vuole rassegnati ad uno spazio gestito da altri, dentro il quale non
possiamo che agire a senso unico – produrre, consumare e obbedire – e sul quale
non abbiamo voce in capitolo.

Eppure quello
spazio si può modificare. Le strade e le piazze svuotate dagli uomini per fare
spazio alle automobili, alla circolazione insensata di automi e di cose, i
palazzi e i cortili dove un’amanita indifferente e anonima si passa accanto,
tornano ad essere punto d’incontro nel corso delle rivolte; la pratica dell’autorganizzazione
viaggia assieme alla riscoperta di luoghi collettivi dove discutere e
confrontarsi reciprocamente, dove sperimentare nuove forme di scambio e di
solidarietà, dove pensare l’utopia, il non-luogo ancora da inventare. La fame e
l’esasperazione delle condizioni materiali, spesso scintille di rivolta
generalizzata, o persino le catastrofi naturali che sospendono temporaneamente
il normale corso dei tempo, possono essere la premessa ad un nuovo modo di
affrontare la quotidianità, un imprevisto necessario che dà la misura agli
individui delle loro possibilità di far fronte ai problemi e ai conflitti della
comunità; e questo perché la comunità in quelle condizioni straordinarie si
ricrea, e dalle ceneri di una massa irresponsabile delle sue azioni nasce la
consapevolezza di unirsi e di organizzarsi nella pratica per far fronte
all’evento eccezionale.

Da qui può
nascere spontanea la domanda se sia possibile vivere gli attuali spazi urbani in
una prospettiva di liberazione a lungo termine. Credo che la città
contemporanea non sia solamente una scenografia sulla quale si può improvvisare
una nuova scena, tanto più che la città nella sua essenza non esprime
semplicemente uno spazio, ma si porta immediatamente appresso anche il rapporto
tra gli uomini e la natura, tra gli uomini e un’organizzazione economica, tra
gli uomini, la tecnica e la tecnologia.

La città moderna
non è neutrale.

Ma le risposte
possibili alla necessità di vivere autenticamente l’ambiente che ci circonda
trovano luogo e sincerità solo nelle esperienze di rottura con l’abitudine a
subire le decisioni che ci riguardano da vicino.

D’altra parte
tendiamo a dare per scontata l’organizzazione attuale delle idee, del tempo,
delle attività e dello spazio, quasi fossero il risultato fatale di una storia
di cui siamo passivi spettatori. Per questo, principalmente, non osiamo.

Non osiamo porci
in modo critico e creativo al mondo.

Restando nel tema
del rapporto tra gli uomini e l’ambiente è forse buono ricordare che la
progenitrice delle metropoli attuali, la città-stato europea dell’epoca moderna
non fu assolutamente un beneficio per molti.

Nata
contemporaneamente alla fondazione delle prime banche – e quindi
sull’istituzione del neonato sistema di credito -, al potere acquisito dalla
nuova figura del mercante, all’accentramento delle ricchezze nei granai e nei
magazzini municipali e, non ultimo, al carcere, la città-stato soppiantava di
fatto l’organizzazione economica più orizzontale delle cittadelle medioevali e
dei villaggi rurali. Di sicuro questo imporsi dell’economia di mercato non l’u
un cambiamento accolto con tranquillità e rassegnazione da buona parte del
popolo, tanto più che i monopoli della produzione e del commercio avevano come
naturale conseguenza lo smantellamento delle corporazioni dei mestieri
artigianali e il progressivo espandersi degli interessi economici nelle
campagne, privatizzando e recintando le terre.

L’esproprio delle
terre comuni fu duramente contestato nell’arco di due, tre secoli (dal XVII al
XIX), dando adito a numerose rivolte contadine in tutta Europa. La proprietà
privata, inizialmente, veniva vista come un furto non solo dai vagabondi, ma
anche da quegli agricoltori saltuari che la terra la coltivavano solo quando ne
avevano personale bisogno. Fu proprio questa genia non facile alle
domesticazioni che allora si propose di riprendersi le terre sottratte dai
ricchi, e spesso vi riuscì, facendo del rifiuto della proprietà la propria
bandiera e ingaggiando una vera e propria guerra con i nuovi latifondisti a
colpi di occupazioni abusive. Non di rado le loro vittorie avevano il sapore
della beffa, come quando, nell’Inghilterra del XIX secolo, sfruttando un’antica
legge inglese che lasciava l’usufrutto di un’abitazione a chiunque l’avesse
costruita tra l’alba e il tramonto, intere comunità rurali si misero a
costruire case in giornata dando la possibilità a molti nullatenenti di
possedere quantomeno un riparo.

Non furono solo i
poveri e i diseredati a comprendere la catastrofe imminente che l’economia di
mercato stava operando sul territorio europeo, tant’è vero che le più famose
riflessioni sull’utopia nacquero in quella stessa epoca.

La facoltà di
immaginare città libere, quasi templi di un’umanità redenta dal peccato del
potere, aumenta – non a caso – in un momento storico che mette sotto gli occhi
di tutti la distruzione di quel substrato solidale e di mutuo soccorso che
esisteva e resisteva nelle piccole comunità agricole, nei villaggi e nelle
corporazioni. L’idea che tutto questo andasse scomparendo ha rinvigorito e
radicalizzato il sogno di una "città ideale", ad esempio in
Campanella e in Thomas Moore.

