untori
dossier Homo Sacer

Come restituire la politica al suo rango ontologico.

Per
una lettura di Homo sacer di Giorgio Agamben

 

 

1.
ONTOLOGIA E POLITICA.

Nel contesto della produzione
filosofica di Giorgio Agamben, il libro pubblicato da Einaudi nel 1995 con il
titolo Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita segna non tanto un
punto d’arrivo, quanto piuttosto l’avvenuta inaugurazione di una nuova
prospettiva di ricerca incentrata sulla ripresa e, in certo modo, la
“reinvenzione” della nozione foucaultiana di biopolitica. Il testo in questione
costituisce il primo capitolo di una ricerca tuttora in corso, la cui
complessità è testimoniata dalle pubblicazioni più recenti, tutte edite da
Bollati Boringhieri: Mezzi senza fine. Note sulle politica (1996), Quel
che resta di Auschwitz. L’archivio e il testimone
(1998), Il tempo che
resta. Un commento alla “Lettera ai Romani”
(2000), e il recentissimo L’aperto.
L’uomo e l’animale
(2002).

In Homo sacer (d’ora in poi HS)
Agamben ci invita a ripensare il problema del rapporto tra ontologia e
politica: solo sulla base di una effettiva “restituzione della politica al suo
rango ontologico” potremo comprendere il senso (la provenienza e – in
prospettiva – la destinazione) di quella “costituzione politica del presente”
che chiamiamo biopolitica.

Già nel modo di impostare la
questione, l’approccio di Agamben alla biopolitica si discosta da quello di  Foucault: mentre quest’ultimo privilegia le
fratture e le discontinuità nella sua ricognizione genealogica dei dispositivi
di sapere/potere e quindi di soggettivazione, il fondamentale contributo di
Agamben consiste nel mettere in luce la sotterranea continuità della tradizione
metafisica e politica occidentale. “Prima di emergere impetuosamente alla luce
del nostro secolo, il fiume della biopolitica, che trascina con sé la vita
dell’homo sacer, scorre in modo sotterraneo, ma continuo” (HS
133).

Già nel 1962, in un libretto
intitolato Les origines de la pensée grecque, Jean-Pierre Vernant
articolava un discorso originale intorno alla relazione tra politica e
ontologia. Egli  muoveva dalla politica
per comprendere la nascita della filosofia. Agamben ha compiuto in certo modo
il tragitto inverso: dalla decostruzione della metafisica
[1]
alla
comprensione della “struttura originaria” della politica occidentale.

La tradizione ontologica e la
tradizione politica che delimitano lo spazio (incessantamente dislocantesi e in
costante deterritorializzazione) dell’Occidente vengono ricondotte da Agamben a
due fenomeni originari, o meglio a due pratiche di scrittura complementari,
accomunate dalla stessa logica (la logica del “fondamento negativo” o della
negatività del fondamento, che è poi la violenza del fondamento):


         

l’iscrizione
del vivente nell’ordine del lógos (si pensi alla determinazione
aristotelica dell’uomo come “il vivente che ha il linguaggio”);


         

l’iscrizione
del vivente nell’ordine del nómos (si pensi alla determinazione
aristotelica dell’uomo come “vivente politico”).

Il problema politico fondamentale
(qual è il nesso/articolazione tra nuda vita e polis?) corrisponde al
problema ontologico fondamentale (qual è il nesso/articolazione tra phoné
e logos?). Il problema dell’aver luogo della polis è inscindibile
dal problema dell’aver luogo del linguaggio. I due problemi, quello ontologico
e quello politico, sono indisgiungibili. Si tratta di due pratiche, di due
dispositivi accomunati dalla stessa logica: la logica paradossale e aporetica
dell’esclusione inclusiva (dell’eccezione in quanto bando), a cui è dedicata
non a caso la prima parte di Homo sacer.


 

Il discorso svolto da Agamben in Homo
sacer
si sviluppa a partire da una domanda implicita che potremmo formulare
in questo modo: è possibile interpretare la politica in base alla stessa
“struttura originaria” della metafisica già analizzata e finemente
decostruita  in ricerche precedenti?
Troviamo gli elementi per una risposta proprio nelle pagine che concludono Homo
sacer
: “L’isolamento della sfera dell’essere puro, che costituisce la
prestazione fondamentale della metafisica dell’occidente, non è senza analogie
con l’isolamento della nuda vita nell’ambito della sua politica” (HS
203).

