untori
per un’ università critica

L’università ha perso da tempo la capacità critica. Questo è ben visibile nel
campo delle scienze sociali, in cui la dimensione critica è decisiva. Invece di
criticare la realtà, per comprenderla e per cambiarla, le scienze sociali
insegnano le virtù dell’unico mondo possibile, quello in cui viviamo.

Le scuole
di pensiero critiche sono di fatto emarginate e sopravvivono solo grazie alle
roccaforti create all’interno del sistema baronale, di cui fanno parte a pieno
titolo. La loro critica della società non riesce ad esprimere veramente le lotte
concrete dei movimenti e resta invece, il più delle volte, puramente accademica.
Anche perché essa contiene un elemento contraddittorio. Essa vorrebbe cambiare
la società, ma non anche l’università, i suoi meccanismi di funzionamento e di
riproduzione, e le funzioni che essa svolge nel funzionamento e nella
riproduzione del sistema capitalista. D’altra parte, criticare l’università
significherebbe criticare se stessi, l’aver accettato la logica della
cooptazione e le relazioni di potere che ne discendono, i privilegi di fatto –
che superano pure quelli di diritto – e, più in generale, il ruolo di agente di
selezione per conto del mercato, cui si riduce in definitiva la raison d’etre
del docente universitario nell’università mercificata del sistema neoliberista.                                                                                 Le cose stanno diversamente sul fronte studentesco. Qui il problema non è
l’attitudine individuale o l’appartenenza a un particolare clan accademico, più
o meno tollerante nei confronti della critica accademica. Lo studio critico è
impedito di fatto a tutti, senza distinzioni, dall’organizzazione stessa
dell’università: dai ritmi imposti dalla catena di montaggio
dell’università-esamificio; dall’insegnamento come trasmissione di conoscenze,
invece che come rapporto dialettico; dai corsi finalizzati all’acquisizione di
competenze utili alla produzione, invece che alla crescita scientifica e
culturale; dall’organizzazione dei percorsi di studio ritagliata su misura per
gli studenti a tempo pieno, che non perdono un colpo, in un’università in cui
invece cresce, per scelta obbligata, il numero di studenti-lavoratori e di fuori
corso; dalla mercificazione dell’università, che snatura lo studio e la ricerca,
per metterli al servizio del mercato.
L’alienazione dello studente tende a generare due processi contrastanti. La
trasformazione in macchina da esami – che di certo non favorisce lo sviluppo
delle capacità critiche; oppure l’abbandono, per l’insostenibilità dei ritmi
imposti dal processo di selezione. Ma c’è anche una terza possibilità: la
socializzazione del problema, che porta a reagire, andando alle cause
dell’alienazione universitaria. Attraverso i collettivi, le assemblee e ogni
altra forma di auto-organizzazione, gli studenti si prendono periodicamente
l’università e costruiscono, nella prassi delle loro lotte concrete, esperienze
di università critica.
Ma anche questi momenti importanti di crescita intellettuale, culturale e
politica solo raramente riescono ad intaccare la logica universitaria, basata
sulla selezione, lo studio alienato e la subordinazione a un corpo docente
baronale e, per il suo tramite, al capitale. Il problema sta senz’altro nei
rapporti di forza, tutt’altro che favorevoli, con cui deve fare i conti il
movimento. Ma, almeno in parte, il problema riguarda anche la mancanza di
progetti radicali di cambiamento dell’università e della società, da parte dei
collettivi e delle assemblee, che hanno ancora difficoltà a socializzare
adeguatamente le loro lotte, i loro obiettivi, le loro visioni dell’università e
della società.
Per questo credo sia importante collegare – sia a livello teorico, sia nella
lotta politica – il disagio studentesco (e di una parte, seppur modesta, del
corpo docente) e la subordinazione dell’università alla logica della produzione
capitalistica. Innanzi tutto, sul fronte teorico, si tratta di demistificare il
pensiero unico neoliberista, che, in nome dell’efficienza economica, vorrebbe
trasformare ogni cosa in merce, compresa la produzione culturale e scientifica.
Dopodiché, il problema politico consiste nel costruire percorsi di
demercificazione dell’università e del sistema educativo, collegandoli
ovviamente con le lotte sociali e politiche contro la mercificazione della
società in generale.

