Individuo e società, violenza e non-violenza
IL TEMA DI STASERA
è l’autorganizzazione come etica, come modo di vivere. Vorrei cominciare con un
passo tratto da Le città invisibili di Calvino:
L’inferno dei
viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui,
l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo vivendo insieme. Due modi ci
sono per non soffrirne. II primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e
diventarne parte fino al punto di non vederlo più. II secondo è rischioso ed
esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e
cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.
Ecco, per me
questo qualcosa che non è inferno, questo qualcosa da far durare e a cui dare
spazio è un’etica, l’etica della reciprocità. A chi è talmente parte
dell’inferno contemporaneo da non vederlo più non ho nulla da dire. C’è forse
bisogno di dimostrare che quello che chiamano vivere civile è un quotidiano
omicidio di massa, una quotidiana carneficina di dignità, uno spaventoso
accumularsi di protesi tecnologiche che ci rendono ogni giorno più massificati
e allo stesso tempo più isolati?
Più che un
ennesimo inventario degli orrori, ciò che serve è cogliere l’essenza di questo
inferno al fine di scorgere, appunto, ciò che non è inferno. E l’essenza è la
divisione in dirigenti ed esecutori, una divisione che la produzione massificata
– dal cibo alle telenovela, dall’energia ai massacri in mondovisione – ha
portato a livelli giganteschi. Nel corso di tutte le società basate sul dominio
– cioè sull’assoggettamento delle popolazioni ad opera di qualche minoranza –
è successo che un elemento di questo dominio abbia preso il sopravvento su
tutti gli altri. È quanto è accaduto con il capitalismo, un sistema sociale in
cui il motivo economico tende a soppiantare tutti gli altri. Se le conseguenze
del capitalismo sono
state l’industrializzazione e il concentramento urbano, è importante coglierne
le cause specifiche:
– l’accelerazione
enorme del cambiamento tecnico, legata allo sviluppo della scienza;
– la nascita e il
consolidamento dello Stato moderno, centralizzato e burocratico, base e modello
dell’impresa capitalista nascente;
– la creazione
della nazione come spazio mercantile e giuridico unificato;
– la nascita di un
nuovo tipo umano, in senso antropologico, caratterizzato dalla mentalità del
calcolo e del guadagno, il cui tempo è quello scandito e misurabile.
La divisione in
dirigenti ed esecutori si rafforza con la specializzazione dei ruoli, la quale
tende a soppiantare il comando autoritario con il potere apparentemente
impersonale dell’esperto.
OGGI, ASSISTIAMO
ANCORA una volta a uno di questi processi che porta un elemento del sistema a
dominare tutti gli altri. Si tratta del movimento sempre più autonomo della
tecnoscienza, dei suoi apparati, dei suoi linguaggi. Questo processo, che dalla
seconda guerra mondiale ad oggi ha creato una Megamacchina in cui si sono fusi
la ricerca scientifica e l’industria, il sistema militare, quello politico e
mediatico, tende a ridurre ed eliminare il ruolo dell’uomo nella produzione.
L’uomo è da sempre l’elemento più difficile da dominare, ecco perché il
potere ne ha fatto qualcosa – per dirla con Gilnter Anders – di antiquato.
Arginare la resistenza degli sfruttati è stata la preoccupazione costante che
ha unito, in particolare negli ultimi decenni, le esigenze del profitto e quelle
del controllo sociale. Interrogarsi in senso astratto sulla "tecnica"
senza riferirsi alla storia e ai conflitti sociali che hanno fatto del
capitalismo sempre più una società tecnologica è un nonsenso buono per
i sociologi. Allo stesso modo, inorridire di fronte all’inferno delle guerre
telematizzate e degli esperimenti nucleari – oppure, andando indietro, dei campi
di concentramento e di sterminio – senza guardare nel ventre mostruoso da cui
sono nati e nascono ancora è un modo per illudere se stessi.