Esiste
quindi una sorta di segreta solidarietà strutturale tra ontologia e politica.

Ne consegue che una lettura
filosoficamente avveduta di Homo sacer dovrebbe tenere ben presente che
la genealogia della politica viene svolta da Agamben alla luce di una
preliminare e radicale Destruktion della metafisica, sviluppata per
altro attraverso un’originale interpretazione dell’Assoluto hegeliano e dell’Ereignis
heideggeriano.

Dovendo esplicitare il problema di
fondo della sua ricerca Agamben scrive nella prefazione del 1989 all’edizione
francese di Infanzia e storia, intitolata Experimentum linguae:
“Nei libri scritti e in quelli non scritti, io non ho voluto pensare
ostinatamente che una cosa sola: che significa “vi è linguaggio”, che significa
“io parlo”?”
[2]
.
In altre parole: “In che senso l’uomo è il vivente che ha il linguaggio, che ha
la facoltà di parlare? Qual è il rapporto tra phoné e lógos? E se
qualcosa come una voce umana non c’è, in che senso l’uomo può ancora essere
definito come il vivente che ha il linguaggio?”. Agamben chiarisce
ulteriormente il senso di questi interrogativi nella sua densa introduzione
alla tesi di laurea di Manganelli: “L’ingresso nel linguaggio (nella scrittura)
non è, infatti, un gesto neutrale, ma introduce nel soggetto un principio di
divisione infinita, da cui non c’è riparo né via d’uscita. Tu scrivi, tu parli:
quindi sei diviso da te stesso, sei impegnato in un’affannosa contesa politica
con te stesso”
[3]

(p. 17).      


 

2. LA “TRIPLICE RADICE” DELLA
BIOPOLITICA IN Homo sacer.

Prima di addentrarci in quello che
vorrebbe essere semplicemente una sorta di “invito alla lettura” di Homo
sacer
, gioverà una precisazione, al fine di situare quanto segue nel
contesto del presente dossier. Posto che “nel nostro tempo la politica è diventata
integralmente biopolitica” (HS 132), con questo termine intendiamo,
sulla scorta di Foucault, l’implicazione crescente della vita naturale
dell’uomo nei meccanismi e nei calcoli del potere. Al limite tale implicazione,
approfondendosi e estendendosi indefinitamente, coincide con una assimilazione
idealmente completa del vivente nella relazione giuridico-politica: nulla, o
meglio quasi nulla più nel vivente può resistere alla violenza del
potere sovrano. Il corpo tende a risolversi integralmente in corpo iscritto
nell’ordinamento giuridico-politico: l’iscrizione della vita nella sfera
politica giunge a compimento, il dominio del potere sulla vita si fa dominio
totale. È chiaro quindi come il luogo per eccellenza della biopolitica moderna
sia costituito dai grandi stati totalitari del Novecento. Secondo Agamben il
limite di Foucault consisterebbe appunto nel non aver indagato la struttura dei
totalitarismi, mentre il limite speculare di Hannah Arendt consisterebbe
nell’aver svolto il suo studio sulla genesi e la struttura del totalitarismo
senza disporre del concetto di biopolitica
[4]
. Si
tratterebbe quindi di “far convergere i loro punti di vista” (HS 132) in
modo tale da potenziarli e radicalizzarli nel contesto di un percorso che si
articola in tre momenti fondamentali, che potremmo designare come la triplice
radice
(logica, genealogica, e fenomenologico-topologica) della
biopolitica:


         

una
analisi della struttura originaria del potere sovrano e della logica
paradossale della legge (parte prima);


         

una
genealogia della sacertà (dell’homo sacer) in quanto figura emblematica
della cattura della vita da parte del potere (seconda parte);


         

infine
una sorta di fenomenologia/topologia di alcune situazioni biopolitiche
emblematiche, il cui approdo è l’individuazione della “matrice nascosta della
politica in cui ancora viviamo” (HS 197) nel campo di concentramento.