 

Le scienze sociali e la mercificazione
della società (e dell’università)

Nel tentativo di fornire una solida base scientifica all’impianto neoliberista
(o alla sua variante social-liberista), le scienze sociali – con l’economia
politica in testa – si sono trasformate da tempo in strumenti ideologici di
legittimazione della logica di mercato. L’economia politica ha perso la
dimensione critica – che storicamente aveva assunto soprattutto grazie al
contributo marxiano – per diventare scienza borghese, finalizzata a nascondere
le più grandi contraddizioni del capitalismo e a difendere la tesi della sua
razionalità ed efficienza economica. A questo fine, gli economisti borghesi
hanno costruito un complesso sistema teorico, che utilizzano per sostenere che
il sistema capitalista è il solo mondo possibile – o, comunque, il solo
economicamente razionale – e per denunciare l’irrazionalità del conflitto e
l’impossibilità della lotta come strumento di emancipazione sociale.
Dietro l’apparente neutralità del metodo e dei principi di fondo della scienza
economica si nascondono tuttavia precisi interessi di parte, che i tecnicismi
della teoria economica borghese possono solo offuscare, ma non certo cancellare.
Questo pone un importante problema teorico e di prassi politica. Da una parte,
l’esistenza di interessi contrapposti e di rapporti conflittuali apre la
possibilità di sviluppare un dibattito critico da parte delle forze sociali e
politiche che pagano il prezzo più alto della svolta neoliberista. Dall’altra,
però, tale dibattito è impedito proprio dalle barriere tecniche erette dalla
comunità scientifica, volte a confinare il dibattito al circolo dei cosiddetti
“esperti”.
Il significato stesso del bene comune – che la teoria economica evoca
continuamente nelle sue prescrizioni normative basate sul principio
dell’efficienza economica – è un chiaro esempio della natura borghese delle sole
teorie economiche ammesse nelle cittadelle universitarie. L’efficienza economica
è infatti un concetto altamente ideologico e il fatto che la comunità
scientifica lo presenti come puramente tecnico e neutrale serve unicamente a
favorire il processo di mercificazione della società. In nome dell’efficienza,
la teoria borghese sostiene la desiderabilità di un mondo tutto basato sui
rapporti di mercato. La prescrizione che ne scaturisce – fintamente apolitica e
solo apparentemente scientifica – è di estendere sempre più la sfera dei
rapporti sociali regolati dal mercato, permettendo così ai soggetti
economicamente più forti di far valere i propri privilegi economici in ambiti
sempre più estesi dell’interazione sociale e impedendo ogni forma di protezione
sociale dei soggetti più deboli, che del mercato pagano solo i costi.
A livello culturale e politico, i movimenti, le associazioni e la società civile
hanno avviato iniziative significative che prendono le distanze dai dogmi del
pensiero unico neoliberista e che, in alcuni casi, li contestano frontalmente.
Sul fronte strettamente accademico, invece, il pensiero critico stenta a
svilupparsi e le stesse iniziative dei movimenti, anziché essere approfondite e
valorizzate, sono semplicemente ignorate o condannate per il loro contenuto
apertamente di parte.
Di questo, evidentemente, non c’è di che meravigliarsi. Una critica della
scienza economica borghese e dei concetti operativi del neoliberismo non può
certo trovare spazio in un’università ridotta a luogo di trasmissione di
competenze utili al mondo produttivo, né in un’università in cui il corpo
docente si riproduce secondo logiche baronali. Una riflessione veramente aperta
sul modo di organizzazione della società deve invece rimettere in discussione le
stesse funzioni sociali ed economiche dell’università. Per questo è necessario
un attento lavoro di demistificazione che sveli gli interessi di parte che si
nascondono dietro i dettami neoliberisti, i quali, a partire dalle scienze
sociali, si impongono anche nelle norme giuridiche e nelle finalità stesse della
scienza, fino a trasformare l’intera cultura.
In questo contesto diventa urgente riconsiderare le funzioni stesse
dell’università nella società capitalista. La demistificazione e l’analisi
critica sono strumenti necessari alla formazione di persone pensanti, invece che
obbedienti, e una società fatta di esseri pensanti è la sola garanzia di
civiltà, democrazia e libertà. Il prodotto finito dell’università cessa così di
essere la difesa del mondo esistente e la formazione di un insieme indistinto di
individui isolati, pronti a scannarsi fra loro per un posto di lavoro, come
vuole il mito della concorrenza perfetta. Lo studente universitario, diventa
invece un soggetto sociale critico, non manipolabile e non incanalabile, pronto
ad agire accanto agli altri soggetti sociali, dentro e fuori le università, che
lottano contro la mercificazione del sapere e della vita umana.