IL CONTRARIO DELLA
DIVISIONE in dirigenti ed esecutori è l’autonomia individuale e collettiva. E
se autonomia significa capacità di dare a se stessi le proprie regole,
un’attività autonoma è un’attività di cui gli individui controllano gli
strumenti e le finalità. Quando gli strumenti agiscono da soli, quando
la specializzazione dei ruoli liquida la comprensione complessiva dei nostri
atti e quindi la coscienza delle loro conseguenze, dov’è l’autonomia? Quando si
può lavorare alla catena di montaggio di una fabbrica di armi con la
spensieratezza di una musica in filodiffusione, dov’è la coscienza? Come
collegare i nostri gesti ai corpi dilaniati da qualche bombardamento con cui la
televisione condirà la nostra cena? Perché porsi il problema, dal momento che,
lavoratori salariati, appariamo socialmente onesti? Fra gli integrati,
chi vedrà l’inferno nel nerbo stesso di ciò che ci tiene insieme?
PENSO CHE L’ETICA
DELLA RECIPROCITA sia la base che può chiarire il concetto di autorganizzazione
e gettare allo stesso tempo un po’ di luce sul problema della violenza e della
non-violenza.
Autorganizzarsi
significa organizzarsi da sé e anche organizzare se stessi – le due cose vanno
assieme ma non coincidono. Per organizzare la propria attività bisogna
organizzare il proprio sapere, il proprio linguaggio, le proprie capacità
manuali e così via. E viceversa, per sviluppare se stessi (per organizzare le
proprie attitudini in modo spontaneo e affinato) occorre poter agire
autonomamente.
Ora, quando
parliamo di auto-organizzazione, chi è l’autós, il "se
stesso" di cui si parla, il soggetto che si organizza, appunto, "da
sé"? Per non cadere in visioni astratte e gerarchiche bisognerà
rispondere: l’individuo. Anche le società più totalitarie, infatti,
organizzano "se stesse" e si organizzano "da sé", in quanto
le cause della loro continua auto-istituzione sono immanenti, non provengono da
nessun al di là. Solo che al loro interno una minoranza comanda e la massa
ubbidisce, allo stesso tempo attiva e passiva, complice e vittima.
Prima ho detto:
l’individuo, ma avrei potuto dire: gli individui. Per l’uomo che nasce, il dato
del mondo che lo accoglie è la pluralità degli uomini, tutti diversi e tutti
unici, come si rivela anche solo allo sguardo. Se, come diceva Hannah Arendt,
l’azione è la risposta tipicamente umana al fatto di essere nati,
l’introduzione della novità e della discontinuità in un ordine già-fatto, la
reciprocità è la condizione che assume fino in fondo la pluralità degli
uomini, per cui dire "individuo" significa sempre dire
"individui". L’etica della reciprocità afferma: come tu a me, così
io a te. Facendo dell’uguaglianza il luogo in cui si esprimono le
differenze, essa coniuga l’universalismo con l’affermazione dell’unicità
dell’individuo. L’unica cosa che ci rende davvero uguali, l’unico dato davvero
comune, universale, è il fatto che siamo tutti diversi. A questo
proposito, è comico e tragico insieme vedere come i sociologi di sinistra siano
incapaci di andare oltre le risposte impacciate e false nei loro colloqui con i
nuovi teorici del razzismo, i quali, abbandonati i rozzi appelli alla biologia
(la pelle, il sangue, eccetera), parlano di diversità culturale e accusano
l’universalismo di distruggere le differenze reali (etniche, storiche,
eccetera). Non riferendosi all’unica universalità concreta – l’individuo –
questi sociologi non sanno attaccare la menzogna di fondo del nuovo razzismo: le
differenze di cui esso parla sono sempre collettive, e cioè sono identità
monolitiche per gli individui presenti all’interno di una stessa
"cultura", di una stessa "nazione" e così via. Ma questo
sarebbe un discorso lungo; ho voluto solo accennarvi.
L’ETICA DELLA
RECIPROCITÀ è un’etica per cui "giusto" non è fare questo o quello;
"giusto" non è il costume di una comunità piuttosto che quello di
un’altra: giusto è ciò che permette alle diverse concezioni individuali di
ciò che è giusto e sbagliato di esprimersi. Relativismo assoluto che accetta
qualsiasi cosa e il suo contrario? Nient’affatto. Si tratta di un metodo che
nega ogni sopraffazione e ogni dominio, dell’intolleranza assoluta verso ogni
regola imposta dall’esterno.