Per disporsi alla comprensione della
“logica della sovranità” esposta nella prima parte del libro, occorre tenere
presente che quando parliamo di potere, di potere sovrano, di sovranità non ci
riferiamo ad un ente, bensì ad una pratica, che in quanto tale è apertura di
senso e dà luogo ad una polarità
[5]
: da
un lato il diritto, dall’altro il referente proprio del diritto: il vivente
soggetto all’ordinamento giuridico. In questo senso Agamben può affermare che
la prestazione originale del potere sovrano è “la produzione di un corpo
biopolitico” che chiamiamo nuda vita (o, come vedremo, vita sacra).

Dovendo formalizzare la struttura
logica della sovranità, ci urtiamo al paradosso dell’eccezione. Come funziona
la figura logica dell’eccezione? Si tratta di una paradossale “esclusione
inclusiva”, come quella implicita nel potere di proclamare lo stato di
eccezione. Notoriamente secondo Carl Schmitt il potere sovrano è essenzialmente
“monopolio della decisione ultima”, ossia della decisione intorno alla
sospensione dell’ordinamento giuridico normale attraverso la proclamazione
dello stato di eccezione. L’articolo 48 della Costituzione della Repubblica di
Weimar assegnava al presidente questo potere, di cui il regime totalitario di
Hitler fece uso  ininterrottamente a
partire dal 28 febbraio 1933, instaurando una sorta di “stato di eccezione
permanente”. Il paradosso risulterà evidente non appena ci si chieda: dove si
colloca il sovrano rispetto alla legge, posto che ha il diritto di sospendere
il diritto?

Il
sovrano, che segna il limite (o l’evento) dell’ordinamento giuridico (ne
costituisce quindi la fine e il principio), è, nello stesso tempo, fuori e
dentro
l’ordinamento giuridico (in altre parole, la legge è fuori di se
stessa, giacché l’ordinamento giuridico riconosce al sovrano il potere di
sospendere l’ordinamento giuridico stesso). In questo senso l’eccezione è la
forma originaria del diritto, il presupposto delle coordinate giuridiche
fondamentali: ordinamento e localizzazione (Ordnung e Ortung).

Ci troviamo in una situazione analoga
passando da ordine politico a ordine logico: la relazione linguistica è
relazione di eccezione dal momento che nella parola la cosa è eccepita; la
parola esclude la cosa includendola; la parola si applica alla cosa solo nella
misura in cui abbandona la cosa al suo essere altro dal linguaggio, al suo
essere immediata datità prelinguistica. Ma che vi sia qualcosa come un
immediato prelinguistico, ciò è effetto del linguaggio, che quindi produce
l’irrelato in quanto presupposizione che rende possibile il riferimento
linguistico.

Come si istituisce il riferimento
giuridico? Se il nome significa la cosa, il diritto/la norma si
applica
al fatto. Quali sono le condizioni di possibilità di tale
applicazione della norma al fatto, ovvero di tale cattura della vita da parte
del potere sovrano? Il principio che rende possibile la vigenza della legge va
pensato come bando sovrano: in esso si istituisce la distinzione tra
diritto e fatto, ed è proprio questa “paradossale soglia di indifferenza tra
fatto e diritto” che va pensata fino in fondo: “Il bando è la pura forma del
riferirsi a qualcosa in generale, cioè la semplice posizione di una relazione
con l’irrelato. In questo senso esso si identifica con la forma limite della
relazione” (HS 35).

Su queste basi Agamben svolge una
serie di considerazioni che ci permettiamo di enunciare in forma di corollari:


         

la
sovranità costituisce una soglia indecidibile tra diritto e violenza, come
aveva intuito Pindaro nel celebre frammento 169 (Nómos, re di tutte le cose,
conduce con mano più forte giustificando il più violento
). La legge
giustifica il più violento; il diritto quindi ha a che fare con la violenza fin
dalla sua origine. È alla possibilità di spezzare questo nesso, o meglio di
recidere questo nodo che alludono le riflessioni del giovane Benjamin Per la
critica della violenza
.


