LO SCIOPERO
Ecco
dunque a che punto sono arrivate le potenze che decidono del nostro destino. Il
che è già di per sé abbastanza terrificante. Ma a che punto siamo noi? Noi, i
milioni di morituri – noi che domani o dopodomani potremmo diventare le vittime
– siamo forse migliori di quelle potenze e degli uomini che le dirigono?
Non
direi. Cosa intendo? Che noi – abituati come siamo a eseguire i nostri lavori
nelle fabbriche, nei laboratori, nelle officine e negli uffici – abbiamo
disimparato a interessarci dell’effetto
finale delle cose di cui siamo col-laboratori e co-autori.
Ora voi
obietterete che né voi né io abbiamo la disgrazia personale di essere occupati
in fabbriche in cui vengono prodotte testate nucleari o simili mezzi di
distruzione. Giusto. Ma questo è un merito? O non piuttosto un caso? Un caso che
non garantisce nulla? Infatti, non conta dove e a cosa col-laboriamo: la
mentalità lavorativa con cui lo facciamo è così disinteressata all’effetto
finale da noi con-causato, che senz’altro noi col-laboreremmo anche alla
produzione di apparecchi di distruzione. E ci sono anche centinaia di migliaia
di nostri simili che lo fanno per davvero, privi di riflessione e di scrupoli
come se si trattasse di produrre lamette da barba o pneumatici d’auto; centinaia
di migliaia che non si immaginano neppure minimamente quello che fanno; e che,
talvolta, si lasciano persino persuadere che prestano questo loro contributo
nell’interesse del "mondo libero", o addirittura della libertà del mondo. E
questo non mi sembra davvero molto onorevole! Se ricordo con quanto coraggio i
nostri nonni socialisti cercavano di fare un’analisi delle illibertà che
rovinavano la loro esistenza e di combatterne le radici, mi sembra addirittura
che avremmo tutti i motivi per vergognarci di questi nostri nonni. Nulla è più
falso che sostenere che per noi, gente d’oggi, non esistono più compiti di
resistenza analoghi a quelli; no, questa è una vera e propria scappatoia, la
scappatoia di chi non prende più neppure in considerazione la possibilità di
criticare qualcosa, se questa cosa si chiama "lavoro" e viene retribuita come
"lavoro"; di chi trova, al contrario, naturale farsi complice di tutto quello
che si chiama "lavoro" ed è retribuito come tale. Noi non avremmo più alcun
compito di resistenza? Vero è il contrario. I nostri compiti sono più grandi e
urgenti di quanti non siano stati quelli dei nostri nonni. Cosa intendo?
Che noi
non siamo solo esclusi dalla proprietà dei nostri mezzi di produzione – come ritenevano i
nostri nonni – ma anche della proprietà dei nostri obiettivi di produzione; perché noi,
come lavoratori, siamo spesso ugualmente derubati della libertà di co-gestire le
finalità dei prodotti della cui produzione siamo partecipi – motivazioni, scelte
e uso; addirittura, spesso, derubati della libertà di sapere o anche solo di
voler sapere qualcosa di questa condizione. E se questa non è privazione di
libertà, allora io non so quale contenuto dare a questa parola. Certo, cent’anni
fa, il problema era lo stesso: anche i nostri nonni non avevano potuto
co-gestire quanto essi avevano co-prodotto. Ma tale privazione di libertà non
era decisiva, e ciò perché il numero dei prodotti la cui utilità e validità
veniva posta in dubbio era molto piccolo in confronto a oggi. Oggi, al
contrario, vale il fatto che la fabbricazione di prodotti ostili all’uomo è il
perno di molte economie nazionali. E’ uno scandalo che noi lavoratori non
reagiamo a questo scandalo, che esso ci resti indifferente. E’ uno scandalo non
solo perché con questa indifferenza noi rinunciamo alla nostra stessa libertà,
ma anche perché con essa mettiamo in gioco la sopravvivenza dell’umanità.
Ascoltate
il caso che segue, un caso estremo: in una fabbrica A erano stati prodotti
alcuni pezzi di missili atomici. Un giorno risultò che i modelli di questi pezzi
erano invecchiati; che era divenuto superfluo produrne altri. Nel frattempo le
armi atomiche si erano "migliorate"; e la produzione dei pezzi necessari per i
nuovi modelli venne ordinata a un altro industriale B, più adatto allo scopo.
Come reagirono le maestranze di A? Respirarono forse di sollievo? Furono felici
per la prospettiva d’essere liberate dalla loro col-laborazione alla fine
universale?