Il dominio si
caratterizza soprattutto per l’usurpazione di facoltà collettive da parte di
una minoranza. Benché la violenza ne sia il fondamento (nessun potere
gerarchico si regge senza il gendarme), violenza e dominio non sono sinonimi. Vi
sono metodi di dominio in cui la violenza in senso stretto (inflizione, reale o
minacciata, di sofferenza fisica) non è presente, perché la loro natura è
più subdola (pensiamo, ad esempio, alla pubblicità); così come esiste una
violenza che non è finalizzata al dominio, bensì alla liberazione dal dominio.
Ma su questo ritornerò. In generale, penso si possa definire violenza in senso
più profondo la negazione sistematica della reciprocità, cioè l’imposizione unilaterale
delle condizioni. Tutto ciò che accetto di compiere spinto dalla necessità
(politica e non "naturale") di sopravvivere, non lo accetto forse
sotto minaccia? Non è uno stato di necessità che mi fa subire
"accordi" che non ho mai sottoscritto né condiviso e che chiamano
"leggi"? Non è per questo che svolgo un’attività lavorativa di cui
non capisco il senso, di cui non controllo le conseguenze e i cui effetti mi
possono anche sembrare socialmente nefasti? Se non mi ribello ogni volta che ne
ho l’occasione, non è forse per paura? Quello che passa per lo più per
non-violenza è questa paura di fronte alla violenza, è il fatto di rimanere
alla finestra mentre l’inferno continua. In tal senso, il 99% dei nostri
contemporanei è composto da "non-violenti". Vi sembra una
provocazione?
Se la reciprocità
è il metodo per una comune libertà individuale, allora l’autorganizzazione ne
è la forma sociale. Autorganizzazione come etica sociale, allora, come modo di
vivere, le cui condizioni sono il dialogo reale, la libera assemblea, il rifiuto
di ogni rappresentanza irresponsabile. E non è forse irresponsabile votare
qualcuno ogni cinque anni senza poter incidere su quello che ha fatto prima de!
nostro voto né su quello che farà dopo? E pensare che chiamano ciò
"elezione", cioè scelta in senso forte! Un modo autonomo di
organizzarsi presuppone non già il rifiuto di ogni forma di suddivisione dei
compiti, ma il rifiuto della loro specializzazione gerarchica e incontrollabile
– oggi potremmo aggiungere, pensando alle conseguenze della tecnologia sulla
natura e sulla specie umana: irreversibile. In una tale autonomia mi sembra
coincidere l’autentica paideia, come dicevano i Greci, cioè l’autoeducazione
degli individui. Se teniamo presente la definizione di azione come
discontinuità di un ordine già-fatto, pensiamo a come si svolgono le nostre
giornate, fra continui obblighi impersonali eppure terribilmente concreti, e
chiediamoci: quand’è che agiamo? Quand’è che le nostre parole e i
nostri gesti modificano, nel senso dell’autonomia, il mondo in cui
viviamo? II mondo lo trasformiamo eccome, e sempre più in modo globale, solo
che siamo prigionieri dei nostri cambiamenti. Ascoltiamo Anders:
Cambiare il mondo
noli basta. Lo facciamo comunque. E, in larga misura, questo cambiamento avviene
persino senza la nostra collaborazione. Nostro compito è anche d’interpretarlo.
E ciò, precisamente, per cambiare il cambiamento. Affinché il mondo non
continui a cambiare senza di noi. E, alla fine, non si cambi in un mondo senza
di noi.
INDIVIDUO E
SOCIETÀ, VIOLENZA E NON-VIOLENZA. Una società libera è una società di cui
gli individui autocreano continuamente gli accordi, i saperi, i linguaggi. Una
società che ha liquidato ogni violenza strutturate è una società basata sulla
reciprocità. Il contrario di reciprocità è
unilateralità, cioè sfruttamento degli uni da parte degli altri. Fin in epoca
moderna, il concetto di "società" sottolineava l’aspetto volontario e
non-violento, cioè reciproco, degli accordi fra individui. Diversamente,
infatti, si sarebbe sudditi, non soci. Voglio soffermarmi ancora sulla
nozione di etica, prima di affrontare il tema della violenza e della
nonviolenza.