         

La
comprensione della logica della sovranità esige un ripensamento dei concetti
metafisici di potenza e atto. Il bando sovrano è infatti potenza di affermare
la legge solo in quanto è in pari tempo potenza di non affermarla, o meglio di
sospenderla, di non passare all’atto. In altre parole: nello stato di eccezione
si manifesta l’impotenza del potere sovrano. Agamben, riprendendo l’idea
benjaminiana di una radicalizzazione dello stato di eccezione, allude qui ad
una prospettiva ulteriore,
[6]
in
cui si manifesta appieno l’implicazione reciproca tra ontologia e politica:
“pensare l’esistenza della potenza senz’alcuna relazione con l’essere in atto –
nemmeno nella forma estrema del bando e della potenza di non essere, e l’atto
non più come compimento e manifestazione della potenza – nemmeno nella forma
del dono di sé e del lasciar essere” (HS 55).


         

Nella
parabola di Kafka intitolata Davanti alla legge troviamo una perfetta
rappresentazione della struttura del bando sovrano: il contadino viene
interpretato da Agamben come la nuda vita abbandonata dalla Legge, che non
esige nulla da lui.

Chiarita la “logica della sovranità”
rimane impregiudicata una domanda in tutti i sensi decisiva: che cosa è
eccepito e catturato nell’ordine giuridico? Chi è il portatore del bando
sovrano? Si tratta della “nuda vita”, secondo l’enigmatica espressione adottata
da Walter Benjamin in Per la critica della violenza. Seguendo le
indicazioni di Benjamin appare illusorio ogni tentativo di purificare la nuda
vita dal diritto (e quindi dalla violenza giuridica) attraverso l’affermazione
del carattere sacro della vita stessa. In verità affermare la sacertà della
vita significa ribadire il potere del diritto, confermarlo e consolidarlo
ulteriormente. Si tratta piuttosto di indagare l’origine del dogma del
carattere sacro della vita, dogma tipicamente moderno, sconosciuto agli antichi
ma segretamente radicato in una figura del diritto romano arcaico. “Quando e in
che modo una vita umana è stata considerata per la prima volta come sacra in se
stessa?” (HS 76).

“Homo sacer” viene definito dal
grammatico latino Festo (II sec. d.C.) “colui che il popolo ha giudicato per un
delitto; e non è lecito sacrificarlo, ma chi lo uccide, non sarà condannato per
omicidio” (HS 79). Si tratta di una vita umana uccidibile ma non
sacrificabile, che eccepisce tanto l’ordinamento dello ius humanum
quanto le norme dello ius divinum. Se sacro è il vivente
giudicato colpevole di delitto, allora nel momento in cui la vita viene
dichiarata sacra in sé, ciò equivale a dichiararla colpevole. Ecco la violenza
propria del diritto: la nuda vita è portatrice del bando sovrano, ovvero del
nesso tra violenza e diritto perché è in quanto tale colpevole. Dunque sacra:
impura, malvagia, ma soprattutto insacrificabile e uccidibile. Pensiamo agli
ebrei nella Germania nazista: il fatto stesso del loro essere ebrei li rendeva
colpevoli, cioè sacri. La nuda vita in quanto dichiarata sacra viene deportata
nel campo: il campo è lo spazio in cui si manifesta appieno la sacertà della
vita, e campo vuol dire stato di eccezione.

L’homo sacer presenta la
figura originaria della vita presa nel bando sovrano. Il potere sovrano in
quanto produzione di un corpo biopolitico è produzione di homines sacri,
consacrazione del vivente, è quel processo che rende la vita propriamente
sacra, cioè uccidibile e non sacrificabile: il che è reso manifesto
propriamente solo nello stato di eccezione. Ma oggi l’eccezione tende a
diventare la regola. Va segnalata una evidente correlazione e simmetria tra
sovrano e homo sacer: “sovrano è colui rispetto al quale tutti gli
uomini sono potenzialmente homines sacri e homo sacer è colui
rispetto al quale tutti gli uomini agiscono come sovrani” (HS 93-94).

Il gesto, per noi consueto, che
consiste nell’affermare la sacertà della vita contro la violenza del potere
sovrano va quindi revocato in questione senza tentennamenti.

Possiamo trarre i seguenti corollari
dalla lettura della seconda parte dell’opera:


         

se
la decisione sovrana che sta alla base della comunità politica si riferisce immediatamente
alla vita dei cittadini, allora la vita “appare come l’elemento politico
originario, lo Urphänomenon della politica” (HS 121).