Nulla di
tutto ciò. Al contrario esse entrarono in
sciopero perché temevano che la ristrutturazione della loro impresa potesse
modificare anche i loro guadagni. Sia ben chiaro: sciopero perché la chance di non avere più
il permesso di contribuire alla morte universale minacciava la loro
scomparsa. Come giudicherebbero un tale motivo di sciopero quegli uomini
che, nel secolo scorso, avevano fatto dello sciopero un’arma tattica per la
propria liberazione?
Noi
nipoti crediamo di aver conquistato con il motorino e gli apparecchi della
televisione anche la nostra libertà, e addirittura una libertà molto più ampia
di quella che avevano sperato e preteso i nostri nonni. Ma il fatto stesso che
noi crediamo una cosa come questa, che ci siamo lasciati persuadere da una cosa
come questa, è di per sé la prova che abbiamo rinunciato alla nostra libertà.
Infatti, veramente liberi noi siamo
solo se co-gestiamo ciò che produciamo e ciò che (grazie ai prodotti che abbiamo
co-prodotto) sarà del mondo: solo se assumiamo la responsabilità non
esclusivamente per quello che facciamo o combiniamo nella nostra sfera privata,
ma se comprendiamo che anche il nostro
lavorare è un "fare" e il nostro produrre è un "combinare"; se dunque assumiamo
la responsabilità per quello che facciamo. Chi sostiene che la propria
rinuncia a co-decidere su cose come queste è solo "neutralità" si auto-inganna;
chi partecipa alla produzione degli strumenti di distruzione senza prendere
posizione prende invece posizione, ha già preso posizione, contribuendo
attivamente alla distruzione. In breve: chi non dice no produce, così facendo, un
sì.
E
altrettanto logorata quanto le parole d’ordine della libertà appare già, a noi
nipoti, quell’idea che era stata così importante per i nostri nonni: l’idea della solidarietà internazionale.
Anche in tal caso, del tutto ingiustamente. Infatti, oggi soltanto quest’idea
trova il suo vero e attualissimo significato, dato che soltanto oggi abbiamo
raggiunto il traguardo, così meravigliosamente avanzato, che qualunque abitante
della nostra terra può essere colpito a morte da qualsiasi punto di questa
stessa terra.
LA BOMBA A OROLOGERIA
La produzione capitalistica è costretta – come
tutti ben sanno – a liberarsi dei propri prodotti. Deve avere cura ch’essi
vengano venduti e consumati: in breve, liquidati. La liquidazione – cioè la
rovina dei propri prodotti – è lo scopo di questa produzione. Se tale scopo non
viene raggiunto, se si accumula una gran quantità di prodotti non liquidati, la
continuazione della produzione, e con essa il profitto, sono in pericolo. Per
tal motivo, il compito di ogni industria è di assicurare e di promuovere – se
non addirittura di produrre – la richiesta e la "situazione di consumo" per i
propri prodotti. Ciò vale in linea generale – dunque anche per gli apparecchi di
distruzione.
Ora, qual
è la "situazione di consumo" per ciò che riguarda le armi?
La
risposta è: la guerra.
Per
vedere fino in fondo questa radice del pericolo, non possiamo fare a meno di
chiarirci le idee su ciò che è fondamentale nella produzione capitalistica. Il
che oggi può sembrare una cosa antiquata, ma solo a quelli che hanno deciso di
considerare il mondo capitalistico come un tabù e di non sottoporlo più alla
loro critica. In breve: a quelli che mascherano da modernismo la loro
vigliaccheria e il loro conformismo. Non vergogniamoci. Siamo antiquati.
Parliamo di capitalismo.
Per
quanto assurdo sia continuare a parlare di "progressi nella produzione delle
armi" – dato che le armi esistenti sono già di gran lunga sufficienti per
annientare l’intero genere umano – l’industria della distruzione non potrà mai
ammettere una tale assurdità. Visto che non esiste altra industria, tranne
quella della distruzione, il cui essere o non essere dipenda così totalmente
dalla sopravvivenza della fede nel progresso, io non mi meraviglierei affatto se
questa fede trovasse presso di lei il suo asilo ultimo e difeso fino
all’estremo. Per esempio, in quelle fabbriche di opinioni che le sono associate.
E possiamo tranquillamente immaginare che, giorni ancora dopo la catastrofe
finale, la voce rimbombante di un altoparlante continuerà ad annunziare al
deserto ammutolito e senza futuro armi migliori, "più grandi" e "più pulite", in
breve, armi più progredite per domani; e che questo annuncio, non più percepito
da nessuno, sarà l’epitaffio di noi tutti.
(brani
tratti da Günther Anders, I morti.
Discorso sulle tre guerre mondiali, 1964)