CI SONO DUE
SIGNIFICATI che, fin dall’antichità, coabitano nel concetto di etica. L’etica
è qualcosa di profondamente individuale – Eraclito diceva "etica è a
ciascuno il suo demone", e il demone è il proprio modo di essere, sia
nelle sue determinazioni coscienti sia nei suoi aspetti più oscuri ed
enigmatici. Questo demone non è un giudice che detta le sue leggi, come
sostiene una ben nota tradizione filosofica, ma una voce che ora parla per
allusioni, ora urla con la forza dell’evidenza. I suoi sono geroglifici
dell’anima, e l’anima, diceva ancora Eraclito l’oscuro, non ha confini. L’etica
non è un’insieme di norme, dunque, ma una continua esplorazione. Ma l’etica –
l’ethos – è anche qualcosa di collettivo, attinente ai costumi, ai
saperi, al modo di abitare – insomma, è quello che si definisce per lo più
"morale", per quanto i due termini siano il secondo la trascrizione in
latino del primo (mores e ethos sono, infatti, sinonimi).
Perché queste
precisazioni? Non per uno di quei vani esercizi di etimologia con cui si
sostiene tutto e il suo contrario, ma per chiarire che quando parlo di un’etica
della reciprocità parlo di qualcosa di profondamente personale e insieme di un luogo
collettivo, quello dell’autorganizzazione delle lotte e della vita. E chi dice
lotta e vita, dice rapporti, saperi, linguaggi, tecniche. Quest’etica deve
essere "globale" perché le conseguenze dei nostri gesti lo sono, nel
tempo come nello spazio. Essa afferma, come Ugo da San Vittore faceva nel XIII
secolo:
L’uomo che trova
dolce il luogo natale è ancora un tenero principiante; quello per cui ogni
suolo è come il suolo nativo è già più forte; ma perfetto è quello per cui
l’intero mondo è un paese straniero.
Questo è il solo
modo che trovo di essere solidale con chi è clandestino e con tutti gli
umiliati della Terra. Nel mondo della reciprocità non esistono stranieri
perché non ci sono cittadini. Il luogo dell’ethos va pensato in senso
non territoriale. L’etica della reciprocità emerge là dove il dialogo forgia
le sue armi e sovverte l’ordine delle cose; ancora una volta, nell’autorganizzazione.
Ma di questo – dell’autorganizzazione come metodo di lotta e come pratica
sociale – parleremo durante le prossime serate.
L’autonomia reale
è un modo dì vivere il rapporto fra ciò che è pre-individuale e ciò che è
individuale. Pre-individuale è tutto quello che è comune e generico, come le
facoltà biologiche della specie umana, la lingua e i rapporti sociali che
troviamo quando nasciamo. Individuale è ciò che strappiamo con la nostra
azione. Noi diventiamo individui attraverso il nostro modo di entrare in
rapporto con la natura e con la storia.
Autonoma è una
società in cui tale rapporto non è fissato in nessuna istituzione esterna –
come lo Stato o l’impresa capitalista – all’azione reciproca degli individui; in
cui la discussione, l’amore, il gioco, il conflitto e la riproduzione delle
condizioni materiali sono attività fra loro armoniche; in cui non esistono
un’economia, una politica, un’arte o una scienza come sfere separate della vita.
ANCORA DUE PAROLE
SU individuo e società. Si sa che secondo le varie teorie del contratto sociale
gli individui avrebbero rinunciato, a un certo punto della storia, alle loro
libertà naturali in cambio della protezione fornita dalla società politica,
cioè dallo Stato. Vi siete mai chiesti con che lingua comune hanno potuto mai
stipulare un simile contratto dal momento che essi vivevano fuori della
società? Il libero accordo non è l’inizio, bensì il risultato mai raggiunto
di una lunga esperienza sociale. Reciprocità significa: la mia libertà esiste
solo grazie alla libertà degli altri.
Penso che una vita
piena sia una vita che sa mescolare con arte il piacere della solitudine e il
piacere dell’incontro. La società massificata distrugge entrambi. Qualcuno ha
parlato opportunamente, rispetto alla vita contemporanea, di eremiti di massa.