         

il
gesto esemplare di Bataille, consistente nel rivendicare l’esperienza del sacro
“negatività senza impiego”, e quindi trasgressione dell’ordine politico, in
verità non fa che ribadire l’ordine che pretenderebbe di contestare, senza
riuscire a spezzare il cerchio magico della (bio)politica occidentale.

Passando alla terza e ultima parte,
osserviamo che proprio attraverso il concetto di “nuda vita” o “vita sacra”
possiamo far convergere le prospettive aperte da Michel Foucault e Hannah
Arendt. Nella nuda vita infatti “l’intreccio di politica e vita è diventato
così intimo, che non si lascia analizzare agevolmente (HS 132).

Il discorso prende le mosse da una
genealogia della biopolitica che ripercorre velocemente alcune tappe decisive
in quel processo di “politicizzazione della vita” che si sviluppa nelle
democrazie borghesi a partire dalla rivoluzione francese. I diritti conquistati
dagli individui nel loro conflitto con i poteri centrali hanno preparato
simultaneamente “una tacita, ma crescente iscrizione della loro vita
nell’ordine statuale, offrendo così una nuova e più temibile assise al potere
sovrano da cui vorrebbero affrancarsi” (HS 133-34). Questo processo è
giunto a maturazione con gli stati totalitari del novecento, dove la
rivendicazione della nuda vita non conduce a un primato del privato sul
pubblico, come nelle democrazie di massa, ma la fa diventare il luogo per
eccellenza delle decisioni sovrane. “Solo perché la vita biologica coi suoi
bisogni era ovunque diventata il fatto politicamente decisivo, è
possibile comprendere la rapidità, altrimenti inspiegabile, con cui le
democrazie parlamentari hanno potuto rovesciarsi in stati totalitari e gli
stati totalitari convertirsi quasi senza soluzione di continuità in democrazie
parlamentari” (HS 134).

Agamben ricorda che la prima
registrazione della nuda vita come nuovo soggetto politico risale all’Habeas
corpus
del 1679. L’Habeas corpus costituisce la base della democrazia
moderna, che nasce quindi come rivendicazione ed esposizione del corpus
(non dell’uomo, né del cittadino). La nascente democrazia europea poneva al
centro della sua lotta con l’assolutismo non bíos, ma zoé, la
nuda vita nel uso anonimato, presa, come tale, nel bando sovrano. Ecco l’intima
contraddizione della democrazia moderna: “essa non abolisce la vita sacra, ma
la frantuma e dissemina in ogni singolo corpo, facendone la posta in gioco del
conflitto politico” (HS 137). “Se è vero che la legge ha bisogno, per la
sua vigenza, di un corpo, se si può parlare, in questo senso, del “desiderio
della legge di avere un corpo”, la democrazia risponde al suo desiderio
obbligando la legge a prendersi cura di questo corpo” (HS 137). La
politicizzazione della vita si estende e si consolida con le dichiarazioni dei
diritti nelle rivoluzioni americana e francese e con la conseguente
edificazione degli Stati-nazione.

Con la crisi del sistema degli
Stati-nazione innescata dalla prima guerra mondiale emerge il carattere astratto
dei diritti umani. Dilagano allora in Europa rifugiati e apolidi, mentre si
moltiplicano misure di denazionalizzazione e denaturalizzazione. Viene cioè
rimesso in questione il nesso fondativo nascita-nazione.

Gli
Stati-nazione compiono un reinvestimento della vita naturale discriminando al
suo interno una vita autentica (degna della cittadinanza) e una nuda vita priva
di ogni valore politico (gli ebrei potevano essere inviati nei campi di
sterminio solo dopo essere stati compiutamente denazionalizzati). Così i
diritti dell’uomo (che dal 1789 erano il presupposto di quelli del cittadino)
vengono separati dai diritti del cittadino e vengono utilizzati al di fuori del
contesto della cittadinanza al fine supposto di rappresentare e proteggere la
nuda vita (sempre più espulsa ai margini degli Stati-nazione).

