Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo
(Eugenio Montale)
riduce ad una protesta (finora sostanzialmente inoffensiva consumandosi in
un lungo weekend di vacanza) contro il ddl Moratti (peraltro già
approvato), essa è priva di senso.
Che senso avrebbe combattere
contro la precarizzazione del racket dei privilegi, posto che solo ad una
bassissima percentuale di studenti si apriranno le strade della ricerca?
Tutti sanno infatti che pochissimi vi hanno accesso, che l’immissione
nella ricerca è spesso legata a rapporti di parentela o a cordate di
potere, che senza una connivente partecipazione alla spartizione di potere
operata dai baroni universitari è difficile anche solo avere un posto per
un dottorato. Una lotta degli studenti in difesa di questo stato delle
cose sarebbe come un’ipotetica convergenza d’interessi del Terzo Stato con
lo statuto dei ceti privilegiati: evidentemente, un non-senso (per quanto
di simili episodi non sia priva la storia). Sguardi, affetti e commenti
che circolano nei corridoi manifestano questa percezione diffusa ed
esprimono un’esigenza per quel senso per ora assente. Non avranno mica
ragione i giornalisti?
Bene: se il senso non è già dato, potrà
essere creato.
È dunque piacevole che oggi risuoni la buona
novella: il senso non esiste. Esso deve essere creato (Gilles Deleuze)
La creazione di senso può avvenire all’interno di un’esperienza di
spazi e tempi liberati. E con ciò intendiamo il fatto elementare che, se
quest’occupazione si doterà di un significato, quest’ultimo avrà anzitutto
un carattere immanente: sarà cioè irriducibile a forme di rivendicazione
più o meno efficaci. Già ci possiamo immaginare i funzionari
dell’apparato, coadiuvati dalla canea giornalistica, presentarsi e
chiedere: “bene, che cosa chiedete?… Sì, certo se ne può discutere,
mandateci dei delegati”… E tanti saluti, la festa è finita! Ma non prima
di aver eseguito l’ultimo compitino: l’approfondimento sul ddl Moratti…
No! Il senso dell’occupazione risiede anzitutto nel semplice gesto
del prendere. A dispetto della parola, l’occupazione è una liberazione,
anzitutto, di una porzione di spazio-tempo della nostra esistenza e della
“nostra” città: una liberazione che risiede nel prendere, non nel
chiedere; nell’autorganizzazione, non nella delega e nella rivendicazione.
E questo gesto è sintomo di un’eccedenza vitale, di un’esuberanza dei
desideri, di un’esigenza tracotante che agonizza quotidianamente nei
percorsi preformati dell’esistente. Costantemente intimorita per un futuro
incerto, quotidianamente avvelenata nei polmoni come nelle menti,
sistematicamente indotta ad un’esistenza sempre più privata (privata di
diritti, di possibilità, di gioia, ma anche privata da forme di
socializzazione orizzontali e non prefabbricate), è questa vita offesa a
poter esplodere: nella gioia e nella danza, nello studio e nella lotta,
una vita che vuole solo riprendere se stessa. Non importa sapere che cosa
si è e che cosa si vuole; sufficiente è sapere ciò che non siamo, ciò che
non vogliamo.
E proprio per essere manifestazione di quest’eccedenza,
il senso dell’occupazione, sebbene indifferibile, potrà essere fedele a se
stesso solo se saprà non ridursi a qualsivoglia schema identitario,
foss’anche quello dello studente, foss’anche quello dell’universitario.
…sotto la forma-studente sonnecchia sempre una forma-di-vita
pronta a ribellarsi contro il suo annichilimento…facciamo in modo che
essa si risvegli…
singolarità qualunque