Siamo continuamente socializzati in un sistema-mondo dalla pubblicità e
dalle mille protesi tecnologiche e allo stesso tempo siamo separati dai nostri
simili. Gli spazi privati e quelli pubblici sono sempre più indifferenziati e
sempre più anonimi. Dopo la natura selvaggia, è scomparsa ogni agorà e
ogni libera assemblea. Credo che una nuova solitudine e una nuova socialità
nasceranno insieme, oppure ogni individualità diventerà antiquata.
E VENIAMO ORA
ALL’ULTIMA QUESTIONE: violenza e non-violenza. Quelle che seguono sono solo
alcune banalità di base per cominciare a discutere davvero. Mezzi e fini:
questa è, si dice, la politica. L’esperienza tragica almeno dell’ultimo secolo
ci insegna che non ci può essere separazione fra mezzi e fini, che i mezzi
contengono già i propri fini. All’autonomia si giunge solo con l’autonomia.
All’autorganizzazione della vita si arriva solo autorganizzando le lotte.
Occorre ancora dimostrarlo? Non lo hanno già fatto la dittatura stalinista e la
lunga storia del parlamentarismo? Tagliamo corto: chiunque parli di società
non-violenta senza riferirsi esplicitamente alla demolizione dello Stato e del
capitalismo ha non uno, ma tanti cadaveri in bocca. Uno Stato non-violento è
una contraddizioni in termini. Il Diritto lo sa, e infatti parla di monopolio
legittimo della violenza. Legittimo? E chi lo dice? Lo Stato. II non-violento ci
crede. Nel migliore dei casi ha preso per buona l’immagine che questa società
dà di se stessa, quella di un pacifico mercato interrotto, ahinoi, da qualche
violenza. Se l’etica non ha nulla a che vedere con il diritto – ché ubbidendo
alle leggi si diventa oggi più che mai dei complici nell’omicidio di massa -,
la non-violenza non ha nulla a che vedere con il codice penale. "Il
nonviolento è tale solo quando rischia più del violento", scrive un
compagno – Vincenzo Gugliardo – incarcerato da quasi vent’anni per aver
partecipato alla lotta armata. Da anni impegnato a trovare dei modi di lotta per
ridurre il più possibile la violenza nel mondo e per abolire ogni logica
sacrificale, ha scritto dopo Genova che serve a poco sfidare le zone rosse se
non si disertano le zone grigie. La zona grigia, nel linguaggio di Primo Levi,
è quella della collaborazione fra alcuni internati nei Lager e i loro carnefici
e, più in generale, fra un popolo e i suoi oppressori. Non è ancora oggi la
nostra collaborazione la zona grigia che fa continuare l’inferno? E allora si
può essere non-violenti senza rifiutarsi di collaborare con lo Stato? Si può
essere non-violenti e appoggiare chi bombarda intere popolazioni, affama e
desertifica paesi interi, oppure rinchiude chi non ha i documenti in regola? Si
può essere non-violenti ed accettare il carcere?
Il fine della
non-violenza non può essere che una società senza Stato e senza dominio.
Utopia? Certo, e bisogna scegliere fra etica e realismo politico.
Penso che tutto
quello che tende concretamente verso una tale società sia liberazione in atto.
Si potrà forse realizzarla, una simile società, senza scontrarsi con la
polizia? Così scriveva Aldo Capitini, uno dei maggiori teorici della
non-violenza in Italia:
La nonviolenza non
è appoggio all’ingiustizia… Bisogna aver chiaro che la nonviolenza non
colloca dalla parte dei conservatori e dei carabinieri, ma proprio dalla parte
dei propagatori di una società migliore, portando qui il suo metodo e la sua
realtà… La nonviolenza è il punto della tensione più profonda del
sovvertimento di una società inadeguata.
Capitini, ma
potremmo citare lo stesso Ghandi, propugnava il sabotaggio delle strutture
oppressive come metodo di lotta non-violenta? Che dicono i
"nonviolenti" che urlano al terrorismo, cioè alla violenza cieca e
indiscriminata, quando qualcuno sabota una centrale nucleare o un laboratorio di
biotecnologie? Simili azioni producono o distruggono la violenza? Non-violenza
è qui un altro nome per ignavia e viltà.