A questo punto Agamben delinea una
cartografia della biopolitica novecentesca, che, dopo avere rinviato alle
ricerche di Hannah Arendt per quanto riguarda il problema dei rifugiati,
insiste su alcune figure esemplari della nuda vita eccepita nel bando sovrano:


         

i
malati che vengono reputati “indegni di vivere” e quindi passibili di
una eutanasia di stato. Il riferimento qui è un libro del 1920 intitolato Die
Freigabe der Vernichtung lebensunwerten Lebens
(L’autorizzazione
dell’annientamento della vita indegna di essere vissuta
), scritto dal
giurista Karl Binding e dal medico Alfred Hoche, che costituisce la prima
articolazione giuridica della struttura biopolitica della modernità: “la
decisione sul valore (o sul disvalore) della vita come tale” (HS 151).
Si tenga presente che nel febbraio 1940 il regime hitleriano emise un
provvedimento che autorizzava l’eutanasia “per malati non curabili” (Euthanasie-Programm
für unheilbaren Kranken
). Tale programma venne attuato per 15 mesi, fino
all’agosto del 1941. Vennero eliminate in tale contesto circa 60mila persone.
[7]

L’eutanasia, collocata all’incrocio tra la decisione sovrana sulla vita
uccidibile e l’assunzione della cura del corpo biologico della nazione, segna
il punto in cui la biopolitica si rovescia in tanatopolitica. Al sovrano, in
quanto può decidere dello stato di eccezione, spetta da sempre il potere di
decidere quando la vita possa essere da lui annientata senza commettere
omicidio. Ora nell’età della biopolitica realizzata, laddove l’eccezione tende
a diventare la regola, questo potere di decidere dell’impunità dell’annientamento
della vita tende ad emanciparsi dallo stato di eccezione “per trasformarsi in
potere di decidere sul punto in cui la vita cessa di essere politicamente
rilevante” (HS 157).


 


         

le
Versuchepersonen: le cavie per atroci esperimenti
pseudoscientifici selezionate dai medici nazisti tra gli internati nei campi
(in particolare ebrei e zingari). Attraverso tali esperimenti trovava
applicazione il programma eugenetico che mirava a stabilire il bilancio dei
“valori vivi di un popolo” e ad assumere la cura del “corpo biologico della
nazione”, dove centrale importanza per i calcoli del potere assumeva la
“sintesi logica della biologia e dell’economia”. Si noti: il dato biologico è,
come tale, immediatamente politico e viceversa. La politica, secondo il medico nazista
Verschuer, è “il dar forma alla vita del popolo” (HS 164). Un dato
naturale (l’eredità biologica del popolo tedesco) tende a presentarsi come un
compito politico (la cura del popolo, l’eugenetica come difesa della eredità
genetica da degenerazioni e contaminazioni). Il problema è che “esperimenti su
detenuti e condannati a morte erano stati condotti più volte e su larga scala
nel nostro secolo, in particolare proprio negli Stati Uniti” (HS 174).
“Condannati a morte e abitanti dei campi sono in qualche modo inconsciamente
assimilati a degli homines sacri, a una vita che può essere uccisa senza
commettere omicidio” (HS 177).


 


         

l’oltrecomatoso
o néomort. Attraverso l’analisi di alcune
pubblicazioni scientifiche relative al problema dell’oltrecoma e della
ridefinizione del criterio di morte grazie alle nuove tecnologie di trapianto
(dalla morte somatica “tradizionale” alla morte cerebrale), possiamo osservare
che “oggi vita e morte non sono propriamente concetti scientifici, ma concetti
politici, che, in quanto tali, acquistano un significato preciso solo
attraverso una decisione” (HS 183). Agamben qui mostra come l’intreccio
tra politica, diritto e medicina sia diventato ormai un fenomeno generalizzato
(e quindi non riguarda solo uno tra i capitoli più infami della biopolitica
nazista). Si sta giocando ai nostri giorni una partita importante, la cui posta
in gioco è eminentemente politica: la ridefinizione del criterio di morte è una
delle questioni biopolitiche più significative e importanti nel contesto delle
strategie del biopotere (assumere il criterio della morte cerebrale permette
infatti di poter disporre legalmente di un corpo biologicamente ancora vivo:
l’oltrecomatoso è una “nuda vita”, un “faux vivant” inerme sul quale le
biotecnologie possono esercitare il loro potere). “La camera di rianimazione
dove fluttuano tra la vita e la morte il neomort, l’oltrecomatoso e il faux
vivant
delimita uno spazio di eccezione in cui appare allo stato puro una
nuda vita per la prima volta integralmente controllata dall’uomo e della sua
tecnologia” (HS 183-84). Non stupisce perciò che ci sia addirittura chi
invoca l’intervento dello stato sul falso vivo, affermando che “gli organismi
appartengono al potere pubblico”.