La confisca delle
terre comuni, d’altro canto, creò una nuova classe di poveri, che, spogliati di
tutte le possibilità di sopravvivere nelle campagne, si riversarono nelle
città. Tuttavia le prime periferie industriali, come quella londinese, vennero
vissute da questi "profughi" mantenendo quei rapporti di mutualismo a
cui erano abituati nei villaggi, per cui coloro che lavoravano nelle fabbriche
potevano contare sui prodotti della terra che altri coltivavano, dov’era
possibile, in piccoli appezzamenti di terra all’estremo limite della città;
mentre, allo stesso modo, altri si arrangiavano lavorando la pietra in piccole
cave abusive e scambiando pietre e materiali da costruzione con gli abitanti
già urbanizzati del centro.

Da questi pochi
esempi possiamo dedurre quanto sia stato difficile piegare moltissimi uomini
alle esigenze della civilizzazione – in primis la sottomissione degli individui
allo spazio urbano e alle sue regole – già nella stessa "culla"
(l’Europa) della civiltà industriale.

Anzi, possiamo
tranquillamente concludere che sin dalla nascita della città moderna è sempre
esistita una storia sommersa dell’urbanizzazione che ha fatto dell’abusivismo
edilizio e dell’occupazione di terre il metodo più efficace per contrastare la
continua conquista e privatizzazione degli spazi urbani e rurali. Dal
proletariato rurale inglobato a forza nella città arriviamo agli occupanti di
case delle città contemporanee e agli occupanti di terre in quei paesi del
terzo mondo sottoposti alla predazione continua di risorse ad opera del nuovo
colonialismo economico.

ORA COME ALLORA,
QUI COME ALTROVE, è di primaria importanza continuare a praticare l’utopia,
liberando spazi sociali e individuali dalla logica mercantile attraverso
l’occupazione abusiva, rifiutando attivamente la miseria dei luoghi che ci
riserva il dominio capitalista. Occupare luoghi collettivi non nel senso di
un’alternativa sociale in miniatura – il capitale non ammette riserve al suo
interno -, ma nel senso di allargare le occasioni pratiche di comunicazione
diretta e di lotta. Al di fuori del conflitto, ogni "alternativa"
viene recuperata dal mercato – che si tratti di tecnologie dolci o di prodotti
biologici – e dalle istituzioni politiche. In quanti casi i "servizi
pubblici" forniti dallo Stato sono stati il rovesciamento di quelli che la
classe operaia aveva organizzato da sé, sulla base del decentramento e del
mutuo soccorso? Questo significa che solo nel conflitto l’autorganizzazione
mantiene il suo carattere rivoluzionario. Ma significa anche che durante le
rivolte si esprime una forte tendenza autorganizzativa; mentre attaccano lo
Stato nelle sue funzioni repressive, i rivoltosi tendono a renderlo inutile
nelle sue funzioni "sociali". E questo li porta a modificare
radicalmente gli spazi sociali. Anche in tal senso, la storia è ben lungi
dall’essere già scritta.

Si può amare una
città, si possono riconoscere le sue case e le sue strade nelle proprie più
remote o più care memorie; ma solo nell’ora della rivolta la città è sentita
veramente come la propria città: propria, poiché dell’io e al tempo stesso
degli "altri"; … ci si appropria di una città fuggendo o avanzando
nell’alternarsi delle cariche, molto più che giocando da bambini nelle sue
strade… nell’ora della rivolta non si è più soli in città.

Furio
Jesi, Spartakus. Simbologia della rivolta

Un ultimo accenno
vorrei riservarlo alla fragilità intrinseca della metropoli contemporanea.

La sottomissione
della natura, il tentativo di addomesticarla totalmente alle leggi della tecnica
e (lei profitto ha reso le zone urbane spaventosamente esposte alle
"calamità naturali". Pavimentando i fiumi questi prima o poi
straripano, disboscando, forando e cementando selvaggiamente le montagne queste
prima o poi franano, inquinando l’atmosfera e il mare questi sono sempre più
sensibili ai basculamenti climatici, con le conseguenze tragiche provocate dai
cicloni, dalle alluvioni e dello scioglimento dei ghiacci elle ben conosciamo.

Una metropoli come
Los Angeles, ad esempio, dove interi quartieri vengono costruiti, riveduti e
distrutti in pochi mesi a seconda delle esigenze del capitale, ha messo già
sufficientemente in evidenza questa sua estrema dipendenza dalle catastrofi
provocate dal clima e dall’esasperato sfruttamento delle risorse e delle
possibilità di un territorio: come si può vivere "al sicuro" in una
casa costruita in economia di materiali, in una zona paludosa e sismica?

La sicurezza
stessa che ci promette il mercato, oltre ad essere pagata al prezzo della
libertà, ha dimostrato troppe volte di essere fittizia. Cosa ci tiene, ancora,
dal buttarci a capofitto nella pratica dell’utopia? Se solo una rivoluzione, di
rapporti e di luoghi, ci può salvare, chi o cosa stiamo aspettando?

 

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