IL PUNTO È CHE
TUTTI I DIFENSORI DELL’ORDINE definiscono non-violenza il rispetto della
legalità e del dialogo democratico. Quasi tutti quelli che si chiamano
nonviolenti accettano questa mistificazione. Eppure le maggiori violenze
commesse dallo Stato sono perfettamente legali, cioè giuridicamente
giustificate, per il semplice fatto che è la forza (non solo in senso militare,
ma economico, mediatico, sociale) a fondare il Diritto. Il "dialogo
democratico", poi, è il contrario esatto di un dialogo reale: per
dialogare veramente, lo abbiamo visto, bisogna essere in una condizione di
reciprocità. Se qualcuno ha il potere di imporre unilateralmente le domande, le
risposte gli saranno sempre funzionali. In quel caso si può dire che le domande
si rispondono da sole. Un generale americano e un ragazzo afghano possono
dialogare nella misura esatta in cui Agnelli e i suoi operai in sciopero sono
uguali di fronte alla legge.
"Violento",
"terrorista" è oggi chiunque rifiuti il dialogo con le istituzioni,
chiunque distrugga anche solo le macchine per far parlare gli uomini. Chi
comanda, definisce il senso delle parole. Chi definisce il senso delle parole,
comanda.
Perché per i
dirigenti è così importante imporre il loro senso alle parole? Perché
sanno che una ribellione contro la legge è una possibilità che esiste
concretamente nel mondo; perché sanno che dove gli umiliati, i dominati, gli
sfruttati dialogano realmente non c’è spazio per il dialogo fittizio della
democrazia. Per questo i libertari fanno paura, perché l’autorganizzazione di
cui parlano esiste già.
Mi pongo e vi
pongo un ultimo interrogativo: è sufficiente limitarsi a distruggere le
strutture oppressive quando la polizia spara e tortura, quando gli stermini
continuano in ogni parte del pianeta?
E su questo lascio
ancora la parola a Günter Anders, che così
scriveva nel 1987, a ottantacinque anni, dopo aver vissuto il nazismo,
Hiroshima, il Vietnam e Chernobyl.
Dal momento che
non ci è concesso di restare indifferenti di fronte alla nostra fine e a quella
dei nostri figli – una tale indifferenza sarebbe omicida – non dobbiamo neanche
rifiutare la lotta contro gli aggressori con l’argomentazione secondo cui il
comandamento `Non uccidere" non ammette alcuna eccezione. Esso l’ammette.
Anzi l’esige. E ciò nel caso in cui attraverso l’atto-eccezione vengano salvati
più uomini di quanti ne muoiano a casa sua. Dobbiamo cioè accettare la guerra
a cui siamo costretti. E questo – noi non saremmo certamente i primi, ma saremmo
certamente gli ultimi! – con la stessa disperata risolutezza con cui mezzo
secolo fa migliaia di uomini e donne nei Paesi europei oppressi da Hitler hanno
(o avrebbero) dovuto accettare la lotta contro la politica di sterminio del
nazionalsocialismo.
Ancora oggi,
perfino fuori della Francia, la parola résistance non ha perduto il suo bel
suono. Dovremmo forse vergognarci di fronte alla generazione d’allora? Allora,
infatti, furono solo i più ignobili ad avere il ‘coraggio della viltà’. ossia
il coraggio a non opporre nessuna resistenza, vantandosi persino, come fanno
oggi certi oppositori al nucleare, di limitarsi alla ‘resistenza nonviolenta’
per motivi giuridici, morali o religiosi. A causa di una tale autolimitazione
perirono allora un gran numero di persone. Oggi si tratta di un numero
incomparabilmente più grande di allora. Perché il pericolo di oggi non solo è
più grande di allora, ma è – il comparativo non basta più – totale. E
potrebbe essere definitivo.
Per questa ragione
noi contemporanei possiamo permetterci ancor meno di accontentarci di ‘happenings’,
o addirittura vantarci di un tale accontentarsi. Piuttosto, adesso dobbiamo
invece cercare di combattere gli odierni nemici e aggressori con la medesima
mancanza di riguardi con cui quarantacinque anni fa i partigiani cercarono di
combattere, di indebolire o di uccidere gli occupanti e oppressori
nazionalsocialisti dei loro Paesi. E pertanto anche noi dobbiamo sentirci in
dovere di diventare dei partigiani.
Rovereto,
28 novembre 2002
Massimo
Passamani