 

Homo sacer si conclude indicando un compito
urgente: si tratterebbe di rifondare la filosofia politica sulla base di una
topologia dello stato di eccezione che risponda a queste domande:
che cos’è un campo? Qual è la sua
struttura giuridico-politica? Il campo costituisce infatti la matrice nascosta,
il nómos dello spazio politico in cui ancora viviamo.

La prima apparizione dei campi
risale al 1896, quando vengono istituiti dei campi a Cuba da parte degli
spagnoli; poco dopo gli inglesi istituiscono campi di concentramento per i
boeri in Sudafrica.
[8]

In entrambi i casi si tratta della estensione a un’intera popolazione civile di
uno stato di eccezione legato a una guerra coloniale. Dunque i campi non
derivano dal diritto penale ordinario, né da quello carcerario, bensì dallo
stato di eccezione e dalla legge marziale (nel caso del Terzo Reich dalla Schutzhaft,
la ‘custodia protettiva’ come misura di polizia preventiva introdotto in
Prussia nel 1851). Che cos’è dunque il campo? “Il campo è lo spazio che si apre
quando lo stato di eccezione comincia a diventare la regola” (HS 188).
Il campo è il più assoluto spazio biopolitico che sia mai stato realizzato, in
cui il potere non ha di fronte a sé che la pura vita senz’alcuna mediazione.
“Il campo è il paradigma stesso dello spazio politico nel punto in cui la
politica diventa biopolitica e l’homo sacer si confonde virtualmente col
cittadino” (HS 191).

Dunque la nascita del campo nel
nostro tempo appare come un evento che segna lo spazio politico della modernità
(un quarto elemento che spezza la vecchia trinità territorio-ordinamento-nascita
che definiva la struttura dello Stato-nazione). “Lo scollamento crescente
fra la nascita (la nuda vita) e lo Stato-nazione è il fatto nuovo della
politica del nostro tempo e ciò che chiamiamo campo è questo scarto” (HS
196).

L’affermazione della biopolitica si
accompagna ad uno spostamento e a un progressivo allargarsi al di là dei limiti
dello stato di eccezione della decisione sulla nuda vita in cui consisteva la
sovranità. “Il campo è il nuovo nomos biopolitico del pianeta” (HS 198).


 

3.
CONCLUSIONE: PER REVOCARE IL FONDAMENTO DELLA VIOLENZA.

In che cosa consiste la “violenza
del fondamento” su cui poggiano sia l’ontologia che la politica occidentali?
Consiste essenzialmente nella pretesa di cancellare la differenza tra potenza e
atto: tra voce e linguaggio nel caso della tradizione ontologica; tra vita
naturale e esistenza politica nel caso della tradizione politica (in generale
tra natura e cultura). Consiste nella volontà di negare lo scarto irriducibile,
paradossale, problematico, immanente all’essere umano in quanto
vivente/parlante. Consiste nella pretesa di far sì che l’uomo coincida senza
residui
con se stesso, di far sì che la frattura metafisica originaria
della presenza venga occultata (a tutti i livelli: ontologico, semiologico,
giuridico, etico-politico): pretesa di occultare/rimuovere l’aporia (l’enigma
come giuntura di cose impossibili) invece di farne esperienza fino in fondo. Si
noti che proprio in questa pretesa – che va letta ad un tempo come  istanza metafisica e come volontà politica –
Levinas, in un articolo del 1934, individuava il nucleo della “filosofia
dell’hiterismo”, che si fonda appunto “su un’assunzione senza riserve della
situazione storica e materiale, considerata come una coesione inscindibile di
spirito e corpo, eredità naturale e eredità culturale”.
[9]

L’intento di Agamben è quello di
sgomberare il campo “verso quella nuova politica che resta in gran parte da
inventare” (HS 14), verso “una politica integralmente nuova, cioè non
più fondata sull’exceptio della nuda vita” (HS 15). Per fare ciò
è necessario sottoporre ad una “revisione senza riserve” le nozioni
fondamentali che le scienze umane hanno presupposto come evidenti. Si tratta di
revocare in questione il fondamento stesso della tradizione per spezzarne
l’incantesimo, la “vigenza senza significato”.

