nelle lotte sociali ci sono delle rimozioni. Episodi e situazioni
scomodi, pericolosi, ingombranti, che si preferisce scordare.
Un caso di rimozione è quello che riguarda i sabotaggi avvenuti in Val
Susa tra il 1996 e il 1997. Si preferisce ricordare, prima delle
battaglie del 2005, solo le conferenze, i comitati istituzionali, le
manifestazioni. Ci sono stati due ragazzi morti, sì, ma la storia era
torbida, servizi segreti, traffici di armi…
nome ben preciso: sabotaggio. Effetivamente, accettarlo in casa è
difficile. Si rischia di perdere il consenso e di rovinare il lavoro
fatto. Si rischia di incrinare il fronte del NO – e fermare il TAV è un
obiettivo che sta a cuore a tutti, giustamente.
È come quando si ricorda il ’68. Qualche mese di gioia, movimento,
assemblee universitarie… poi niente: dopo c’è il “terrorismo”. Così
scompare un decennio di lotte dure, di repressione brutale, di
esperienze importantissime.
Ormai ci sono i dirigenti della CGIL che si vantano di aver partecipato
ad anni di lotte sindacali senza aver fatto mai nulla di illegale.
Proprio così. Come se la storia del movimento operaio non fosse
costellata di episodi infiniti di illegalià di massa (blocchi,
picchetti, cortei spontanei, scontri con la polizia, ecc.). Niente male
come colpo di spugna. Senza l’illegalià operaia – risposta al fatto che
le leggi formalizzano soltanto i rapporti di forza all’interno della
società – ci sarebbe ancora la giornata lavorativa di 12 ore!
Ma, per tornare alla Val Susa, cos’è che spaventa nel sabotaggio? Non
certo la sua illegalità: i blocchi, le barricate, la liberazione di
Venaus sono state tutte pratiche illegali. E nemmeno la sua natura
notturna: diversi blocchi NO TAV sono avvenuti nottetempo. La violenza?
Non è certo meno “violento” danneggaire un cantiere in migliaia di
persone che distruggere una trivella in pochi. Ciò che spaventa è
altro. I sabotaggi non sono gesti pubblici. Non sono legittimi – ecco
la parola –, in quanto non possono contare su di un visibile e vasto
consenso.
Lottare in pochi è meno efficace che lottare in molti. Quindi…
È dunque una questione di numero? Un’azione giusta se compiuta da
centinaia o migliaia di persone diventa forse sbagliata se realizzata
da uno o pochi individui? Le decisioni collettive sono forse una
garanzia di per sé? (Tanti in Val Susa hanno votato, alle ultime
elezioni, i partiti di sinistra che facevano finta di constrastare il
TAV. Una perniciosa illusione collettiva, ben presto scalzata
dall’espereinza diretta e dalla lotta).
A parte che la storia degli oppressi è ricca di esempi di un uso
collettivo del sabotaggio (nella lotta partigiana, nelle pratiche di
autorganizzazione in fabbrica e nei quartieri), si può far notare che
il passaggio dai “pochi” ai “molti” non si basa su alcuna certezza
matematica.
Nel simbolico cimitero che sorgeva sul prato del primo presidio di
Venaus c’era una croce che riportava questa scritta: «Qui riposa in
pace la coscienza di chi diceva “tanto alla fine lo faranno”». Cosa
vuol dire? Vuol dire che le lotte non nascono belle e compatte.Vuol
dire che la convinzione di farcela opera dei salti imprevedibili. I
primi cantieri del TAV sono stati occupati in 100 persone. L’ultimo in
30.000.
Ancora una volta: solo questione di numeri?
Si può condividere o meno la pratica del sabotaggio, ma il suo rifiuto
a priori non riponde a criteri etici, come spesso si pretende, bensì di
calcolo politico. Attaccare in pochi una trivella che porterebbe
devastazione ambientale e miseria sociale è altrettanto giusto che
attaccarla in migliaia. Dal punto di vista pratico si può solo dire che
il sabotaggio in piccoli gruppi è più rischioso per chi lo compie e
spesso più facile da criminalizzare dal sistema che lo subisce. Ma,
come si può notare, non si tratta di giudizi morali. La legittimità
etica del sabotaggio dovrebbe essere sostenuta anche da chi ne critica
l’utilità pratica. (Senza contare che è sempre meglio difendere certe
possibilità di lotta, anche quando non vi si fa ricorso). Invece si
preferiscono per lo più la condanna e la mistificazione (della serie:
sono sempre e comunque «azioni contro il movimento»).
La tendenza a vedere complotti ovunque è piuttosto generalizzata. La
realtà sembra sempre prodiga nel suggerire le più mirabolanti “strane
coincidenze” a chi ne va in cerca come un cane da tartufi. Per gli
specialisti del sospetto, tutto diventa oscuro.
Ma cosa c’è di oscuro, ad esempio, nei sabotaggi realizzati contro trivelle e cantieri del TAV?
Laddove si sono sospettate misteriose trame di criminalizzazione
della lotta NO TAV, gli uomini dello Stato vi hanno visto qualcosa di
fin troppo chiaro: la rivolta possibile di una valle. E per
scongiurarla erano pronti a tutto. Anche a suicidare due persone.
«Neppure i morti saranno al sicuro dal nemico, se vince. E questo
nemico non ha mai smesso di vincere». Rimuovere un pezzo della nostra
storia significa rendergli un prezioso servizio.
Quando le nocività vengono fermate dalla lotta popolare è meglio per
tutti, non c’è dubbio. Perché ciò che avviene durante la lotta, oltre
ad ottenere risultati più duraturi, libera le donne e gli uomini
dall’abitudine alla delega, innalza il piacere di vivere, apre un più
vasto orizzonte di possibilità. Ma quando le lotte popolari non ci
sono, diventa forse giusto far sventrare le montagne e degradare gli
umani? Cos’è la legittimità, una questione statistica?
La storia dovrebbe insegnarci che le lotte hanno bisogno di mille
elementi, da mescolare con passione e avvedutezza. Ma è impossibile
prescivere le dosi esatte perché si inneschi la ribellione. Si impara
solo rischiando. Cioè vivendo.
Testo tratto dalla mostra esposta in occasione delle iniziative per i dieci anni della morte di Sole e Baleno