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Note critiche sull’assemblea generale / Occupazione dell’Università di via Festa del Perdono Milano 2005

I dogmi utilitaristici vorrebbero che il valore di una lotta si
misuri in termini di efficacia, di raggiungimento di determinati
obiettivi. La lotta viene così ridotta ad una dimensione meramente
strumentale, ad un mezzo in vista di un fine. Ciò può essere corretto –
sebbene non in assoluto, ma solo in parte e in determinate circostanze.
Per altri versi, si può però dire che il reale valore di una lotta risieda
nel tipo di soggettività che in essa saprà nascere. Lentamente, lungo
percorsi dell’incerto destino, attraverso difficoltà e contraddizioni, da
ogni lotta può sbocciare una differente coscienza politica, inedite
pratiche individuali, in breve nuove forme di vita. In una lotta, è
prioritariamente in gioco ciò che ogni individualità sarà per se stessa e,
contemporaneamente, in relazione agli altri.

Dal punto di vista
della formazione delle soggettività, l’attuale decorso dell’occupazione
dell’Università Statale di Milano mette in luce linee abbastanza chiare,
sebbene non consapevoli a tutti.

Da un lato, c’è la gioia vissuta
di chi finalmente sente un’aria di libertà circolare tra l’impersonalità
dei corridori accademici, di chi percepisce l’eccezionalità di rapporti
umani inediti tra individui che erano soliti ignorarsi vicendevolmente, di
chi vive sul proprio corpo la bellezza dell’uscita dalla grigia normalità.
E su ciò non occorre dilungarsi: è l’appassionata vitalità che coinvolge
tutti in una maggiore gioia di vivere condivisa.

Dall’altro lato,
assistiamo alla formazione di uno schema – quello dell’assemblea generale
–che annulla la specificità delle differenze individuali in nome di una
fittizia collegialità, controllata in realtà (lo vogliano o meno) da
piccoli leader in formazione. Ciò accade anzitutto per motivazioni
strutturali: organizzazione dello spazio, disposizione dei corpi, utilizzo
dei microfoni, ecc. sono fattori che inducono automaticamente determinati
meccanismi della soggettività e dell’assoggettamento. A prescindere dalla
volontà dei singoli, questa disposizione non permette l’orizzontalità dei
rapporti, la pacata discussione, il ragionamento condiviso. Certo: ognuno
è libero di prendere il microfono e di dire la sua, ma questa libertà è
evidentemente un’apparenza. Egli appare e scompare di fronte alla platea,
e tutto si riduce al gioco degli applausi e/o delle ovazioni, dopo di che
tutto resta come prima, cioè come viene deciso e condotto dall’al di là
della cattedra. Ma dovevamo occupare l’Università per replicare la
medesima struttura, la medesima partizione sancita da una cattedra?

In occasione della votazione del primo comunicato dell’Assemblea,
qualcuno faceva giustamente notare che era una richiesta assurda. Anche
accettando il peraltro criticabile criterio della maggioranza, la
votazione (in quanto espressione di una scelta e di una volontà) richiede
la possibilità di ragionare, discutere, criticare: il che è evidentemente
escluso da quel contesto assembleare. Detto in maniera più caustica:
escludendo la possibilità di ragionare in vista di una scelta, questa
struttura esclude il reale esercizio della libertà. E chi nega ciò o è
cieco o è in cattiva fede. E capita che ciò sfugga anche agli stessi
ignari relatori che, proponendo qualcosa, la danno perlopiù come già
approvata. E non si tratta di distrazioni, bensì del portato strutturale
di una certa disposizione pratica. Quanto si sta profilando è in realtà
una dinamica dell’assoggettamento, la formazione di soggettività che
vengono in qualche modo guidate e sottratte a quella libertà che
l’autorganizzazione dovrebbe in realtà donarci.

Questa non è una
critica gratuita, ma un invito ad una seria riflessione.

soggettività in formazione

p.s.: il presente testo
verrà presentato e discusso alla stessa assemblea di domani, con alcune
proposte pratiche per ripensare la forma dell’autorganizzazione della
lotta

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