 

Il ruolo del movimento studentesco
Nella costruzione di spazi critici e di resistenza politica alla cultura
produttivistica – secondo cui l’università è un semplice luogo di produzione,
trasmissione e certificazione di competenze utili alle imprese – il movimento
studentesco ha un ruolo fondamentale da svolgere. Non tanto perché esso stia
attraversando un periodo particolarmente favorevole sul piano dei rapporti di
forza (anzi la repressione e l’egemonia culturale neoliberista, anche nella
sinistra di governo, lo costringono ad attività prevalentemente difensive),
quanto perché non esistono altri soggetti sociali che abbiano un interesse
materiale diretto ad abbattere l’università del mercato e dei baroni. Il
problema è che le iniziative di lotta del movimento e i tentativi di sviluppare
percorsi critici autonomi avvengono all’interno di un sistema universitario
ormai fortemente mercificato nei contenuti e nei modi di insegnamento e di
selezione, che limita decisamente i margini di manovra dei collettivi.
I problemi di iniziativa del movimento si intravedono già quando le istanze
critiche degli studenti si indirizzano su temi tradizionalmente insegnati e
studiati nelle università. Se esse trovano la sponda di un docente disponibile,
sono tollerate e indirizzate in modo da non turbare le attività accademiche
ufficiali; altrimenti muoiono. Ma ben altre difficoltà emergono invece quando i
bisogni sociali espressi dagli studenti escono dai programmi ufficiali di
insegnamento e quando il confronto critico si riveli irrispettoso delle
gerarchie accademiche. In questo caso, il corpo docente, così abituato ad
impartire lezioni dall’alto del suo prestigio scientifico, si dimostra
semplicemente incapace di dialogare con gli studenti e con la società tutta sui
temi che questa pone e con l’impostazione che essa impone. E se poi, non sia
mai, la critica degli studenti si indirizza al sistema universitario stesso –
con la sua logica bancaria, in termini di crediti e debiti, e il suo regime di
tassi di cambio tra ore di lezione, numero di pagine da studiare e numero di
crediti da acquisire, ma senza nessuna struttura per favorire lo studio critico
– allora la repressione diventa quasi inevitabile, con tanto di sgomberi e
ricorso alle forze coercitive dello stato.
In questa concezione dell’università, non c’è spazio per soggetti veramente
critici. La sola voce legittima degli studenti è quella mediata dalle
rappresentanze studentesche, riconosciute dai poteri accademici. Questa è la
sola dimensione “critica” consentita in questa università serva del mercato e
dei baroni. Ma si tratta di espressioni critiche tutte interne alla logica
accademica, che non mettono certo in discussione le funzioni economiche e
sociali dell’università e la subordinazione dello studente che ne deriva, né
pongono la questione dello studente come obiettivo finale del sistema
universitario, invece che semplice mezzo per la futura valorizzazione del
capitale.
In passato, l’università serviva a formare l’elite politica che avrebbe dovuto
prendere in mano le leve del potere. Oggi la mercificazione della società impone
nuovi compiti per l’università. Non più la formazione di elite, dirigenti o
quadri; il prodotto da sfornare sono i lavoratori precari di domani (che poi, in
gran parte lo sono già oggi). In questa università, non c’è posto per la
critica, e gli studenti che cercano di sviluppare un proprio percorso di studio
e di lotta hanno buone probabilità di impantanarsi in una delle tante fasi del
processo di selezione, prima dell’agognato diploma che certifica l’avvenuta
acquisizione delle competenze.
I collettivi e le assemblee esistenti nelle università sono la risposta concreta
del movimento studentesco a questo stato di cose. I loro legami con realtà di
movimento anche esterne all’università dimostrano la capacità di lottare dentro
e fuori le università contro la mercificazione crescente della società. Ma è
chiaro che un’università critica, che vuole trasformare la società e che critica
se stessa, non è affatto funzionale alla logica della riproduzione ordinata del
sistema. Per questo è del tutto normale che le istanze più radicali del
movimento assumano talvolta un carattere sovversivo, perché esse partono proprio
dal rifiuto delle funzioni economiche e sociali dell’università mercificata. Il
problema piuttosto è socializzare queste lotte, trovare obiettivi comuni e
costruire un percorso di trasformazione della società e dell’università.
Si tratta sicuramente di un processo faticoso, che deve innanzi tutto invertire
le tendenze in atto. Ma dall’attuale fase di resistenza è oggi possibile avviare
una nuova stagione di lotte, per affermare, nell’università come nell’intera
società, la supremazia dell’uomo sul mercato e il diritto allo studio e alla
critica come diritti universali, impedendo nei fatti che lo studente sia ridotto
a merce in corso di lavorazione, da flettersi alle mutevoli esigenze del
capitale.

Giulio Palermo

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