Il che significherebbe, per
mantenere il lessico di Homo sacer, portare all’estremo il bando,
ovvero “suscitare il vero stato d’eccezione”
[10]
. Qui
il discorso si complica ulteriormente: occorre mettere in questione la forma
stessa della relazione “e chiedersi se il fatto politico non sia per caso
pensabile al di là della relazione, cioè non più nella forma di un rapporto” (HS
35). Occorre frequentare il linguaggio non per inseguire l’ineffabile (che è
solo il pre-supposto del fatto linguistico), ma per dimorare nel linguaggio:
“Dunque il linguaggio è la nostra voce, il nostro linguaggio. Come tu
ora parli, questo è l’etica”.
[11]

Lo scioglimento del bando, come
quello del nodo gordiano, non assomiglia tanto alla soluzione di un problema
logico o matematico, quanto a quella di un enigma. “L’aporia metafisica mostra
qui la sua natura politica” (HS 56).

In altre parole, si tratta di
pensare il passaggio dalla potenza all’atto non come distruzione della potenza
(non in termini negativi: come toglimento della voce nel linguaggio, come Ausnahme
della vita nell’ordinamento giuridico), ma come “il rivolgersi della potenza su
se stessa per donarsi a se stessa” (HS 53). Il passaggio dalla potenza
all’atto non è distruzione, ma compimento della potenza, che si compie nel
punto in cui depone la sua potenza di non essere, la sua adynamía
(quando “nulla sarà di potente non essere”, oudén éstai adýnaton, Met.
1047a 26). Agamben ci invita a “pensare l’esistenza della potenza senz’alcuna
relazione con l’essere in atto” (HS 55). In tal modo riusciremo forse a
fare quel “passo-indietro-al di là” della metafisica che ci permetterà di
sciogliere il bando sovrano in cui siamo inconsapevolmente imprigionati da due
millenni e mezzo. Ecco il compito politico più urgente: pensare la passione in
quanto puro aver luogo della potenza.


 






[1]
Si veda Il linguaggio e
la morte
, Einaudi, Torino, 1982.


[2]
Infanzia e storia,
Einaudi, Torino, 2001, p. X (prima ed. 1978).


[3]
G. Manganelli, Contributo
critico allo studio delle dottrine politiche del ‘600 italiano
, a c. di P.
Napoli, Quodlibet, Macerata, p. 17.


[4]
“Che la ricerca della
Arendt sia rimasta praticamente senza seguito e che Foucault abbia potuto
aprire i suoi cantieri sulla biopolitica senz’alcun riferimento ad essa,
testimonia delle difficoltà e delle resistenze che il pensiero doveva scontare
in questo ambito” (HS 6). “Che i due studiosi che hanno pensato forse
con più acutezza il problema politico del nostro tempo non siano riusciti a
incrociare le proprie prospettive è certamente indice della difficoltà di
questo problema” (HS 132).


[5]
Per una tematizzazione
filosofica del concetto di “pratica” si veda C. Sini, Etica della scrittura,
Il Saggiatore, Milano, 1992, pp. 143 ss.


[6]
Si veda in proposito La
comunità che viene
, Bollati Boringhieri, Torino, 2001 (già apparso da
Einaudi nel 1990).


[7]
Si veda L. Poliakov, Il
nazismo e lo sterminio degli ebrei
, Einaudi, Torino, pp. 250 ss.


[8]
Uno strumento utile da
questo punto di vista è: J. Kotek, P. Rigoulot, Il secolo dei campi.
Detenzione, concentramento e sterminio: 1900-2000
, Mondadori, Milano, 2001.


[9]
La citazione è tratta
dalla “Introduzione” di G. Agamben a: Emmanuel Levinas, Alcune riflessioni
sulla filosofia dell’hitlerismo
, Quodlibet, Macerata, 1996, p. 7.


[10]
L’espressione è tratta
dalla ottava tesi sul concetto di storia di Walter Benjamin (Sul concetto di
storia
, a c. di G. Bonola e M. Ranchetti, Einaudi, Torino, 1997, p. 33).


[11]
Il linguaggio e la
morte
, cit., p. 139.

 

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