commento di alcune affermazioni del Prof. Giulio Giorello, pubblicate in
un articolo del quotidiano La Repubblica del 2 novembre 2005 in merito
all’occupazione in corso alla Statale di Milano. http://italy.indymedia.org/news/2005/11/911784.php.
Nella consapevolezza delle distorsioni operate sistematicamente dalla
stampa, è possibile che esse vengano smentite. Resta il fatto che gli
argomenti sono degni di attenzione in quanto tali.
anzitutto degno di nota il monito contro l’infantilismo e l’estremismo,
“malattia infantile” si dice, citando “il buon vecchio Lenin”.
A
prescindere dal fatto che la citazione è monca, in quanto Lenin parlava
della “malattia infantile del comunismo” (il che palesa di per sé quanto
fuori luogo sia tale citazione in una discussione sull’attuale occupazione
dell’Università), e a prescindere dal fatto che Lenin non fu proprio un
moderato (posto che parlava idealmente con un mitra in mano, oltre ad
essere il sostanziale mandante e responsabile politico in prima persona
dei massacri non solo dei Machnovisti, ma anche dei bolscevichi di
Kronstadt), è la nozione stessa di estremismo che non ha valore in
assoluto. Si tratta infatti di un concetto vago e soggetto al mutare dei
tempi. Mazzini, a suo tempo, fu un estremista. Oggi, sarebbe quantomeno
Presidente della Repubblica Italiana.
Ma forse, per definire la
nozione di estremismo, è illuminante il suo accoppiamento con quella di
infantilismo. L’infante – come in un certo modo il barbaro – è colui che
non ha parola e che ovviamente, non avendola, non può in alcun modo
chiederla. Conseguentemente, egli è colui che compie un gesto per
prendersela. Si tratta del gesto di chi giunge ad esprimersi con un atto
di rottura, di rottura con se stesso (cioè col suo stato di esclusione ed
inferiorità) e con il mondo circostante (cioè con i codici ai quali non ha
accesso). Da questo punto di vista i diseredati, gli oppressi, gli
esclusi, i dannati della terra sono tutti infantili – e, conseguentemente,
“estremisti” nelle loro azioni spontanee, vale a dire quando non sono
imbrigliati nei giochi della rappresentanza e del dialogo. Perché è noto
il meccanismo fittizio del dialogo: la richiesta di delegati e
rappresentanti che, una volta ritrovatisi in contesti discutivi che non
conoscono o, se preferiamo, in giochi linguistici di cui non padroneggiano
le regole verranno rapidamente infinocchiati – a meno che non ci si affidi
ai famigerati professionisti della rappresentanza, i quali notoriamente
conoscono bene il linguaggio del Potere, perché di esso sono un elemento
fondamentale. Non a caso Giolitti sosteneva che per reprimere le masse i
sindacalisti erano più utili dell’esercito.
Certo, gli studenti
della Statale non sono proprio i dannati della terra. Ma ciononostante
essi sono in grado di percepire sulla propria pelle una situazione cronica
di “vita offesa”, di desideri strozzati, di vitalità schiacciata. Se
nell’attuale esperienza dell’occupazione della Statale non riusciamo a
vedere la vita che si ribella, che si esprime, che si amplifica, significa
che ci sfugge come in questo mondo siamo sempre più costretti a
sopravvivere a noi stessi o – il che è lo stesso – a crescere già vecchi.
La seconda notazione che ci preme fare riguarda il monito contro
ciò che rischia di diventare fine a se stesso. Ci dispiace, ma non
riusciamo a condividere questo principio utilitaristico. Non è solo
l’utile ad avere valore. Tale equazione vale solo per una logica di
mercato, per il meccanismo delle merci, non per la dinamica
dell’esperienza. Ciò non significa che valga solo ciò che è fine a se
stesso, cioè che in se stesso si consuma e si esaurisce. Walter Benjamin
ha utilizzato la nozione di mezzo puro. Un mezzo puro è qualcosa che ha
senso nel suo semplice accadere (ed in ciò è molto prossimo alla nozione
di ciò che è fine a se stesso), per quanto il suo accadere sia sempre
anche un transito, un transito ad una maggiore potenza di vivere, un
segreto appuntamento con eventi a venire. Spinozianamente, intendiamo
questo transito come sinonimo di letizia.
Nonostante la tetraggine
esistenziale in cui la normalità quotidiana tenta di soffocarci, riusciamo
ancora ad intravedere momenti di pienezza vitale proprio nelle esperienze
che valgono per il loro semplice accadere transitivo: la contemplazione
estetica del bello (invero esperienza difficile in mondo – e in una città
– come quello che ci circonda) è un mezzo puro; la maggior parte delle
nostre pratiche sessuali, che (con buona pace di Sua Santità) non sono
finalizzate alla procreazione, si compiono nel puro godimento del piacere
sessuale, il quale è un mezzo puro; la pratica dell’amicizia è un mezzo
puro, così come quella della filosofia e di buona parte degli studi
umanistici.
La lotta politica, quando si configura come pratica
spontanea e autorganizzata, può avere la stessa valenza: in essa si
gioisce e si aumenta la propria potenza di pensare e agire. In ciò è
ancora possibile trovare senso e pienezza di vita, in una transizione a
una maggiore gioia d’esistere: un mezzo puro.
p.s.: gli
estensori di questa lettera hanno provveduto ad inviarla al Prof. Giorello
in versione firmata